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Solo il pessimismo può salvarci dai motivatori

Siamo circondati dal loro ottimismo, da manuali di self help nelle librerie e frasi d'occasione sui social. Ma il pessimista lo sa: la natura umana è un'altra.

di Antonio Pascale

Aiuto, sono circondato: ho un sacco di persone che vogliono aiutarmi. Aiutarmi è un eufemismo, desiderano farmi superare le correnti gravitazionali, non farmi invecchiare, portarmi verso la felicità, avere cura di me.

Spuntano da ogni dove, sui social sono onnipresenti, su certi giornali non ne parliamo, li incontri anche per strada, sembrano i figli di quel vecchio adagio del poeta: danno buoni consigli non potendo più dare cattivo esempio. Aiuto! Sono circondato dai motivatori, gridano felicità felicità, e cercano di vendermi il loro corso di self help.

Ce ne sono di vari tipi, tra i più molesti quelli che contano le ore del mio sonno. Uno dice che i ricchi non dormono, quindi meglio che ti svegli alle cinque, e vai a correre, dedichi un po’ del tuo tempo migliore ai figli (citano, non sapendo, un vecchio album dei Pooh, che era così così tra l’altro), vai in zoom e cominci a lavorare. Un altro è più drastico, alle cinque non va bene, meglio alle quattro, l’ora giusta per andare a correre, insomma prima che quelli che si svegliano alle cinque occupino il campo da gioco, poi in zoom ecc. L’ultimo in ordine di tempo, e indubbiamente un rivoluzionario radicale dei motivatori, è Gianluca Vacchi: che dormi a fare? Hai tutta l’eternità per dormire, quindi propone una vita intensa e continuativa.

Che poi ti alzi alle cinque e vai a correre e sei solo, torni, cerchi di parlare con tua figlia e quella dorme in pace che è una bellezza, vai in Zoom e ci sei solo tu, dunque, ore e ore a parlare da solo, eccitando quell’aspetto deleterio della natura umana che è la confabulazione e quando il mondo si palesa, arzillo e propositivo, a te che hai corso da solo, parlato da solo, confabulato per ore, scappa pure uno sbadiglio e ti vergogni e dici: scusate, mi sono svegliato presto stamattina.

I motivatori sono dei maledetti ottimisti e te lo devono dire, imporre, far capire. Sono preti laici, figli di un catechismo fatto male (che già quando è fatto bene è disturbante…). Gli ottimisti sono molto forti nella speranza e di questo a volte li ringraziamo, ma a parte che concepiscono la speranza in modo stereotipato, la speranza mia deve essere uguale alla tua, così come la mia felicità assomiglia a quella di tutti: una malsana idea di giustizia spirituale. Ma a parte questo, gli ottimisti hanno altri difetti che poi sono i difetti del nostro tempo peggiore (che se si chiamava così l’album del Pooh era meglio). Concepiscono solo storie in tre atti, caduta, riflessione e ascesa, che altro non è che un modo per occultare lo spirito megalomane che purtroppo ci anima, quello che ci fa pensare di essere responsabili di tutto perché appunto abbiamo un ego smisurato che occupa tutto e basta poco per superare le correnti gravitazionali. 

In conseguenza di questa narrazione, gli ottimisti sono forti nella speranza (dei tre atti) ma molto deboli nella consolazione. Se sbagli (o meglio: non segui i loro consigli) poi sono cazzi tuoi. Non guadagni abbastanza, colpa tua, sei malato e non sei guarito? E con chi te la vuoi prendere? Logica vuole che se segui i tre atti arriva la risoluzione dei conflitti: ah, se questi motivatori avessero ascoltato nelle ore di veglia mattutina la canzone dei Csi “Non torna” che dice «a me non torna niente, niente torna mai». 

Gli ottimisti, motivatori preti laici con tonaca d’occasione, credono nell’io interiore che proprio perché è interiore è autentico. Dite la verità: anche voi non ne potete più dell’interiorità e di conseguenza dell’autenticità, vero? Ditemelo, dai, non fatemi sentire isolato e confabulante. Dove starebbe questo io autentico, in quale angolo si nasconde? 

Ah, se avessimo letto e dato ascolto alla buonanima di Jervis quando rifletteva con una serie di articoli sul mito dell’interiorità. Ma poi perché l’esteriorità dovrebbe essere falsa e l’interiorità vera? Perché quello che appare agli altri dovrebbe essere malsano e quello che c’è dentro invece è sano? Magari sei stronzo dentro e fuori, magari il contrario, magari ti autocontrolli (il vero nostro angelo) e metti a tacere i bollori che dentro si agitano, oppure non ti autocontrolli e fai casini: la banale complessità dell’io, la stessa storia di sempre, altro che interiorità. 

Ma i motivatori ottimisti sono tragici figli dei romantici, credono nell’io autentico, un luogo stracolmo di valori. Perché? Perché con le loro storie di self help in tre atti ti devono dire che c’è un bambino mortificato dentro di te, non resta altro che nutrirlo e farlo crescere: cioè essere un monomaniaco, io valgo, io sono eccetera.

I motivatori ottimisti sono indefessi sostenitori del libero arbitrio senza se e senza ma. Dunque, tirando le leve giuste, sarai nel posto giusto: e questo vale per la politica, per le scalate in società e per la tua felicità. Che presunzione eh, che senso di onnipotenza, pensare che sei tu che fai la storia, e le due divinità vere, reali, tangibili non certo inventate dai motivatori religiosi del tempo, le due divinità dicevamo, il Tempo e il Caos non esistono o sono controllabili grazie ai consigli del motivatore di turno. Una presunzione che non porta niente di buono, se non alimentare la speranza e mortificare la consolazione.

Circondato da motivatori preferisco il pessimismo. Che va bene, ammetto, è scarso nella speranza ma perlomeno è fortissimo nella consolazione. Il pessimismo è una dimensione molto utile e proficua, nonché strumento di indagine privilegiato e non fanfarone. Il pessimismo illustra bene la natura umana, altro che io interiore e sveglia mattutina. 

La prima cosa che si sente svegliandosi alle cinque – e ve lo dice un insonne cronico – è una sola, definitiva: la vita non ha nessun senso. Si sente proprio. La vita non ha senso ed è questa la vera scoperta che riguarda l’interiorità. Non è mia, tua, del motivatore di turno. Riguarda tutti. La prima donna o il primo uomo che nel Paleolitico avrà alzato gli occhi al cielo con un barlume di coscienza questo avrà pensato: che ci faccio qua? È un’angoscia primordiale, è la nostra ferita atavica e inguaribile che il pessimista ha perlomeno visto e nei casi migliori ha saputo accettare.

La seconda cosa che impari da insonne è connessa con la prima: la vita è possibile solo se è discontinua, cioè se dormi, altrimenti è impossibile, ti fa male la ferita, veramente smettetela di consigliare l’insonnia: dormite, se non volete alzare la già alta tendenza al suicidio.

Come reagiamo alla ferita in fondo segna la differenza tra ottimisti e pessimisti: l’ha spiegato un filosofo norvegese, Peter Wessel Zapffe con un impedibile breve saggio scritto negli anni Trenta, L’ultimo Messia. Quando sentiamo la ferita diciamo va bene, ma in fondo ho una famiglia, una comunità, una patria, cioè cerchiamo un ancoraggio, qualcosa di sicuro con i confini ben definiti che mi tenga al riparo dagli intrusi (su quanto la comunità con la scusa di ripararti dalla ferita, possa essere violenta poi quello è un altro discorso). Oppure ci si distrae: in fondo il Napoli ha vinto lo scudetto – e ha cominciato bene il campionato – ma a me che mi frega dell’angoscia? Oppure si isolano questi pensieri cupi: lasciali marcire in qualche angolo del tuo io interiore, almeno l’io interiore serve a qualcosa. O infine sublimiamo il tutto, cioè attraverso l’arte trasformiamo l’angoscia in dolore, perché l’angoscia non la puoi condividere, il dolore sì. In linea con quello che diceva la buonanima di Freud che vabbè qualcosa ha sbagliato ma quando un suo paziente gli chiese se poteva guarirlo lui rispose: «No! Ma posso abbassare il suo dolore ora così alto in una dimensione di dolore comune, contro il quale sarai più protetto».

Gli ottimisti fingono di non saperlo: che non si può guarire e vogliono prendersi cura di te, un lascito a tratti violento dei romantici e di Battiato. I pessimismi lo sanno: non si può guarire. Puoi cercare dei compromessi accettabili, compromessi che conserveranno tensioni e conflitti, d’altra parte l’equilibrio è la morte, l’assenza di ogni perturbazione. 

I pessimisti sanno che la nostra vita è solo una storia tra le tante, l’importante è capire come si racconta. Il pessimista tiene in conto la ferita, e ascolta il Tempo e il Caos. Il pessimista sa che la ferita si declina su 4 pilastri che fondano la natura umana: sintomi, quelli che ci avvisano della ferita e ci rendono fragili (vomito, diarrea, febbre e dolori psicosomatici), trade off (la nostra stessa postura eretta si regge su un compromesso, mani libere ma mal di schiena, senso dell’avventura ma canale del parto piccolo dunque, mortalità delle donne e neonato con cervello piccolo che non sa far niente e necessita di cure), mismatch (siano dissonanti, l’ambiente cambia velocemente noi no) e infine abbiamo dei precursori naturali, una serie di istinti  abitudini dure a morire. 

Siamo così, pensate che davvero basti un manuale di self help o due frasi d’occasione su TikTok per aggirare milioni di anni di evoluzione? Dai, diamo fiducia a Gianluca Vacchi o chi per lui e non a Darwin o meglio a Massimo Troisi quando suggerisce: ricomincio da tre, perché lo sa che non si può, con queste premesse, ricominciare da zero.

Cosa può dare un pessimista? Può raccontare storie diverse, non in tre atti, non più secondo la maledetta logica di ascesa e caduta e di nuovo ascesa, tutta incentrata su di noi e che sta rovinando il mondo, la politica, la società, derubricando tutto a volere è potere (come e fossimo davvero coscienti del nostro volere e il potere fosse davvero un fine), ma aprirsi alla complessità del mondo e alle influenze notevoli e costanti che rimbombano dentro di noi, influenze che  spostano i nostri passi e ci costringono poi a raccontare la storia col senno di poi: ecco come sono arrivato fin qua, merito mio. Il senno di poi, altro grande inganno della natura umana. 

Abituarci poi alle strazianti grida di dolore a cui Giacomino nostro ci ha preparato. Come quando, mandando al diavolo le migliaia di motivatori del tempo che vogliono da sempre imporci la felicità, ci dice che la felicità è possibile solo se è procrastinabile. Perciò quasi urla al garzoncello di godersi il sabato – uno grido straziante, simile a quelli emessi da Kafka e che CB, per esempio, mi ha fatto sentire una volta durante una lettura di Leopardi, a Caserta Vecchia: un acuto mai più dimenticato.

Infine, il pessimista potrebbe offrire un abbraccio a tutti, consolante e riappacificante. In nome della ferita e delle stupide storie che raccontiamo per lenire l’insensatezza. Il pessimista non si fa mancare quel certo sguardo realistico e ironico, come quando un motivatore si è avvicinato a me, giurandomi che il suo ottimismo era dovuto a un libro che l’aveva aiutato a uscire da una brutta depressione. E mi raccontava di quanto stava meglio ora, di come, svegliandosi alle cinque ogni giorno, avesse ripreso in mano la sua vita, di come aiutasse gli altri a seguire il suo stesso percorso… e io non so, ma forse sensibile al tema come sono, ho notato le sue spalle spioventi, il suo tono in fondo cupo e insomma ho sentito la sua sofferenza, come se avesse ingoiato una lametta e questa lo stava facendo a pezzi dall’interno: la solita vecchia ferita, quella di tutti noi.

Ci siamo salutati e persi una possibilità. Se solo l’avesse detto che stava a pezzi, avrei potuto abbracciarlo, invece di costatare il buco nero con cui stava lottando, cercando di sottolineare i colori dell’orizzonte degli eventi, prima o poi destinati a collassare.