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Vale sempre la pena di aspettare Michael Mann

Oggi alla Mostra del cinema di Venezia presenta il suo nuovo film, Ferrari, al quale lavora dal 1993, conferma della sua fama di regista che non si fa mai prendere dalla fretta. E che, per questo, non delude mai.

di Francesco Gerardi

Michael Mann odia andare di fretta, gli piace farsi aspettare. Spesso lo prendono in giro, per questa tendenza a fare con calma: si è mai visto un regista hollywoodiano che ci mette trent’anni a decidersi di fare un film? Il riferimento è a Ferrari, racconto della vita di Enzo Ferrari che Mann presenterà oggi (giovedì) in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia. Non sembra vero né possibile, ma sono davvero trent’anni che Mann lavora a questo film. Lo ha ammesso lui stesso che stavolta ha fatto proprio con calma: l’idea gli è venuta durante una visita alla cripta della famiglia Ferrari nel cimitero di San Cataldo, periferia di Modena, risalente al 1993.

A sentire Mann, l’odio per la fretta è ciò che gli ha impedito di diventare un venerabile maestro pari a illustri e coetanei colleghi: Coppola, De Palma, Scorsese, Spielberg e tutti gli altri ragazzi terribili della fu Nuova Hollywood. Il suo primo film esce nel 1981, quando a suo dire è già troppo tardi e quegli altri sono già troppo in vantaggio. Strade violente (Thief) fu acclamato dalla critica, estasiata dall’interpretazione di James Caan, dalla colonna sonora dei Tangerine Dream, dalla regia che univa documentario, poliziesco e noir. Rogert Ebert fu tra i recensori più entusiasti: «Un thriller con dentro personaggi realistici. Che rarità», scrisse. Ebert non poteva sapere a che prezzo quel realismo arrivava: solo in seguito si scoprirà che il metodo Mann prevede la scrittura di biografie, vere e proprie biografie, per tutti i personaggi dei suoi film. La sua casa d’infanzia, i mestieri dei suoi genitori, il nome della persona con la quale ha fatto sesso la prima volta: una biografia fatta come si deve richiede odio per la fretta e una tendenza a fare con calma. Una volta un giornalista gli chiese: cosa le scrivi a fare, queste biografie? Metà dei tuoi personaggi sono criminali, perché dovrebbe importarmi sapere che un criminale ama i suoi figli proprio come li amo io? Stordito, Mann gli rispose che il punto era proprio quello: che un criminale ama i suoi figli proprio come te, l’unica differenza tra te e lui è che al criminale non frega un cazzo dei tuoi, di figli.

È un’abitudine, questa di scrivere una biografia per ognuno dei suoi personaggi, che Mann ha preso negli anni in cui lavorava in televisione. Gli studi alla International Film School di Londra (di cui, per sua decisione, non è rimasto nulla: i corti realizzati negli anni universitari li ha definiti «troppo imbarazzanti» per essere mostrati al pubblico) non bastano a convincere la Hollywood cinematografica a dargli una possibilità. La tv in quegli anni è per chi si accontenta e Mann si accontenta, non è certo il lavoro peggiore della sua vita: a Chicago, quando ancora pensava di volersi laureare in Lettere, per pagarsi gli studi aveva fatto il cuoco, il tassista, il fattorino. La tv a confronto è facile. O, almeno, Mann la fa sembrare facile. Scrive episodi di Stursky & Hutch e di Sulle strade della California, si inventa Vegas, fa di Miami Vice una delle serie tv più amate e apprezzate dell’epoca. La sua influenza su Miami Vice fu tale – tutta l’estetica della serie è conseguenza di un’indicazione data da Mann durante le riprese dell’episodio pilota: «No earth tones» – che ancora oggi c’è chi lo considera creatore della stessa, quando in realtà era “soltanto” il produttore.

Alla fine degli anni ’70 Mann è uno degli uomini più conosciuti, ascoltati e pagati della televisione americana. Un ambiente che però inizia ad annoiarlo: perché sto qui a fare questi piccoli film per gente che in fondo non apprezza, dovrei fare un film mio e basta, si trova a pensare sempre più spesso (convinzione nata girando La corsa di Jericho, un film tv così bello che in Europa fu distribuito direttamente nelle sale). Da ragazzo, Il dottor Stranamore di Kubrick lo aveva convinto che un film potesse essere allo stesso tempo estremo e commerciale, radicale e popolare. Fu il film che lo convinse a fare il regista, che gli fece capire che per avere successo «non bisognava per forza fare Sette spose per sette fratelli». Negli anni questa convinzione – ribaditagli poi da tutti i registi che lo hanno ispirato: Dreyer, Murnau, Eisenstein, Bresson, Peckinpah, Melville – si era indebolita, ma preso dalla noia del suo stesso trionfo televisivo, Mann decide di mettere alla prova la lezione appresa da Kubrick. Diventa il produttore esecutivo di Crime Story, serie poliziesca senza la quale non esisterebbe il poliziesco televisivo – NYPD Blue, Homicide: Life On The Street, The Wire – come lo intendiamo oggi. Crime Story sarà la fine della carriera televisiva di Mann e l’inizio della sua storia cinematografica. È lavorando a Crime Story che Mann definisce la sua poetica: storie di uomini – i suoi sono mondi maschili, ha spiegato, perché la passione per la drammaturgia l’ha scoperta ascoltando le storie di guerra di suo padre, veterano della Seconda guerra mondiale, e di suo nonno, reduce della Prima – dalla «consapevolezza aumentata», gli piace definirle. Uomini che vivono di chiarezze sul loro posto nel mondo, il loro ruolo in società, la loro missione nella vita. È una descrizione che calza a pennello addosso a tutti i suoi protagonisti: Will Graham in Manhunter, Nathaniel Poe dell’Ultimo dei Mohicani, Lowell Bergman e Jeffrey Wigand di Insider, Muhammad Alì, Vincent e Max di Collateral, John Dillinger. E ovviamente Enzo Ferrari.

Sul set di Crime Story Mann conosce anche Chuck Adamson, co-creatore della serie assieme a Gustave Reininger, ex agente della polizia di Chicago. Mann prende in simpatia Adamson, gli piace ascoltare le storie che racconta, gli ricordano quelle del padre e del nonno. Ce n’è una che gli piace più di tutte: quella della caccia al ladro noto con il soprannome di “McCauley”, un criminale che all’epoca dei fatti era l’ossessione di tutti i poliziotti di Chicago, Adamson per primo. Siccome Mann è uno che odia andare di fretta e cha ha una certa tendenza a fare con calma, ci metterà quasi quindici anni a trasformare in un film la storia della caccia di Adamson a McCauley. Il film si intitola Heat ed è il suo magnum opus, il film che trasforma l’action movie americano in qualcosa di più di se stesso, la prova che la lezione appresa da Kubrick era giusta: si può fare un film allo stesso tempo estremo e commerciale, radicale e popolare. Heat è ancora oggi il film di Mann preferito da Mann: in nessun’altra occasione gli riuscirà di contrapporre in maniera così perfetta la piccolezza dei corpi umani e l’immensità del cielo, la ripetitività della parola parlata e le armonie della musica pop, il fragore del colpo di un’arma da fuoco che riverbera sul vetro di grattacieli vuoti, in una strada chiusa, in un quartiere deserto. Più che tempo, immagine o movimento, per lui il cinema si dimostra impatto, contrasto-scontro tra una cosa e un’altra. L’impatto diventerà la sua spiegazione preferita per tutte le sue scelte. Lo userà anche per spiegare quella di mettere la colonna sonora dell’Ultimo dei Mohicani in uno spot girato per Nike (di spot ne girerà diversi e bellissimi. Due su tutti: quello per Mercedes e quello per Ferrari): sono cose che contrastano e si scontrano tra loro, dunque è cinema.

Heat è anche il film di Mann più odiato da Mann. Ha sempre detto di essere quel tipo di persona che odia stare fermo troppo a lungo e sempre nello stesso posto, e sono quasi trent’anni che Heat lo costringe a essere, appunto, il regista di Heat (ragione per la quale, forse, non sente proprio la necessità di girare un sequel, come ha detto in un’intervista a Variety). Tutti gli chiedono sempre le stesse cose: com’è stata girare quella sparatoria? Com’è stato dirigere quel dialogo tra Pacino e De Niro? Col passare degli anni, lui ha cominciato a rispondere nelle maniere più astruse: quella sparatoria? È stato come dirigere un balletto. Quel dialogo? Mi sono preoccupato solo di farglielo provare il meno possibile, perché se l’interpretazione migliore l’avessero fatta mentre non stavo girando mi sarei incazzato parecchio. Per stemperare la noia, ogni volta che fa un’intervista si porta dietro il suo registratore personale. Le conserva tutte, le interviste. Quando si annoia le riascolta, si diverte a ricordare la reazione del giornalista davanti a certe risposte. A chi gli dice che è per queste perdite di tempo che ci mette così tanto a finire un film, Mann risponde che lui fa cinema ogni volta che provoca un contrasto-scontro tra una cosa e un’altra, e cos’è un’intervista se non lo scontro tra una domanda e una risposta. Un impatto, appunto. Dunque cinema secondo Michael Mann.