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16:38 martedì 25 novembre 2025
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Cercasi community disperatamente

Per arrivare a più persone e adattarsi alle dinamiche dei social, sempre più marchi forzano il loro racconto per costruire una community di appassionati. Ma l'operazione è più difficile di quanto sembri.

30 Dicembre 2020

La moda ha una necessità impellente: allargare il bacino di acquirenti raccontandosi più spontanea e reale di quanto veramente sia. Mi spiego. Quando la moda era speciale, poca, per pochi e, soprattutto, non era necessario inseguire i clienti per farli entrare nei negozi, era più semplice e immediato raggiungere i target di riferimento. Oggi l’offerta è troppa, soltanto una quantità infinitesimale del pubblico conosce o è interessato alla storia che c’è dietro un’azienda o un prodotto, quindi per lanciare una novità o rilanciare un classico che diventi best seller in poco tempo, il compromesso è darlo (gratis o a pagamento) alle celebrity del momento perché mostrandolo attirino l’attenzione o lo rendano di nuovo cool.

Il racconto del perché la giacca, borsa o scarpa siano da avere non affascina più. All’arrivare della pandemia tutti professavano un ritorno all’umanità del produrre e del vestire, ma ora che si vede una flebile luce in fondo al tunnel si è tornati a essere come prima, se non peggio. Se da un lato è sicuramente sbagliato ignorare la cultura della moda, dall’altro farlo è quasi fisiologico, in una società inondata di informazioni rapide e superficiali; normale che una foto di Beyoncé o di RM dei BTS con l’item del momento sia più efficace del “pippone” sulla storia dello stesso, siamo nell’era dei 15 secondi di attenzione, la durata di una story da social media, ed è l’immagine immediata che deve colpire tutti i fan delle celebrity di cui sopra, che poi andranno a cercare (e possibilmente comprare) il prodotto online. Un esempio: Lyst, piattaforma mondiale di ricerca sul lusso che evidenzia i trend più importanti, ha inserito il bikini con gli orsetti all’uncinetto di GCDS della scorsa estate tra i più ricercati dell’anno, dopo che Dua Lipa l’ha indossato; le ricerche del due pezzi del brand in agosto sono aumentate del 771 per cento rispetto al mese di giugno. Ma c’è un però: Giuliano Calza, fondatore e creative director del brand, e insieme a lui tanti altri creativi di successo della sua generazione, fin dall’inizio hanno dato vita spontaneamente al loro “gruppo di fan”, condividendo interessi e passioni comuni; poi certo, l’hanno ampliato anche con operazioni di marketing e collaborazioni, fisiologiche per un’azienda, ma sempre rimanendo leali alla linea originale. Una lealtà che farà sempre in modo che la community resti fidelizzata a prescindere dalle collezioni.

I grandi marchi, di conseguenza, cercano di allinearsi a questo schema, non senza difficoltà, dovute principalmente a una naturale distanza dalla gente, per via delle proprie dimensioni. Così hanno assoldato eserciti di strateghi e messo mano ai portafogli, inventandosi community artificiali soltanto perché ora funziona così. Ma manca un pezzo fondamentale: l’onestà di cui si parlava prima. La potenza del marketing mostra una foto di gruppo che non è reale, un’immagine assemblata a colpi di seeding (distribuzione di capi) mirati a KOL (key opinion leader) e post sponsorizzati. La visibilità è assicurata, il ROI magari pure, ma alla fine resta un esercizio fino a sé stesso, privo di quell’integrità intellettuale che è alla base dell’aggregazione reale fra gruppi di persone. È la moda stessa che ci insegna a cosa porta tutto questo: oggi sei tra i preferiti, domani puoi essere nel dimenticatoio, senza motivazioni apparenti. L’onestà reciproca è il vero collante dei brand-community, chi ne fa parte ti celebra quando il prodotto piace ma poi ti supporta nei momenti difficili, come una tifoseria appassionata. Per costruirla ci vuole tempo, non basta bombardare l’audience sui social media e gettare fumo negli occhi. Può funzionare per il lancio di un prodotto, ma non per sempre.

Qualcuno fra i colossi ce l’ha fatta, pur avendo alle spalle heritage importanti, e lo ha fatto seguendo un preciso percorso inclusivo e filologico, ovviamente supportato dalla forza del grande nome e del grande budget. La stragrande maggioranza delle aziende invece spinge ottusamente sull’acceleratore della propria potenza economica dimenticando il fattore umano. È un atteggiamento quasi spocchioso, e per definizione la spocchia non aggrega ma divide, soprattutto se mascherata da umiltà: invocare unità con slogan da maglietta, gridando più forte e sparandola più grossa, può ingannare i più distratti, ma non creerà mai un gruppo davvero affezionato. Così, quando a un certo la benzina che alimenta il meccanismo finirà o arriverà uno più furbo, i follower unfolloweranno e tanti saluti.

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