Quello tra letteratura e moda è da sempre un flirt complicato

Molti scrittori e scrittrici del passato erano grandi appassionati di moda: a un certo punto, però, c'è stata una separazione, tanto che oggi può sembrare strano che la moda si interessi alla letteratura, e viceversa. Cos'è successo?

Pubblichiamo la conversazione tra Olga Campofreda, scrittrice e curatrice del Miu Miu Literary Club, Maria Luisa Frisa, scrittrice e teorica della moda, e Davide Coppo, scrittore e giornalista di Rivista Studio, andata in onda al Festivaletteratura di Mantova 2025, con il titolo “La moda fa la scrittura”, all’interno della rassegna “Questioni di stile”, supportata da L.B.M. 1911.

Olga Campofreda: Questioni di Stile è una serie a cui ho cominciato a pensare dalla fine dello scorso Festivaletteratura, in dialogo con Simonetta Bitasi. Ci eravamo rese conto che erano veramente tanti i libri di moda che approfondivano anche la connessione con la letteratura e viceversa, era tanta la letteratura che cominciava ad avvicinarsi alla moda. E allora, quale occasione migliore che il Festivaletteratura di Mantova per parlare di questo rapporto? Sono con Maria Luisa Frisa, teorica della moda, fondatrice del programma in Fashion Design e Multimedia Art alla IUAV di Venezia, e Davide Coppo, scrittore e giornalista di Rivista Studio.

Vorrei iniziare questa chiacchierata tra moda e letteratura con un’immagine: quella di Donatella di Pietrantonio nella serata finale del Premio Strega dello 2025, vestita in abito Etro. Da un po’ di tempo non è una novità che i brand di moda si siano avvicinati a scrittori e scrittrici, in questo caso in un momento di grande visibilità come quello della finale dello Strega. L’anno scorso mi aveva molto colpito il commento di un giornalista di moda, Antonio Mancinelli del Foglio, che diceva, un po’ perplesso: ma gli scrittori sfruttano la visibilità del brand oppure sono i brand che sfruttano la visibilità degli scrittori? Eppure sono esistiti molti esempi nel passato di scrittori e scrittrici che erano dei grandi appassionati di moda. Quando c’è stata una separazione? Cioè, cos’è successo per cui a un certo punto questo rapporto si è interrotto tanto che oggi a un giornalista sembra strano che la moda si interessi alla letteratura, e viceversa?

Maria Luisa Frisa: Prima di tutto io direi che la moda è un sistema molto complesso, che occupa molto spazio nelle nostre vite, in forme molto diverse, che vanno dal rapporto personale che noi intratteniamo con gli abiti ogni mattina, quando ci guardiamo alla specchio, al rapporto che abbiamo quando ci presentiamo nella società. Ma in tutto questo c’è poi la moda come sistema che ha bisogno continuamente di trovare degli spazi che possa occupare. La moda è un sistema pervasivo, ecco. Però proprio perché l’abito è diventato così fondamentale nella definizione di noi stessi, diventa anche comune il desiderio di… presentarsi bene.

Quindi Donatella di Pietrantonio, che si è vestita Etro, ha fatto bene: lei in quel momento sapeva di andare in un luogo in cui sarebbe stata fotografata moltissime volte, avrebbe avuto gli occhi puntati su di lei, e la sua immagine avrebbe fatto il giro di televisioni, riviste, siti, e quindi desiderava vestirsi bene. E probabilmente qualcuno le ha consigliato Etro perché il designer che fa Etro, che è Marco de Vincenzo, è una persona molto sensibile alla cultura. Però io non direi che Donatella Di Pietrantonio è diventata un’influencer.

Dobbiamo cominciare a considerare la moda, come diceva lo storico Richard Martin, una disciplina della contemporaneità. È una delle discipline che procedono accanto all’arte, alla letteratura, al cinema. Certo, la moda si nutre moltissimo di tutte queste discipline, proprio perché è molto veloce, è molto attenta a quello che succede, e a volte ci sembra che queste cose vengano consumate dalla moda. 

Davide Coppo: In realtà è una cosa che poi succede anche da molti più anni, secondo me in questo caso ha fatto parlare di più per una questione di classe e di età: Di Pietrantonio è un medico, ha più di 60 anni, e la moda viene considerata troppo frivola per una donna matura e con una professione così seria. Ma negli anni precedenti io ricordo Claudia Durastanti in Cinquina con La straniera che indossava un bellissimo abito Missoni. Oppure anche Paolo Cognetti che quando vinse, nel 2017, sfoggiava una cravatta alla Lavallière, tipica degli anarchici, di cui non si accorse praticamente nessuno.

Io penso che il timore non sia tanto verso la moda, ma verso l’industria della moda. In fondo a questo c’è un disagio economico: non c’è mai stata nessuna polemica per lo straordinario parterre di attori e attrici che sono testimonial di Prada, per esempio. Ci sarebbero se fossero scrittrici e scrittori? Penso di sì, perché nascerebbe, in questo caso, il timore di un’appropriazione culturale: che l’industria sfrutti l’immagine di scrittori e scrittrici, ammantata di un qualcosa di sacro ma anche pauperistico, senza ridare niente in cambio.

Olga Campofreda: Mentre preparavo questo talk, con Maria Luisa Frisa, ci siamo scambiate delle immagini e degli articoli. Lei mi ha fatto leggere quest’intervista dell’Observer a Simone De Beauvoir negli anni ‘50, in cui la giornalista la va a trovare e le chiede: ma le piace la moda? Qual è il suo rapporto con la moda? E Simone De Beauvoir dice: no, per niente. Poi però la porta in camera, e apre un armadio pieno di vestiti. Che cosa ci raccontano questi abiti della persona e del personaggio di Simone De Beauvoir?

Maria Luisa Frisa: Simone De Beauvoir è una grande intellettuale che ha saputo interpretare e percorrere il Novecento. “A me la moda non interessa” è la prima frase che dicono tantissime persone. In particolare Simone De Beauvoir è un personaggio pubblico, e come tutti i personaggi pubblici si deve presentare al pubblico: è quindi interessata a dare un’immagine di sé di un certo tipo. Ma forse una delle immagini che ci fa capire l’arroganza intellettuale – e dico arroganza perché trovo che sia un bellissimo termine  – di Simone De Beauvoir è quella in cui si fa fotografare nuda a New York dopo che ha fatto probabilmente l’amore con il suo compagno. In quel momento lì c’è tutto il coraggio di una donna che non è più giovanissima, in tempi che non sono certo i nostri, e che offre il suo corpo al nostro sguardo. Anche questo secondo me è un gesto che ha a che fare con la moda.

Olga Campofreda: Abbiamo parlato degli scrittori con la moda, ma la moda dentro la letteratura ha un rapporto abbastanza complesso, che assomiglia un po’ a quello che abbiamo con la tecnologia.

Davide Coppo: Io penso infatti che il timore che esiste nel mondo dei lettori verso la moda derivi anche dal fatto che negli ultimi decenni i vestiti – e non solo l’industria – siano poco rappresentati dentro la letteratura contemporanea. Da anni con una serie di altre scrittrici e scrittori italiani ragioniamo sulla timidezza che la letteratura contemporanea ha nell’utilizzare gli strumenti tecnologici, quelli che ci troviamo in mano ogni giorno. Se ci pensate, è ancora raro trovare dei romanzi scritti anche da scrittrici e scrittori giovani in cui ci siano degli smartphone come oggetti funzionali alla narrazione, perché c’è sempre questo impaccio nel descrivere l’interazione che il lato umano più profondo che la letteratura vorrebbe mostrare ha poi con questi oggettini sostanzialmente portatori di frivolezza e poco altro. In realtà, da questi oggetti passa tutta la nostra economia, tutti i nostri amori, le amicizie, il lavoro. Allo stesso modo, dicevo, non c’è quasi mai traccia di moda nei romanzi contemporanei. Penso a una scrittrice che è stata capace di raccontare benissimo il contemporaneo come Sally Rooney: ma non si parla mai di vestiti, non si parla mai di questo tipo di forma. In un romanzo che è probabilmente il più straordinario tra quegli usciti negli ultimi anni nell’interpretare il contemporaneo, Le perfezioni di Vincenzo Latronico, troviamo i social media, le ansie provocate dalle immagini, Airbnb, l’attivismo come status, ma non si parla di vestiti e di moda. Eppure Tom e Ann, i protagonisti, probabilmente sono andati su Vinted a cercare un bolerino di Prada per una serata. Secondo me c’è ancora questo distacco che è molto profondo ed è difficilmente spiegabile, e produce questa, diciamo così, incomunicabilità.

Olga Campofreda: Io quando rifletto su questo aspetto, sulla pratica precisa il nominare un certo brand di moda all’interno di testi letterari, penso sempre ai Cannibali, che sono un’esperienza della letteratura italiana degli anni ‘90 – non sempre tutta riuscitissima – che deve molto all’influenza di Bret Easton Ellis, che invece ha usato i brand e la descrizione della moda per raccontare uno status: la moda come indicatore sociale, come uniforme riconoscibile di un’appartenenza sociale. Maria Luisa, Bret Easton Ellis è uno degli autori che hai deciso di includere all’interno dell’antologia I racconti della moda, un libro con cui hai messo insieme un caleidoscopio affascinante di tanti modi diversi in cui moda e letteratura possono stare insieme.

Maria Luisa Frisa: Ellis è un autore che è interessato a definire molto precisamente un modo di vivere, uno stile di vita. Ci fa rivivere nitidamente certe immagini che tutti conosciamo per la precisione con cui tratteggia i personaggi, per come ci racconta come sono vestiti: la famosa polo con il collo rialzato è una cosa che è immediatamente riconoscibile, tu ti immagini subito tutta una serie di persone che hai incontrato nella tua vita. In Italia forse abbiamo paura di usare la moda come elemento sociale, come elemento che tratteggia le abitudini di una società. Invece è fondamentale.

Davide Coppo: C’è poi tutto il mondo delle sottoculture, che raramente è entrato nella letteratura, e quando l’ha fatto spesso non ha fatto nascere fenomeni letterari perfettamente riusciti. Il rischio, quando vuoi scrivere specificatamente di una certa sottocultura, è che il romanzo si avvicini troppo alla fanzine, uno sfondo in cui esiste allora solo quel mondo, e non qualcosa in dialogo con il resto. 

Maria Luisa Frisa: Ne I racconti della moda c’è un racconto che si chiama “I vestiti del notaio”, ora è ripubblicato in questa antologia di racconti dispersi che Murgia aveva scritto in occasioni molto diverse che è uscita per Einaudi e si chiama Anna della pioggia. “I vestiti del notaio” è un po’ un giallo sul valore fantasmatico degli abiti, il fatto che indossare gli abiti di un altro ci libera da noi stessi. I protagonisti sono una coppia, si chiamano Tania e Filippo: hanno preso una casa in affitto a Cagliari, una casa che era la casa di un notaio, hanno trovato un baule pieno di abiti di fattura pregiata, e giocano a indossarli. Sono pagine piene di desideri, la moda ha sempre a che fare col desiderio: è logico che, avendo a che fare con il modo in cui noi ci presentiamo all’altro o all’altra, sia una sorta di dispositivo che noi decidiamo di mettere in movimento rispetto a quello che vorremmo che succedesse. Nell’antologia c’è anche un racconto di bell hooks, che è stata un’importantissima attivista, pensatrice, filosofa, e quando molti hanno letto questo racconto mi hanno detto: ma come, bell hooks scriveva un racconto in cui parlava della sensualità legata all’indossare una camicetta di seta sopra la pelle senza reggiseno? Io dicevo: ma perché bell hooks non poteva scrivere una cosa del genere? Il problema è lo stesso problema che c’è con la moda: siccome la moda è frivola allora se una donna è un’intellettuale impegnata non può desiderare di indossare certe cose o di portare i tacchi. 

Olga Campofreda: Hai detto una cosa che mi permette di saltare su un tema che mi sta molto a cuore, ovvero il modo in cui i brand hanno cominciato a collaborare dal punto di vista degli eventi o anche semplicemente del design, con delle scrittrici. Qui vediamo per esempio l’immagine di una maglietta di Dior, se non mi sbaglio era il 2017, La prima sfilata di Maria Grazia Chiuri come direttrice creativa di Dior. La modella indossa una T-shirt bianca con la scritta We Should All Be Feminist, che è il titolo di un pamphlet scritto da Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana, che è stata invitata a collaborare con Dior.

Maria Luisa Frisa: Forse è bene spiegare cosa muoveva la scelta dietro questa maglietta. La T-shirt bianca è un manifesto, un manifesto indossabile dove noi possiamo dichiarare delle cose. Era la prima sfilata di Maria Grazia Chiuri come direttrice creativa di Dior. Chiuri, che è interessata alle tematiche del femminismo, si chiedeva come si poteva unire femminilità e femminismo. Quindi mettersi in contatto con un’autrice come Chimamanda Ngozi Adichie voleva dire: aiutami a mettere a fuoco questa questione. Ecco, questa è una cosa che a me piacerebbe sempre ricordare. La moda è uno strumento, come è uno strumento un cellulare, come è uno strumento il computer, tutte le cose che noi usiamo. La moda è uno strumento che noi usiamo e dobbiamo imparare a farla nostra.

Olga Campofreda: Un’immagine recente che unisce moda e libri è quella di Brunello Cucinelli per la Campagna Autunno Inverno 2025. Mostra Cucinelli in una stanza ricoperta di libri. Qui addirittura non ci sono vestiti, solo libri. Davide, ti occupi molto anche di brand e marketing. Cosa sta succedendo?

Davide Coppo: In realtà anche qui non è niente di così nuovo: io ricordo questa sfilata di Etro, se non sbaglio nel 2022, in cui sfilarono tutti i modelli con un libro della Piccola biblioteca Adelphi in tasca, quella collana piccolina, colorata, senza immagini in copertina. Erano dei prop ,che serviva a dare una certa immagine della collezione e quindi del potenziale consumatore che Etro voleva. Però il marketing sui libri, secondo me, più che nella moda, lo vediamo anche in altri modi.

Pensiamo a quello che è stato fatto per l’uscita di Intermezzo di Sally Rooney, non da parte di Einaudi ma da parte degli editori britannici di Faber. Un vero e proprio Rooney kit, comprensivo di tote bag, penne, taccuino, cappellino, una maglietta. Io da un lato non ci vedo niente di maligno, in sé per sé, nell’utilizzo del marketing come strumento per la vendita. Dall’altro non sono neanche d’accordo con chi dice che il libro è un semplice oggetto e gli oggetti sono merce e vanno venduti in tutti i modi. Perché c’è qualcosa di più in un libro, c’è qualcosa di più nella letteratura, c’è un senso di espressione profonda e ancestrale che non può essere ridotta al consumo. Un’altra cosa che sta succedendo, e che è collegata a tutto questo, sono i book club delle celebrities, che stanno spuntando come funghi dopo la pioggia. Come Dua Lipa, con Service 95, che è un book club molto interessante, anche una newsletter in cui si parla di cultura, e cerca di prendere il posto di quello che sono o erano le riviste culturali, con un target molto specifico, Gen Z, femminile. Da un lato, istintivamente io ho detto: che bello, Dua Lipa parla di libri – uno degli ultimi consigli tra l’altro è la versione inglese del libro di Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce. Ma il rischio qual è? È che da un lato tutto il budget che viene messo nel marketing venga posizionato su pochi titoli, andando a lasciare sguarnito tutto il resto della produzione che come sappiamo è gigantesca. Dall’altro mi chiedo: quanto ci metteranno le case editrici per cominciare a produrre titoli che vanno bene solo per certe celebrity, che verranno poi utilizzate come un volano per le vendite commerciali? 

Ringraziamo l’Archivio del Festivaletteratura per averci fornito il materiale audio utilizzato per questo articolo.

Il nostro manifesto di fiducia nel futuro del cinema italiano

Il nuovo numero di Rivista Studio, uscito oggi, contiene cinque copertine, cinque storie e cinque visioni per raccontare come il cinema italiano stia cercando di smuovere le acque e portare a galla delle vere novità, anche in mezzo a mille difficoltà produttive ed economiche.

Francesco Costabile, il cinema reale che tutti dovrebbero vedere

Il suo Familia ha sorpreso per l’eleganza e la profondità con cui tratta la violenza di genere, diventando il rappresentante italiano all'Oscar per il Miglior film internazionale. Lo abbiamo scelto come uno dei volti del Nuovo cinema italiano, tema del numero di Rivista Studio che arriva oggi in edicola.

Leggi anche ↓
Il nostro manifesto di fiducia nel futuro del cinema italiano

Il nuovo numero di Rivista Studio, uscito oggi, contiene cinque copertine, cinque storie e cinque visioni per raccontare come il cinema italiano stia cercando di smuovere le acque e portare a galla delle vere novità, anche in mezzo a mille difficoltà produttive ed economiche.

Francesco Costabile, il cinema reale che tutti dovrebbero vedere

Il suo Familia ha sorpreso per l’eleganza e la profondità con cui tratta la violenza di genere, diventando il rappresentante italiano all'Oscar per il Miglior film internazionale. Lo abbiamo scelto come uno dei volti del Nuovo cinema italiano, tema del numero di Rivista Studio che arriva oggi in edicola.

È uscito il trailer di A House of Dynamite, il nuovo, attesissimo film di Kathryn Bigelow

Il film, accolto molto bene alla Mostra del cinema di Venezia, sarà disponibile su Netflix dal 24 ottobre.

Se vi manca Ben Lerner, leggete Le luci

Tradotto da Martina Testa e pubblicato da Sellerio raccoglie le migliori poesie, in versi e in prosa, scritte dal talento dell'autofiction nel corso degli ultimi quindici anni.

Per il suo nuovo videogioco horror Hideo Kojima ha collaborato con Jordan Peele

Si intitola OD, ha un trailer molto bello e molto inquietante, e il solito cast hollywoodiano delle produzioni Kojima,

Rifugiamoci nel nuovo album di Blood Orange

Perfettamente in linea con l’atmosfera malinconica dell’inizio dell’autunno, Essex Honey è un album che resisterà al passare del tempo, un luogo sicuro dove possiamo sia piangere che trovare conforto.