Attualità | Coronavirus

Milano e l’Isola alla ricerca della normalità

Un reportage da uno dei quartieri più conosciuti della città, tra negozi ancora chiusi e ipotesi di futuro.

di Cristiano de Majo

Una foto scattata nel fotografatissimo campo di fiori della Biblioteca degli alberi lunedì 4 maggio, primo giorno della fase 2 (Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

«Ammazzare l’esistente», si legge in rosso su un muro di via Pollaiuolo, di fronte al Frida. È il secondo giorno di fase 2 e la scritta aggressiva, che mi pare di non aver mai visto, contrasta con l’atmosfera di questa placida mattinata di primavera. Poco più in là, oltre il Bosco Verticale, sul prato della Biblioteca degli Alberi, l’esistente si manifesta più armonicamente sotto forma di fiori di campo, un spruzzo di impressionismo che diventerà in quei giorni una delle foto più instagrammate della città. Il ritorno alla semi-normalità, o a una nuova normalità che dir si voglia, in un quartiere come l’Isola sembra vicino, a giudicare dal passeggio della mattina, con gli anziani, le mamme, i ragazzini in monopattino; lo sembra molto meno se si guarda la cosa dal punto di vista delle attività chiuse o costrette alla riconversione. Passato nel giro di una decina d’anni da quartiere popolare in via di gentrificazione con sacche di resistenza e di emarginazione, a nuovo centro con i valori immobiliari a più alta crescita di Milano e una densità di aperture commerciali impressionante (e conseguenti pericoli di speculazione), l’Isola è uno dei quartieri che rischia di più con la crisi portata dal Coronavirus. Rischia di cambiare il suo volto, diventando terra di investimenti che ne snaturerebbero un’anima che da qualche parte ancora c’è, nonostante le case a prezzi folli e i locali di avocado toast e poke e le pizzerie gourmet, che chiudono e riaprono.

Uno dei posti storici che è sempre lì da anni è il bar Nordest di via Borsieri, un punto di riferimento amato e odiato, dove i clienti storici del quartiere vanno a fare la colazione, mentre quelli che vengono da fuori lo conoscono per l’aperitivo: l’happy hour è una specie di all you can eat e anche per questo è un posto considerato un po’ finto o eccessivamente pop dai residenti più snob, ma ha invece una sua quota di autenticità. Ora il déhors è stato praticamente transennato, mentre sono apparsi dei banchi da rosticceria davanti alle porte, con segnali di polli arrosto e vaschette di cibo confezionato: «Ci stiamo trasformando, anche grazie alle altre aziende del nostro gruppo», è uno del bar, che però non ho mai visto, a uscirsene così quando gli chiedo cosa sta succedendo. Mi faccio spiegare meglio e scopro che il posto è stato acquisito sei mesi fa da un gruppo che ha anche altre aziende attive nella ristorazione, mentre uno dei vecchi fondatori è rimasto socio. Le vaschette confezionate con verdure e lasagne provengono da una di queste aziende. «Qui di fronte continuano a rimanere chiusi, per protesta, soprattutto perché non si sa ancora quali sono le condizioni per riaprire, noi abbiamo la possibilità di fare così». Quando chiedo al gestore una previsione sul momento in cui uno dei bar più conosciuti di uno dei quartieri più frequentati della città smetterà di essere una rosticceria, lui non si sbilancia e butta lì un: «Dopo l’estate». C’è un senso un po’ di Paese in via di sviluppo però nel vedere spinaci lessati e polpettoni al posto dei club sandwich e dei muffin al cioccolato. Devono pur campare, si dirà, e campare con un negozio fronte strada su via Borsieri non è proprio economicissimo.

Per farsi un’idea di quanto costi, basta spostarsi di una trentina di metri verso piazza Minniti ed entrare, sempre su via Borsieri in un altro posto storico, Il bottegone, macelleria e gastronomia gestita da due fratelli, che a pranzo e a cena si trasforma in ristorante, dove si sceglie la carne al banco e ce la si fa grigliare aspettando al tavolo. Hanno 13 dipendenti, che adesso «sono a casa», per tutto il tempo della quarantena sono rimasti lui e suo fratello, col ristorante chiuso, e solo la macelleria e la gastronomia da mandare avanti non oltre mezza giornata «di più non ce la facciamo»: il 60 per cento di incassi in meno, quelli appunto del ristorante, che non si sa se dal 1 giugno potrà riaprire, con tutte le questioni ancora in ballo legate all’aria condizionata e ai costi della sanificazione. Non lo sapevo ma scopro che il negozio, nonostante prima del Coronavirus fosse frequentatissimo, e io supponevo ricchissimo, da settembre del 2021 non sarà più lì, «il proprietario ci ha sfrattati perché non potevamo permetterci di pagare quanto ci chiedeva, un canone di 200 mila euro all’anno, più del triplo di quanto paghiamo oggi», quindi i due fratelli, che sono lì dal 2003, hanno avuto l’occasione di rilevare la storica macelleria di famiglia in Corvetto ed è lì che andranno tra poco più di un anno, Coronavirus o no.

Cosa rimpiazzerà allora questo negozio che è stato macelleria di quartiere (prima con le insegne Gran Brianza e Berteselli) per tutto il Novecento? Chi potrà permettersi un affitto di duecentomila euro all’anno? Al pensiero un po’ si trema mentre le buone notizie arrivano dai piani urbanistici del comune, che proprio nell’Isola vedono uno dei centri di ripensamento della città in chiave Coronavirus, con un progetto di pedonalizzazione particolarmente radicale, come quello di piazza Minniti e, l’altro, più orientato al gioco e allo sport, la cosiddetta “playstreet” di via Toce, pare di capire addirittura unite da una di quelle scacchiere di urbanistica tattica che dovrebbe essere lunga un chilometro.

«Se stai cercando qualcuno con la visione nostalgica, beh quella non sono io, anzi trovo molto bella la convivenza tra la ipermodernità e il patrimonio storico della zona»

Cristina (Xina) Veronese che oggi è proprietaria del negozio Tantrika e che delle trasformazioni dell’Isola è stata testimone oculare oltre che animatrice dentro «quelli che una volta si chiamavano centri sociali, ma che erano veri e propri “luoghi culturali” come la Pergola (che secondo un amico è il luogo dove è nata la Milano che conosciamo adesso nda), il MetropoliX, il Garigliano», è convinta che la doppia anima di questo quartiere, dove «alla Cantinetta di Archinto trovi la modella ma anche 4 ubriachi e tre travestiti con le ciabatte» sia ancora presente, e sia una caratteristica che bisogna stare attenti a preservare. «Se stai cercando qualcuno con la visione nostalgica, beh quella non sono io, anzi trovo molto bella la convivenza tra la ipermodernità e il patrimonio storico della zona». Secondo Cristina, l’emergenza Coronavirus ha confermato l’esistenza di una comunità all’interno del quartiere, «c’è stata una bellissima solidarietà» che ha unito la parrocchia con il circolo operaio, «basta vedere i flyer che trovi affissi ai muri per strada», in cui ci sono realtà completamente diverse.

Prendersela con il fighettismo milanese, con la Milano degli aperitivi e dei «cinquantenni in sneaker», è molto molto semplice, lo è quasi quanto il riflesso grillino di insultare i politici sui social, e come quello è il sintomo di qualche frustrazione. Lo ha fatto Antonio Scurati in un pezzo piuttosto infelice in cui “ammazzava l’esistente” nientemeno che sulle colonne del Corriere della Sera, un pezzo che, nonostante Scurati si dichiari residente a Milano, sembrava non aver colto nulla della particolarità, almeno italiana, degli ultimi anni di questa città. Al contrario, Cristina questa particolarità la rappresenta bene, è riassunta dalla sua storia di animatrice di un posto come La Pergola che non è diventata però rifiuto della trasformazione. È la coesistenza tra patrimonio storico e ipermodernità di cui mi ha parlato. Sono i cinquantenni in sneaker, anche, e le modelle e i travestiti in ciabatte. È il quartiere Isola che, insieme a un altro come Porta Venezia, tutto questo lo rappresenta in modo emblematico: il turismo di quelli che a Milano non sarebbero mai venuti a fare i turisti che vanno in Gae Aulenti a vedere per la prima volta lo splendente paesaggio del Bosco Verticale e, a poche centinaia di metri, l’autenticità un po’ sporca di via Farini; il ristorante uzbeko ma anche la pizza fighetta di Berberè; il vecchietto che vende manifesti pubblicitari vintage in via Thaon di Revel e il campetto da basket di via Toce frequentato dai ragazzi del quartiere. Nessuna città italiana è riuscita negli ultimi anni a tenere insieme e in equilibrio tutto questo. E per chi, come me, a Milano è arrivato per le promesse, poi ampiamente mantenute, che la città stava facendo, la paura è che il paesaggio della città e del quartiere cambino, non perché spariranno i cinquantenni in sneaker, come si augura Scurati nel suo fanatico ritorno alla natura, ma perché dalla fine dell’equilibrio si avvantaggeranno solo gli spietati.