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Se Oppenheimer di Nolan è Batman, Maniac di Labatut è Joker
Nel suo nuovo romanzo, lo scrittore racconta John von Neumann, mente tra le più brillanti e inquietanti del '900: costruttore di bombe atomiche e AI, pioniere della fisica quantistica, indifferente alle conseguenze apocalittiche del suo genio.
In questi anni di pandemie e di guerre, d’interregno e di policrisi, è apparso un chiaro bisogno d’indagine dei presupposti del nostro strano e pericolante mondo. È un’indagine che si annoda, spesso, al tempo da cui proveniamo: il secolo che ci ha preceduti. Come se il beneficio della distanza ci permettesse di notare nuovi dettagli del Novecento. Come se i decenni avessero sgrassato il superfluo, per rivelare la trama più essenziale, e di “lunga durata”, di ciò che vi accadde. A questo filone d’indagine appartiene il film più visto dell’anno, Oppenheimer, e anche Maniac di Benjamin Labatut (qui potete leggere un’intervista allo scrittore, firmata da Davide Coppo), che con l’opera di Nolan condivide numerose ambientazioni, tanto da provocare una sorta di dejà vu. Come Nolan, Labatut trova il big-bang del contemporaneo nel periodo tra anni Trenta e Cinquanta, quando il definitivo tracollo psichico dell’Europa aprì le porte al secolo americano e al più corposo trasferimento d’intelligenza di tutti i tempi. Una “fuga di cervelli” dal Vecchio Continente – le città consunte di traumi e le università piene di reliquie – verso un luogo, gli Stati Uniti – la luce dei deserti e i think tank nel sottosuolo – in cui la Storia guardava solo in un verso: davanti. Alcuni di quei cervelli deperirono nel trapianto, altri sbocciarono. Incluso il più complesso di tutti: quello di John von Neumann, il personaggio intorno a cui ruota Maniac.
Prima di proseguire, un appunto sul testo. Maniac non è un saggio, come si potrebbe desumere da queste righe. Formalmente si “vende” come un romanzo. Nei fatti è una raccolta di “memorie” di diversi personaggi, celebri o oscuri, che hanno incrociato von Neumann. Le “memorie”, che fanno a tratti pensare a Svetlana Alexievich, sono, in realtà, frutto dell’immaginazioni di Labatut e, al loro meglio, producono un’affabulante “verità romanzesca”. Tuttavia quando la Storia prende il sopravvento sulla storia… l’escamotage narrativo lascia trapelare le urgenze saggistiche dell’autore e le molte e diverse voci delle “memorie” fittizie finiscono per parlare con la singola e unica voce della divulgazione. Ma torniamo a von Neumann. Elencate le cinque discipline intellettuali più complesse che riuscite a immaginare: è probabile che von Neumann abbia offerto contributi fondamentali in almeno un paio. Meccanica quantistica, informatica, teoria dei giochi, analisi, statistica, genetica, logica matematica, chimica, meteorologia sono solo alcuni dei campi su cui von Neumann ha impresso le impronte. Avete presente espressioni come “il regista che piace ai registi”, ecco von Neumann era il “genio che intimoriva i geni”. Un giorno Enrico Fermi disse a uno studente alle prime armi che tra lui (Fermi) e von Neumann c’era lo stesso gap di comprensione della matematica che esisteva tra quello studente in erba e lo stesso Fermi.
Tra le innumerevoli questioni che von Neumann influenzò, ci sono parecchie tra le tecnologie e le idee più influenti del Novecento. E del resto uno degli impliciti del libro di Labatut è proprio questo: che, in un certo senso, viviamo in un calco del cervello di von Neumann. E non è neppure chissà quale iperbole: von Neumann contribuì a disegnare l’architettura hardware di uno dei primi computer, il Maniac, sulle cui basi si sono sviluppati tutti gli altri. «Johnny concepì l’architettura. Il modello logico. Lo stesso che avete sul vostro computer. Non è cambiato di un bit. Meravigliosamente semplice. Solo cinque parti. Meccanismi di input e output e tre unità: una per la meccanica, una per la logica e l’aritmerica, e l’unità di controllo – la Cpu».
Ora capite perché von Neumann ci interessa e non può non interessarci? Ma chi era von Neumann? Nato come Janós Lajos, nel 1903 a Budapest, e morto come Johnny nel 1957 a Washington D.C. per un cancro dovuto alle radiazioni del progetto Manhattan, von Neumann è la quintessenza di quel “big bang del contemporaneo” di cui sopra. La sua biografia comincia nella vice-capitale austro-ungarica quando ancora ci si sposta in calesse, e termina nella capitale di un nuovo impero immaginando computer in grado di pensare in autonomia. Come è stato possibile passare, in soli 50 anni, da un mondo ancora debitore di Metternich a quello dell’atomica, del Dna, del computer? È “normale” la velocità con cui tutto è accaduto? È stato progresso o qualcosa di diverso, più strano, più oscuro? Una mania che, in pochissimo tempo, tramite il talento alieno di uomini come von Neumann, si è impadronita della scienza e della tecnologia e le ha portate, ci ha portati, in un luogo quasi irriconoscibile rispetto a tutto il resto della Storia? In una escatologia oscura, al cui fondo c’è forse l’apocalisse, materiale o perlomeno spirituale, dell’umano? Sono alcune delle domande che, in tralice, pone Labatut.
La risposta a queste domande è contenuta nelle pagine migliori del testo, ovvero le prime, dedicate a Paul Ehrenfest, un fisico austriaco, importante ma meno gigantesco di altri citati. I paradossi “irragionevoli” della neonata quantistica aggravarono il congenito bipolarismo di Ehrenfest, spingendolo al suicidio (con annesso omicidio del figlio minore, affetto da sindrome di Down). La vicenda di Ehrenfest, il suo bipolarismo, la sua follia, comune a molti dei personaggi del libro, divengono una chiave di accesso a Maniac e alle vicende che racconta. Storie in cui si mescolano la più estrema meraviglia per ciò che gli esseri umani di Labatut sono stati capaci di pensare e costruire (o decostruire) e la più paralizzante inquietudine per le conseguenze delle loro scoperte e dei loro progetti. La più viva ammirazione per la loro intelligenza e il più profondo disagio per il mondo perturbante che essa ci ha consegnato. Un mondo pieno di armi in grado di vaporizzarci a miliardi in pochi istanti, di macchine che ambiscono alla coscienza e di abissali contraddizioni nel cuore delle discipline a cui abbiamo affidato la “misura del mondo”, per citare un altro libro su un grande matematico.
Raccontare von Neumann, anziché altri “marziani”, è, in tal senso, una scelta narrativa perfetta. La sua personalità era da uomo mondano, quasi banale – amava il denaro e il potere, la bella vita, e le battute sconce, non era un tormentato come Oppenheimer, un eccentrico come Feynman o un disadattato come Gödel – ma la sua capacità di calcolo era da macchina e, sembra dire Labatut, lo era anche la sua indifferenza etica. Dotato fin dalla più tenera età dell’abilità di risolvere intuitivamente problemi per altri inaccessibili, von Neumann, per come lo racconta Labatut, sembra non aver mai sviluppato la capacità di considerare il “costo umano” dei suoi calcoli (o forse lo considerava, ma a un livello così cosmico e rarefatto da risultare inafferrabile ai comuni mortali). La sua mente era in grado di razionalizzare le prospettive tecno-scientifiche più radicali, incluso il completo annientamento nucleare del pianeta, a un livello tale che era come se essa fosse sempre già oltre i traumi, e le responsabilità, che tali prospettive comportavano.
«Tutti i processi che sono stabili li prevederemo. Tutti i processi che sono instabili li controlleremo», disse una volta von Neumann, dando voce a un’ambizione totalizzante che la matematica e il calcolo coltivano fin da Leibniz. Quell’aspirazione sembra oggi avvicinarsi con l’AI. La ragione per cui, credo, Labatut sceglie di dedicare il finale di Maniac a un evento a prima vista del tutto slegato da von Neumann, ovvero la partita di go tra il campione coreano Lee Sedol e l’intelligenza artificiale AlphaGo di Google, ha a che fare proprio con questo aspetto – divino e divinatorio – delle tecnologie algoritmiche.
Mentre gioca una partita, AlphaGo è in grado di guardare nel futuro e di prevedere le ramificazioni di un enorme numero di mosse e di partite. Nel ronzio ovattato dei suoi processori, la macchina osserva e valuta un multiverso di infinite (o quasi) realtà parallele, dopodiché ne sceglie e attualizza soltanto una, quella che ha più probabilità di portarla alla vittoria. È il determinismo assoluto di una tecnica costruita su una cattedrale di calcoli. Il risultato di un cantiere sconfinato di cui von Neumann è stato capomastro. La malattia causò a von Neumann grandi sofferenze ed esasperò il suo congenito pessimismo. Dopo aver passato una vita a lavorare a singolarità che sconvolsero il mondo, von Neumann lasciò un’ultima lettera carica di preoccupazioni per il futuro. Un testo che sembra confermare come gli riuscisse più facile empatizzare con l’umanità in astratto che con quella in concreto. Labatut ne riporta un passo.
«Stiamo, sia in senso letterale sia in senso figurato, esaurendo lo spazio. Alla fine cominciamo ad avvertire in modo drammatico le conseguenze delle reali, limitate dimensioni della Terra. Questa è la crisi di maturazione della tecnologia. […] Dopotutto la tecnologia è un’escrezione umana, e non dovrebbe essere considerata come qualcosa di Altro. È parte di noi, così come la tela è parte del ragno. […] Il potere della tecnologia in quanto tale è sempre ambivalente, e la scienza non può che essere neutrale, limitandosi a fornire mezzi di controllo applicabili a qualunque scopo, e indifferenti a tutto. Il pericolo non sta nella natura particolarmente distruttiva di una singola invenzione. Il pericolo è intrinseco. Per il progresso non c’è cura».
Per gran parte della sua vita, von Neumann sognò di costruire macchine auto-replicanti. Per esempio, sonde spaziali capaci di fare copie di se stesse e di sopravviverci esplorando l’universo: mute testimonianze del passaggio della nostra civiltà nel cosmo. Per auto-replicarsi, comprese von Neumann, tali sonde dovevano evidentemente contenere una specie di manuale d’istruzioni di se stesse – e quelle istruzioni dovevano contenere le istruzioni per costruire macchine che contenessero quelle istruzioni e via dicendo (incidentalmente con questa intuizione von Neumann anticipava il concetto di DNA). In questo modo, in un certo senso, l’ultima macchina alla frontiera dell’eternità era, e sarà, già in nuce contenuta nella prima. Ne era, e sarà, la conseguenza inevitabile.
Funziona così anche per l’umanità, per la sua Storia e il suo destino, qualunque esso sia? La mania che ci sta facendo “impazzire” è che, in fondo, l’intelligenza artificiale era già iscritta nel primo carattere cuneiforme e le sonde spaziali nella ruota? La Spoon River della scienza novecentesca di Labatut credo parli soprattutto di questo.