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La parola dell’anno per l’Oxford English Dictionary è rage bait Si traduce come "esca per la rabbia" e descrive quei contenuti online il cui scopo è quello di farci incazzare e quindi interagire.

Non è più tempo per supereroi

La crisi ormai conclamata dei Marvel Studios è il segnale di un cambiamento nella cultura pop contemporanea: l'epoca dell'escapismo sta finendo, quella dei cinecomic anche.

06 Novembre 2023

Sono anni che si parla della cosiddetta superhero fatigue, questa sensazione di nausea che ormai ci assale osservando le lunghissime e affollatissime infografiche che i Marvel Studios usano per raccontare la continua espansione del loro universo cinematografico. Finora però questa sensazione era rimasta tale: un presentimento di quello che presto o tardi sarebbe successo, perché le epoche non è vero che finiscono così all’improvviso. Un presentimento che però veniva smentito ogni volta: gli incassi dicono sempre la verità e ai Marvel Studios non sono mancati mai. La superhero fatigue è diventata quindi una sorta di affettazione della critica, un pallino di osservatori sempre alla caccia di segnali che avvertano di un imminente vibe shift nella cultura contemporanea. A ogni presentazione keynote in cui si esponevano i nuovi calendari dell’avvento supereroistico – prima di arrivare al Natale nerd, al nuovo Endgame dovrete prima scoprire cosa c’è in questa dozzina di film e serie tv –  il messaggio dei Marvel Studios era sempre lo stesso: qui siamo e qui restiamo, se la superhero fatigue è la malattia la nostra cura sono altri supereroi. Ancora più supereroi. Più supereroi che mai.

È una formula che ha funzionato sempre dal 2008 a oggi, da quando Jon Favreau e Robert Downey Jr. hanno messo la prima pietra di quella che sarebbe poi diventata la Basilica di San Pietro dell’intrattenimento hollywoodiano. Una formula che ha funzionato sempre non c’è motivo di cambiarla, e le epoche finiscono così: piene di certezze, ferme nelle abitudini. La scorsa settimana Tatiana Siegel ha scritto per Variety un pezzo intitolato – assai fumettisticamente – “Crisis at Marvel”, sostanzialmente un racconto di come stia per scendere la notte su un impero fino a pochissimo tempo fa convinto che su di esso non sarebbe mai calato il sole. Ci sono i guai commerciali, con il prossimo film della Fase 5 – The Marvels, sequel di Captain Marvel, protagonista una Brie Larson che pare non veda l’ora di abbandonare il MCU, esasperata dalla misoginia della fanbase – che avanza veloce verso il titolo di peggior esordio di sempre per un film della Casa delle Idee. La preoccupazione è tale che i Marvel Studios avrebbero fatto una cosa mai fatta dal 2008 a oggi: un test screening, un’anteprima per un pubblico selezionato, una richiesta di rassicurazione su di un fatto che fino a pochissimo tempo fa si dava per scontato. Opinione del pubblico selezionato su The Marvels: senza infamia e senza lode. Reazione dei Marvel Studios: panico generale, grossi pezzi di film rivisti e corretti, un budget alto ora diventato altissimo.

Ci sono i guai legali, poi. O meglio: ci sono i guai legali di Jonathan Majors, l’attore al quale i Marvel Studios avevano deciso di affidare il ruolo di Kang il conquistatore, il big bad della Fase 5, il Thanos del multiverso. Quando i Marvel Studios avevano annunciato il casting di Majors, quest’ultimo era uno degli attori più apprezzati e attesi di Hollywood: una next big thing dal futuro assicurato, dal successo inevitabile. Oggi Majors è un imputato in attesa di giudizio: è accusato di violenza domestica dalla sua ex fidanzata, rischia una condanna fino a un massimo di un anno di carcere. Reazione dei Marvel Studios: siamo garantisti, aspettiamo la sentenza definitiva. Anzi no: corriamo ai ripari, cerchiamo un nuovo cattivo – pare si stia discutendo di un possibile inserimento in corso d’opera di Doctor Doom dei Fantastici 4, proprietà intellettuale finita nel portafoglio Marvel in seguito all’acquisizione di 20th Century Fox da parte di Disney per 71 miliardi di dollari – e un altro attore. E invece contrordine: il finale della seconda stagione di Loki non ci lascia alternative, ci tocca tenerci Kang il conquistatore. Però cominciamo a pensare a un eventuale recasting. Ma qualcuno questo finale di stagione di Loki lo ha visto prima che arrivasse su Disney+? Non si sa.

Ci sono i guai sindacali, anche. Dopo quindici anni passati a lavorare quattordici ore al giorno per compensi tutt’altro che proporzionali, i lavoratori del reparto effetti speciali dei Marvel Studios hanno deciso di fondare un sindacato. Reazione di Bob Iger, Ceo di Disney: licenziare Victoria Alonso, responsabile del reparto Vfx degli Studios, dopo aver scoperto gli imbarazzanti effetti speciali inseriti (pure con immenso ritardo) in Ant-Man: Quantumania e She-Hulk: Attorney at Law, quest’ultima una serie arrivata a costare 25 milioni di dollari per episodio, più della maggior parte delle puntate dell’ultima stagione del Trono di spade. E infine ci sono i guai creativi, riassumibili tutti quanti in una parola sola: Blade. Il film sul mezzo vampiro che dà la caccia ai vampiri interi ha avuto fin qui cinque sceneggiatori, due registi, sei settimane di riprese interrotte a causa degli scioperi di scrittori e attori. A un certo punto la dirigenza dei Marvel Studios è venuta a sapere che nell’ultima versione di Blade (interpretato dal premio Oscar Mahershala Ali) Blade era diventato per minutaggio il quinto personaggio più presente nel film che porta il suo nome. Reazione dei Marvel Studios: rimandarne l’uscita al 2025.

Il guaio che però sovrasta tutti quelli fin qui elencati è il fallimento del modello di business che i Marvel Studios hanno rappresentato in questi quindici anni. Il sogno era quello di creare il franchise eterno, di riscrivere le leggi della termodinamica dell’intrattenimento creando la prima macchina a moto perpetuo della storia del cinema popolare, con ingranaggi fatti di ogni media esistente. Il Mcu è stato costruito sulla certezza che la fidelizzazione del suo pubblico – in larghissima parte Millennial – sarebbe durata in eterno e che il mercato non sarebbe mai giunto al punto di saturazione: bastava rinvigorire con una nuova dose di continuity, easter egg e post credit scene. Di più: il Mcu è stato costruito sulla certezza che la cultura popolare fosse arrivata alla fine della sua storia e che il Millennial fosse l’ultimo uomo.

Quel desiderio di fuga dalla realtà – il 2008 è l’anno il cui al cinema arriva Iron Man ma è pure l’anno in cui fallisce Lehman Brothers – che ha caratterizzato la vita da ventenne di chi oggi è trentenne i Marvel Studios hanno scommesso sarebbe durato in eterno: il cinema come strumento, momento e luogo dell’escapismo, separato da una realtà ormai insopportabile e ineludibile. Ma il vibe shift alla fine è arrivato, annunciato da araldi che nessuno si sarebbe aspettato: Dave Bautista, Drax dei Guardini della Galassia, che dice che i supereroi sono silly, scemi. Robert Downey Jr., Tony Stark-Iron Man, che definisce i film di supereroi nemmeno intrattenimento ma content. E poi, in un modo diverso ma altrettanto importante, Greta Gerwig, che con Barbie ha dimostrato che l’autore può essere moltiplicatore della rilevanza di una proprietà itellettuale, un principio al quale il Mcu ha rinunciato da quando tolse la regia del primo Ant-Man a Edgar Wright. Insomma: aveva ragione Iñárritu quando parlava di genocidio culturale, ci aveva visto giusto Scorsese quando diceva che i cinecomic non hanno nulla a che vedere con la vicenda umana.

La responsabilità dei Marvel Studios probabilmente sono minori: loro continuano a fare quello che hanno sempre fatto, come lo hanno sempre fatto, per lo stesso pubblico per il quale lo hanno sempre fatto. I cinecomic sono stati una fuga dalla realtà durata quindici anni per una generazione, i Millennial, che come nessuna prima ha cercato di rimandare l’ingresso nell’età adulta. Nota personale ma esplicativa: a ogni prima di un nuovo film Marvel, il cosplayer che assiste alla proiezione con addosso il costume del personaggio eponimo non ha mai meno di trent’anni. Qui si potrebbe aprire una lunghissima digressione sull’effimerità di qualsiasi cultura pop che si rivolga agli adulti – per quanto restii questi siano a definirsi tali – e non ai ragazzini, ma è appunto una questione troppo lunga e complessa per stare in una digressione.

Una pandemia prima, una guerra in Europa poi, un conflitto in Medio Oriente adesso, inframmezzati da corollari di crisi economiche e umanitarie, hanno costretto persino gli eterni giovani a diventare finalmente grandi. E a smettere di prendere sul serio un mondo in cui, come diceva Alan Moore, i problemi li risolvono dei tizi in calzamaglia che si prendono a cazzotti.

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