Cultura | Letteratura

Ginzburgmania

Nanni Moretti il 9 ottobre porterà al teatro due sue commedie, Fragola e panna e Dialogo, ultimo capitolo di una riscoperta della scrittrice che prosegue ormai da diversi anni, anche e soprattutto fuori dall'Italia.

di Davide Coppo

Non mi ricordo il nome – non so nemmeno se lo ha, un nome – di quel fenomeno per cui una volta che ti accorgi di una cosa poi ti sembra di vederla dappertutto. Può essere il volto di un attore o un’attrice, o un capo di abbigliamento, oppure una persona che non vedevi da anni e poi, da un certo momento in poi, incontri ovunque. A me è successo con Natalia Ginzburg. Da quando ho ripreso a leggerla con assiduità, per superare i primi incontri scolastici, non ho mai smesso di vederla citata e fotografata.

È il 2019 quando Joan Acocella, sul New Yorker, scrive: «There’s a Natalia Ginzburg Revival going on». A distanza di quattro anni, il revival continua: ad esempio, il 9 ottobre due sue commedie tornano a teatro per la prima regia nella carriera di Nanni Moretti. Sono Fragola e panna e Dialogo. Einaudi, per l’occasione, le ha ripubblicate in un solo volumino nella sua collezione di teatro, 80 pagine felici e malinconiche sull’amore e le coppie, e come entrambe le cose si sfilacciano, alla fine del giorno. Quando è iniziata, mi sono chiesto, la passione contemporanea (un nuovo ciclo, una nuova onda) per una scrittrice che è nata più di cent’anni fa?

«Forse il merito è del successo di Elena Ferrante», scrive sempre Joan Acocella, e poi: «Prima che la Trilogia fosse pubblicata in inglese (2012-2015), chi è che parlava dei romanzi italiani del Novecento? Sì, c’era Primo Levi, ma per motivi più storici che letterari (sbagliato, mi intrometto io). Ma il resto della generazione italiana del Dopoguerra – Carlo Levi, Alberto Moravia, Cesare Pavese, Elsa Morante, Giorgio Bassani – è stata ampiamente trascurata negli ultimi decenni». È stato così: pure se Ferrante, con Ginzburg, c’entra poco e niente, il mercato segue logiche mimetiche. E quindi nel 2017 esce negli Stati Uniti una nuova traduzione di Lessico Famigliare, nel 2019 arriva Caro Michele. Natalie Portman si fa una foto all’inizio del 2022 mentre legge Tutti i nostri ieri su Instagram per il suo book club (più avanti parlerà anche de Le piccole virtù). Lo stesso anno, Sally Rooney dirà proprio che Tutti i nostri ieri è, per lei, il romanzo perfetto.

Domenico Scarpa è un critico letterario che cura per Einaudi proprio le opere di Natalia Ginzburg, allora gli ho chiesto lumi. Lui ha risposto: «Sono anch’io al corrente degli articoli e saggi e prefazioni che continuano a uscire in ogni parte del mondo, e delle edizioni, ristampe e nuove traduzioni che ovunque si moltiplicano. La fortuna internazionale di Natalia Ginzburg in questi ultimi anni mi sembra in parte un fenomeno contingente, determinato da fatti che non riguardano lei, come la fortuna di Elena Ferrante con effetti di trascinamento su altri nomi che, a ragione o a torto (e, secondo me, a torto), vengono accostati al suo. C’è anche, però, un fenomeno di lunga durata, di profondità, che a ondate si manifesta in superficie, ed è il più importante, perché riguarda non i temi narrativi veri o presunti, non l’appartenenza culturale bensì il linguaggio, il suo tono, i suoi ritmi, la natura stessa del raccontare, la capacità di esprimersi al di là e al di sotto delle parole, la perentoria irrecusabilità delle idee, anzi, della stamina morale. Ed è da questi elementi soprattutto che scrittrici, scrittori, saggisti di ogni paese si sentono rapiti e quasi, si direbbe, marchiati o stregati».

Come visto prima, oltre agli articoli e ai saggi, questa nuova Ginzburgmania tracima in una sfera anche più dinamica e pop. Tipo Instagram: con le copertine fotografate nella luce giusta, le citazioni, le sottolineature. Quest’estate Ludovica Lugli, che lavora per Il Post e co-conduce un podcast sui libri che si chiama Comodino, aveva fatto un sondaggio su quel social in cui chiedeva ai suoi follower quali fossero i libri più “instagrammati” nel loro feed di quell’agosto vacanziero. Vinceva, naturalmente, Coco Mellors con Cleopatra e Frankenstein, ma Le voci della sera era l’unica opera non uscita nel 2023 ad aver raggranellato diversi voti (a parte Una vita come tante, eterno tormentone TikTok). Le ho chiesto della contemporaneità di Ginzburg, mi ha scritto un messaggio in cui parla di un’ipotesi generazionale legata a una condizione esistenziale propria dei Millennial: «Ormai siamo persone definite, adulte, che hanno smesso di mettersi in discussione, ma sedimentate solo nella propria personalità e non ancora nei propri rapporti con i significant other e con le eventuali forme di famiglia che vogliamo. L’ossessione di Ginzburg sono le famiglie, quindi proprio ciò che in questo periodo forse ci troviamo a indagare in prima persona e osservando quelle dei nostri amici in via di definizione, e possiamo sentirci affini al suo sguardo di osservatrice partecipe ma non sentimentale, consapevole, ma mai melodrammatico».

Le famiglie, ma non tutte le famiglie. «Si è talvolta rimproverato alla Ginzburg di raccontare storie di famiglie borghesi», scrive Cesare Garboli in una prefazione. Una classe intesa non soltanto in senso economico ma anche culturale, già in declino quando la Ginzburg scriveva i suoi ultimi testi, che sta eclissandosi con rapidità in questo ventennio. Allora leggere le loro vicende domestiche, penso, è un balsamo che rimanda a un senso di sicurezza che percepivamo nell’infanzia, nelle vite dei genitori Boomer, e che è scomparso poi dall’orizzonte con l’età adulta, la precarietà, le recessioni. Sono le descrizioni di case che non potremo più abitare, il conforto anche ipocrita del matrimonio, le seconde case, i lavori che duravano una vita e l’ampiezza del tempo libero. Gianluca Nativo, scrittore appena uscito con il romanzo Polveri sottili (Mondadori), ha messo proprio una frase di Ginzburg in esergo. Dice: «Di Ginzburg a noi Millennial piace il taglio malinconico, l’incertezza del futuro, quelle narrazioni ellittiche in cui dirsi cosa si prova non è mai cosa facile».

È questa tipica mezza disperazione che ha un’eco nei Millennial e forse anche nella Gen Z, perché sono tristezze che non passano mai di moda, ancora molto adatte a questo tempo. Clara, la sorella di Valentino nell’omonimo romanzo, sembra una giovane lavoratrice alle prese con uno smartworking che non le lascia respiro e un figlio da accudire da sola. E ha un brutto mal di denti ma non se lo cura, rifiuta l’aiuto della sorella, rifiuta i soldi, rifiuta di uscire e si abbruttisce in casa da sola: va in goblin mode. Oppure c’è Anna, che in Tutti i nostri ieri si fa scegliere dall’uomo sbagliato e trascinare da eventi che non ha la forza di manovrare: «Le pareva d’essere andata fuori della sua vita, lontano lontano da casa, con mille lire lungo strade ignote». Come può una generazione come la nostra, immatura anche a quarant’anni, eternamente giovane, confusa costantemente per colpe proprie e altrui, non identificarsi nell’ultima scena del libro, quando Anna e i suoi fratelli guardano l’orizzonte e pensano «alla lunga vita difficile che si trovavano adesso davanti e che era piena di tutte le cose che non sapevano fare»?

Capita poi che ci siano personaggi chiusi, egoriferiti come i mitomani dei social. Succede per esempio in Caro Michele, e Cesare Garboli, nella prefazione, li descrive come si potrebbe fare per un microinfluencer: «Ciascuno parla di sé o non parla affatto. Ciascuno vive del proprio inutile, ingombrante, faticoso egoismo».

Dialogano, questi personaggi, con un gergo vivace e palpitante, letterario ma orale, che sembra non essere invecchiato di un giorno. Non si può dire che sia di una certa epoca, perché è un modo di parlare realistico, gergale, sgrammaticato, ma comunque inventato. In grado, pare, di potersi potenzialmente adattare ai vocali e ai Whatsapp, per questa sua libertà e rapidità e asciuttezza.

Un ruolo importante ce l’ha la lingua, infine. Dice ancora Domenico Scarpa: «È una lingua che con il passare degli anni sempre più sorprende per compattezza, per incisività, per la precisione con cui ha saputo ritagliare, dentro le lingue italiane scritte e parlate del secondo Novecento, uno scritto scabro, asciutto, icastico, e un parlato persuasivo, versatile, divertente. È una lingua che continua a parlare alle menti e ai corpi». Nativo, similmente: «Siamo attratti dall’economia dei mezzi espressivi: lo stile basso dell’autrice, come lo definiva Montale, non è così distante da quello di Sally Rooney, mi si perdoni il paragone».

Sembra insomma di essere seduti nel 2023 in un bar a Milano, Palermo o Roma a sentire Francesco, in Dialogo, descrivere un’amica esageratamente eccentrica così: «Questa Angelica invece è snob. Piena di amiche messicane finte povere. Forse anche finte messicane». E ci ritroviamo tutti, alla fine di un burnout lavorativo, di un amore finito, di un altro anno portato avanti senza certezze, a pensare come la povera Barbara di Fragola e panna: «Ma come farò, tutta la vita? Sarà tutta la vita così?».