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Il Marrageddon ha esaudito tutti i sogni del rap italiano

Centoquarantamila spettatori tra Milano e Napoli per una celebrazione della scena che ha definito gli ultimi vent'anni della musica pop italiana. E del suo padre nobile, Marracash.

di Gianluca Herold

Sugli schermi ai lati del palco svettano vecchi palazzi popolari, grigi e squadrati, con ringhiere mangiate dalla ruggine e finestre incorniciate nel muschio. Lo schermo centrale invece è tutto nero. Fino a che non emerge un nome. In sottofondo si sente un rumore sordo, come una detonazione seguita da un crollo. I palazzi a lato perdono pezzi, ed è allora che attraverso le crepe nelle pareti si vede il volto del primo artista. Da lì in poi il tema di fondo dei visual risulterà chiaro: ogni volta che un rapper mette piede sul palco demolisce una parte delle palazzine, fino all’esplosione finale, quella che rade al suolo tutto. Il Marrageddon.

Il primo a innescare la detonazione è Nayt. Ha un flow torrenziale, ricercato, che scivola tra le basi droppate dalla console e i riff di una chitarra elettrica blu metallizzato. È da questo primo dettaglio che ci si rende conto di non essere a un concerto hip-hop qualunque. Avete mai sentito un assolo complesso e prolungato in stile Eric Clapton a chiudere le barre di una traccia? Dico, in Italia? Madame fa addirittura di più: si porta dietro un’intera band. Pantaloni larghi, top rosa con doppio papillon, riempie il palco con movenze sensuali (i riferimenti in “Donna vedi”, “Clito” e “Skit” sono piuttosto espliciti) e vibrazioni da rockstar, prendendosi una pausa solo per una versione piano-voce di Sciccherie, seduta su uno sgabello. Poi chiude facendo ballare i 55 mila dell’Ippodromo di Agnano con “Bene nel male” e «Ma-ma-ma-ma-marea».

Altra detonazione, e compare il faccione di Ernia. Essendo stato inserito in un secondo momento in scaletta, il tempo a disposizione è poco, ma basta e avanza per una carrellata dei classici in repertorio: da “Lewandoski 8” (tra il pubblico spiccano diverse maglie del numero 9 polacco) alla più recente Parafulmini. Il sole piano piano scompare dietro le colline che circondano l’ippodromo, attaccano le prime note di “Superclassico” e le luci dei telefonini si alzano religiosamente nel crepuscolo, e lì rimangono anche durante “Buonanotte”. Poi l’ovazione del pubblico sale di un paio di ottave quando parte “Acqua tonica”, c’è aria di primo featuring della serata. È così. Geolier. Non un featuring qualunque. Geolier gioca in casa, lui lo sa e qualche minuto dopo apre il suo show con l’extrabeat delle 64 bars, in cui cambia flow a perdifiato per ben tre volte prima di buttarsi a terra sfinito e godersi i cori. «Olèèè, olè-olè-olè, Geolieeer, Geolieeer».

Foto di Onofrio Petronella

In generale il Marrageddon stupisce per varietà, si va dal gangsta rap alla ballatona pop e all’indie, a sottolineare come la poetica del genere, dai suoi albori fino a oggi, si sia evoluta e ibridata con altre influenze. Durante il medley tamarrissimo “Narcos/MARADONA” sugli schermi scorrono Ak-47, proiettili, soldi in valute di tutto il mondo, sbarre, interni di carceri. Geolier gioca in casa, dicevo, ma non solo per ragioni geografiche, anche di stile: è quello che più di tutti mantiene un profilo hip-hop, sia nei visual che nelle sonorità. Il caro vecchio gangsta rap americano, in chiave napoletana. Dopo il featuring con Marracash su “IL MALE CHE MI FAI” («Raga ci vediamo dopo») e quello a sorpresa con MV Killa su “CADILLAC”, Geolier saluta la sua città con “MONEY”.

Se non fossero disegnati virtualmente sugli schermi, quei palazzoni grigi Lazza li farebbe venire giù tutti in una volta fin dalla prima canzone. Il suo live è impressionante, per intensità e coinvolgimento del pubblico. Salta, suda, canta, urla, rappa. Vuole sotto di sé una bolgia da inferno dantesco ed è disposto a tutto, anche al ricatto stile Curva sud, pur di ottenerla: «Chi non salta è un figlio di puttana. Uno. Due. Uno, due, treee!». Si balla e ci si dimena come a un rave sui bassi di “Fashion” e “Bon ton”. “Cenere” la fa due volte, una a cappella e una standard. A un certo punto si prende qualche secondo per dire che «c’è gente che pensa che il rap sia una moda passeggera, un genere di nicchia. Beh, se pensi questo, tienitelo per te, non dirlo a nessuno». Fermi un attimo.

Da che mondo è mondo, i rapper hanno sempre voluto due cose. Lo stesso Geolier, in “Ricchezza”, le aveva sintetizzate così: «Prego ‘o Devil int”o sesso e int”o rrap / In entrambi i casi, me facesse durà». Da un lato avevano sempre desiderato quanto di più effimero si possa immaginare, il sesso appunto, assieme a tutta quell’estetica “rrap” fatta di soldi, auto sportive, vestiti firmati e così via. C’erano ampiamente riusciti. Ma dall’altro lato sentivano l’esigenza di darsi una certa consistenza, una durevolezza, insomma qualcosa che potesse rispondere a quel senso di transitorietà della vita che spaventa così tanto l’uomo da spingerlo a produrre arte. Il rap era solo una moda o una forma espressiva destinata a durare?

Foto di Nic Salvatori

Al Marrageddon finalmente sembra che il diavolo abbia voluto esaudire anche l’ultimo sogno proibito dei rapper italiani. Lo dicono i numeri, 140 mila spettatori tra Milano e Napoli, e lo dice anche la qualità dello show. Fino a qui il live è di altissimo livello, senza alcun tipo di complesso di inferiorità rispetto ai colleghi internazionali. Le rime sono state chiuse praticamente tutte, le parti cantate per davvero – al massimo un lieve accenno di autotune. Via via che il sole scendeva, saliva quasi per contrasto lo spessore dei visual e dello spettacolo pirotecnico, con tanto di laser, fumo e fiammate che scaldavano le guance e illuminavano le pupille a decine di metri di distanza. Ma poi arriva l’ultima esplosione, quella che rade al suolo tutto ciò che incontra sugli schermi, da lontano si avvicina la melodia sinuosa di “Badabum cha cha”. E Marracash fa tutto quello che hanno fatto sul palco i suoi predecessori, ma tutto insieme. «Come se ci fosse Marracash featuring Marracash», direbbe lui.

Dopo la data di Milano si è parlato del marracentrismo del festival, del fatto che ha chiamato chi voleva lui, che si è preso molto più spazio degli altri artisti (a partire dal nome), che in qualche momento i colleghi sono sembrati lì per celebrarlo. Ed è vero. Però è anche vero che in questo momento in Italia lui è semplicemente il più bravo. Per la profondità dei testi. Per la trasversalità dei generi, che arriva a chiunque, unendo almeno tre generazioni. E lo dimostra anche sul palco, dove c’è spazio per tutti e tutto. Un corpo di ballo à la Kendrick Lamar dell’ultimo tour. Un video visual di Baby Gang sul rapporto tra rap e strada. Un impellicciatissimo Guè («Che dici, ce la togliamo?», «Sì, l’entrata l’abbiamo fatta»), due scooteroni TMax e i fuochi d’artificio del Santeria Set. Tananai che canta tutta “Laurea ad honorem” al posto di Calcutta. Un tenore, Cristobal Campos, che fa vibrare a tutti le budella col suo «Pagliacciooo». I featuring con Geolier, Lazza, Madame. E si finisce dopo sette ore di musica, più di una dozzina di artisti sfilati sul palco e un viaggio in quasi vent’anni di hip-hop, con le “64 BARRE DI PAURA”. Che si aprono così: «Pa-pa-pa-pa-pa-pa, pa-pa-pa-partito da zero cash / Dalle scalette alla prima alla Scala / La mia è una scalata da vero re». Il Marrageddon è stato proprio questo: la prima alla Scala del rap italiano, l’ultimo gradino della scalata del suo re.

La foto in copertina è di Nino Saetti.