Cultura | Cinema

Michael Cimino non è stato solo Il cacciatore

Storia di uno dei più talentuosi, apprezzati e derisi registi della Nuova Hollywood, in occasione del ritorno in sala del film che lo ha reso uno dei maestri del cinema americano.

di Francesco Gerardi

In una vita soltanto, Michael Cimino è stato prima l’enfant prodige e poi l’idiot savant di Hollywood. Gli piaceva l’idea che nessuno sapesse chi era davvero e faceva di tutto per infittire il mistero. Rispondeva sempre alla stessa maniera sia alle domande che seguirono il trionfo del Cacciatore sia a quelle che vennero dopo il disastro dei I cancelli del cielo: «Non ho mai studiato cinema. Non ho mai capito come si fa un film e ancora adesso non ne ho idea». Ogni volta che un biografo gli chiedeva la sua data di nascita, mentiva spudoratamente per ragioni note soltanto a lui: ancora oggi il 3 febbraio 1939 è considerata la sua «presunta» data di nascita. Narratore inaffidabile di se stesso, ha lasciato una ricchissima aneddotica sulla sua gioventù: pestaggi, ubriachezza molesta, notti passate girando in macchina per Brooklyn in compagnia di delinquenti di professione. Come tutti i buoni borghesi – il padre è un discografico, la madre una costumista – ha una passione sincera per il proletariato urbano. Una passione che sarà una delle poche (forse l’unica) costanti della sua vita, un’attrazione per la quale deciderà di abbandonare, dopo appena un anno e mezzo, un ottimo lavoro da pubblicitario – dirige popolarissimi spot per Canada Dry, Eastman Kodak, Pepsi e United Airlines, tra gli altri –  per mettersi a scrivere sceneggiature. Altra competenza che poi si vanterà di non aver mai studiato né capito.

In una lunghissima intervista concessa a The Hollywood Reporter nel 2015 (occhiello: “Experience a two-hour conversation with a directing legend”), Cimino ha raccontato che tutto quello che ha avuto gliel’ha dato Clint Eastwood. All’inizio della sua carriera nel cinema nessuno lo prendeva sul serio, era uno zimbello noto a tutti gli addetti ai lavori di Hollywood come un megalomane farneticante. Senza aver mai diretto un film, si presentava negli uffici degli studios pretendendo budget da un milione di dollari per girare film in bianco e nero recitati interamente in lingua Sioux (storia vera: gli studi erano quelli di Universal, il film era l’adattamento del romanzo Conquering Horse di Frederick Manfred). Disperato, il suo agente dell’epoca gli disse che l’unico modo per farcela sarebbe stato convincere il più famoso attore americano a recitare in un film scritto e diretto da lui. Cimino a quel punto prende la sceneggiatura di Una calibro 20 per lo specialista, la fa leggere a Clint Eastwood e lo convince ad accettare il ruolo di protagonista. La trattativa tra i due diventa mito hollywoodiano: Eastwood non aveva idea di chi fosse Cimino e per quello il film lo voleva dirigere lui, a Cimino non importava nulla dell’opinione di Eastwood sulle sue capacità registiche e glielo disse, Eastwood gli diede tre giorni di riprese per farlo ricredere. Ne venne fuori uno dei film di maggior successo del 1974.

Fu grazie a quell’azzardo di Eastwood – «si prese un rischio enorme», ha raccontato poi Cimino – che, da megalomane farneticante, Cimino passò a megalomane farneticante capace di girare un film campione d’incassi. È così che Cimino riuscì a farsi prendere sul serio dai dirigenti di Emi nella riunione in cui per la prima volta raccontò Il cacciatore: non aveva idea di cosa dire perché era convinto si sarebbe trattato di un incontro di cortesia, quando quelli gli chiesero se avesse idee per un nuovo film lui improvvisò un monologo lungo un’ora al termine del quale i dirigenti Emi si dissero estasiati dal progetto e pronti a dargli tutti i soldi del mondo.

Dopo Il cacciatore – che torna in sala per tre giorni, fino al 24 gennaio, in occasione del 45esimo anniversario dell’uscita – la vita di Cimino cambiò per sempre. I critici scrivevano del film come del risultato di un patto col Diavolo, l’unica spiegazione plausibile per un quarantenne, per sua stessa ammissione cinematograficamente semi-analfabeta, che dirige «the God bless America simphony», come scrisse Pauline Kael nella sua recensione del film per il New Yorker. Cimino si è sempre divertito a stuzzicare la critica dicendo di non aver mai letto una recensione in tutta la sua vita. Leggeva tutte le lettere che gli spettatori gli scrivevano dopo aver visto il film, e che hanno continuato a scrivergli ininterrottamente fino al giorno della sua morte. Citava spesso quella di un sergente, veterano della guerra in Vietnam, che gli aveva scritto soltanto: «Non so, bello, quello… Non so cosa fosse ma di certo non era un film». Attorno al Cacciatore si generò una vera e propria isteria di massa: per evitare il fiasco, Emi e Universal decisero di portare il film nelle sale losangeline per due settimane soltanto, mettendo in vendita un numero limitato di biglietti. Dopo la prima del film, fuori dalle sale in cui era in programmazione si formarono file lunghissime di persone che compravano «dodici, venti biglietti alla volta». La critica americana dell’epoca, che sulla guerra in Vietnam era ancora militante come su nessun’altra questione, non sapeva come parlare di un film che «non è contro la guerra. Non è a favore della guerra. È uno dei film più emotivamente devastanti che siano mai stati fatti», scrisse Roger Ebert.

Cimino passò così da megalomane farneticante capace di girare un film campione d’incassi a megalomane farneticante vincitore di cinque premi Oscar con il suo secondo film. Su di lui cominciarono a girare le voci più assurde, voci alla cui diffusione lui contribuiva attivamente: rifiutava di farsi fotografare, cominciò a collezionare auto di lusso e d’epoca, a paragonarsi a John Ford, Luchino Visconti, Akira Kurosawa (la sua Santissima Trinità cinematografica). Il disastro dei I cancelli del cielo lo riportò al punto di partenza, al megalomane farneticante che nessuno prendeva (più) sul serio. Steven Bach della United Artists, che il film lo produsse, scrisse un libro – Final Cut: Art, Money, and Ego in the Making of Heaven’s Gate, the Film That Sank United Artists – per raccontare al mondo intero le follie di quell’ormai ex imperatore di Hollywood. Nei mesi successivi all’uscita del film nell’aprile del 1981, uno degli sticker più diffusi negli Stati Uniti era quello che diceva “To hell with Haeven’s Gate”. Si diffuse una voce secondo la quale dei quaranta milioni di dollari spesi da Cimino per girare il film (il budget iniziale era di dodici) una discreta parte fosse stata spesa in cocaina e alcol. Lui rispose sostenendo di soffrire di una grave allergia all’alcol e di «non essere tossicodipendente», divertito dalla reazione confusa che quella frase suscitava.

Per spiegare la sparizione successiva alla catastrofe dei I cancelli del cielo, si inventò un’altra grave allergia, questa volta alla luce solare. Divenne uno dei reclusi più famosi e indagati della storia, una curiosità morbosa aggravata dalla trasformazione del suo corpo. Da sempre infastidito dalla disposizione dei suoi denti e dalla linea della sua mascella, raccontava estasiato come la chirurgia estetica lo avesse aiutato a sistemare un volto «sbagliato». Era l’argomento, questo, che gli stava più a cuore di tutti: a chi si azzardava a insinuare che si fosse rifatto anche gli zigomi e non solo la mascella, Cimino afferrava la mano, la piazzava sulla sua faccia e urlava: «Lo senti? Questo è osso». Dimagrì così tanto – perse quasi 40 kili – che in molti si convinsero che avesse deciso di cambiare sesso: nel 2002 Vanity Fair pubblicò un profilo-intervista dall’allusivo titolo “Michael Cimino’s Final Cut”. Lui diceva che tutto si spiegava con il fatto che la qualità della sua vita era migliorata da che aveva smesso di avere a che fare con Hollywood: non passare più 20 ore al giorno in sala montaggio, seguendo una dieta a base di pizza, patatine fritte, ciambelle e bibite gassate lo aveva rimesso al mondo.

In realtà, Cimino non ha mai smesso di lavorare. Dopo I cancelli del cielo ha diretto altri quattro film – L’anno del dragone, Il siciliano, Ore disperate, Verso il sole – che serviranno solo a peggiorare la sua ormai pessima reputazione: «Prima sono un omofobo. Poi sono un fascista. Poi sono un razzista. Poi sono un marxista. Poi di nuovo un razzista. È divertente che i critici non riescano a decidere cosa sono». Si stufa del cinema e si mette a scrivere romanzi: il suo esordio si intitola Big Jane, è la storia di una culturista che attraversa l’America in motocicletta e poi si ritrova a combattere nella guerra in Corea con una brigata di sole donne. Viene pubblicato da Gallimard in Francia (all’editore propose anche di realizzare una linea di jeans ispirata a quelli indossati dalla protagonista, sostenendo che sarebbero stati un sicuro successo perché lui aveva «molta esperienza con le donne» e sapeva cosa avrebbero apprezzato). Vince il Prix Litteraire Deauville, viene paragonato a Hemingway e si costruisce una nuova Santissima Trinità: Lloyd Wright, Degas e Mahler, più adatta a uno come lui che all’università aveva studiato arte e che era «sempre stato più affascinato da un grande ponte o un bel romanzo o uno splendido dipinto che da un film ben fatto». Mentiva, ovviamente. Fino alla sua morte ha continuato a scrivere sceneggiature: ne accumulò cinquanta, nessuna delle quali suscitò l’interesse di nessun produttore. In una di queste – titolo: Cream Rises – scrisse che la protagonista doveva essere tale Taylor Swift. Vincent Maraval di Wild Bunch, che il film all’inizio voleva produrlo, decise di lasciar perdere tutto di fronte all’insistenza con la quale Cimino pretendeva di affidare il ruolo di protagonista del film a una sconosciuta ragazzina americana. Era il 2006, era appena uscito Taylor Swift, Maraval non avrebbe potuto prevedere che il mondo si sarebbe presto convertito allo swiftismo. Cimino, chissà.

Una delle ultime pubbliche apparizioni di Cimino prima della sua morte nel 2016 fu al cinema Lumière di Bologna, in occasione della rassegna Cinema ritrovato che si apriva proprio con la proiezione dei I cancelli del cielo, ora diventato capolavoro incompreso di un genio dimenticato. Prima dell’inizio del film, Cimino disse al pubblico in sala che non era vero quello che in America si diceva di lui: non era affatto «perseguitato» dai suoi film né dal suo passato né dagli errori. Forse mentì anche in quell’occasione: lasciò la sala in fretta e furia, prima che il film cominciasse, come se non volesse rivederlo.