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 La nuova funzione si chiama "Ask This Book” e servirà ai lettori confusi, distratti o non proprio sveglissimi.
Il distributore americano Neon ha organizzato una proiezione per soli manager di No Other Choice di Park Chan-wook, che è un film su un uomo che uccide manager Con tanto di lettera indirizzata a tutti i Ceo delle aziende Fortune 500, invitati a vedere il film il 17 dicembre a New York alle ore 17 locali.
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I Talebani in Afghanistan hanno un nuovo nemico: i giovani che si vestono da Peaky Blinders Quattro ragazzi di 20 anni sono stati sottoposti a un «programma di riabilitazione» dopo aver sfoggiato outfit ispirati a Tommy Shelby e compari.
Il neo Presidente del Cile José Antonio Kast ha detto che se Pinochet fosse ancora vivo voterebbe per lui Ed evidentemente anche questo è piaciuto agli elettori, o almeno al 58 per cento di quelli che hanno votato al ballottaggio e che lo hanno eletto Presidente.

I manga spiegati a Veltroni

Piccola storia di come il fumetto (giapponese e non) abbia sempre avuto in Italia una scarsa considerazione culturale. Ultima dimostrazione: l'editoriale sul Corriere della Sera dell'ex segretario Pd.

09 Novembre 2021

Leggendo il pezzo “Perché i manga hanno conquistato i nostri ragazzi”, scritto da Walter Veltroni sul Corriere della Sera, mi sono tornate in mente altre cose lette in passato pubblicate all’epoca anch’esse sul Corriere. Era il 1969, e già che una discussione di quest’anno ricordi una discussione di quell’anno dice tutto del dibattito culturale italiano, del Corriere, di Veltroni. Il 15 novembre del 1969 Indro Montanelli scrive di Poema a fumetti, l’ultima opera scritta e disegnata dal suo amico Dino Buzzati: un graphic novel, come lo chiameremmo oggi, un fumetto, come lo si chiamava ai tempi. “L’ultimo Buzzati”, si intitolava il pezzo, ironia a fette spesse come era solito farne Montanelli. «Troppo licenzioso», quel Poema a fumetti, e più di questo non dimandare (limitati a ridere, pensando a quello che sappiamo oggi di Montanelli): come detto, Indro e Dino erano amici, Montanelli era pure un appassionato di fumetti Disney, che pubblicherà in strisce ai tempi de La Voce. La critica di Montanelli a quell’ultimo Buzzati si capisce meglio leggendo una riga di un pezzo scritto dal grande Alberico Sala sul Corriere dell’Informazione un paio di settimane dopo: «Per la prima volta un grosso scrittore ha scelto per esprimersi il fumetto, riscattandone le qualità […]». In quel “riscattandone” c’è tutto quello che serve sapere della storia del fumetto: all’epoca si provò a dire che non era proprio quello ma un poco arte pittorica e un poco romanzo, solo oggi possiamo riconoscere la verità nelle parole di Milo Manara («Si tratta di un fumetto vero e proprio, come è inequivocabilmente dichiarato già nel titolo») e nell’influenza che l’ultimo Buzzati ha avuto sull’opera sua e di decine di altri fumettisti. Il contratto con dio di Will Eisner, considerato dall’accademia della Nona Arte il primo, vero, graphic novel della storia, uscirà negli Stati Uniti dieci anni dopo.

Col tempo il riscatto del fumetto si è realizzato: da quando Umberto Eco scrisse che a lui Dylan Dog piaceva assai, nessuno si è più azzardato a pensare ai Bonelli (e simili) come giocattoli dei bambini. Poi si è realizzato: nelle classifiche, in Gipi candidato al Premio Strega, in Zerocalcare messo grande e al centro della prima pagina di un nuovo quotidiano (L’Essenziale), in ZUZU che disegna la sigla de L’assedio di Daria Bignardi, in Makkox che rinnova la tradizione del vignettista, nella diffusione pop di A Panda Piace, Sio, Fumettibrutti.

Ma un qualche pregiudizio resta. Nel 2013 Gipi è ospite di Concita De Gregorio a Pane Quotidiano per parlare di Unastoria. De Gregorio comincia l’intervista dicendo di voler evitare la parola “fumetto” perché riduttiva. Gipi risponde con l’acume e la dolcezza che gli sono proprie (almeno al di fuori dei social), ma De Gregorio tiene il punto: «Beh, però questo è qualcosa di più di un fumetto, se posso dire». E Gipi: «No, è semplicemente un fumetto fatto bene». Ci sono voluti quasi altri dieci anni per arrivare dove siamo adesso, e “adesso” è una parola difficile: vuol dire quello di cui s’è detto finora e vuol dire pure Veltroni che parla di manga sul Corriere. Però, pur con tutto il suo andare per la tangente – parte dai manga che vendono tantissimo e riempiono piani interi delle librerie, passa per Squid Game e i BTS (Giappone, Corea, le mele, le pere), arriva alla fine dell’egemonia culturale americana e al «Vento d’Oriente» (?) che non va temuto – il pezzo di Veltroni ha un merito: ha ribadito che il “riscatto” è avvenuto non per il mezzo – il fumetto – ma per quello che ne è stato fatto grazie ad anglicismi abusati. L’inizio della seconda età dell’oro della tv americana cominciò con lo slogan «it’s not tv, it’s HBO». Il riscatto del fumetto è stato guidato dalla nuova convinzione che non si trattava di giornaletti, ma di graphic novel. Per Veltroni il manga, il fumetto, il giornaletto funziona bene quando serve da gateway pleasure verso altre letture: «Cominceranno dai manga e forse […] scopriranno per questa via altre storie, altri testi, altri paesaggi». Così i ragazzi più fortunati, potrebbe passare dallo scaffale “Manga” a quello “Vera Letteratura” e leggere cose come «Tornarono a casa e, storditi e disinibiti, fecero l’amore nell’ascensore che avevano bloccato al piano. Sentivano le urla di protesta dei condomini, ma l’unica reazione che adottarono fu quella di accelerare le pratiche del godimento, poi arrivato per entrambi nello stesso momento, uno di quelli in cui due persone diventano una sola, in cui tutto si confonde, e i fluidi si espandono passando da un corpo all’altro, una trasfusione di felicità». Vi lascio indovinare chi sia l’autore (non fatevi ingannare da quelle trasfusioni di felicità sul finale, non è Alessandro Di Battista).

I manga hanno avuto una brutta fama sin dal loro arrivo in Italia, ma ora la cosa si è fatta più sottile: sono un affronto le classifiche riempite dai tankobon, come li chiamano i giapponesi, che costano spesso meno di cinque e raramente più di dieci euro. Che il successo dei manga in libreria abbia specifiche cause culturali e industriali non è argomento da analizzare? Le edicole che chiudono, l’incapacità ormai cronica dell’industria culturale occidentale di costruire opere esclusivamente per giovani e giovanissimi, cosa che invece i giapponesi continuano a fare (i loro fumetti hanno un nome proprio che spiega da chi vorrebbero essere comprati: shounen per i maschi, shoujo per le femmine, seinen per gli adulti, poi ognuno aggiunga e mescoli come gli pare); il “traino” delle piattaforme di streaming che sempre più investono negli anime; l’ossessione di derivazione americana per gli universi condivisi e le continuity, contro la tradizione dei mondi contenuti in se stessi e della narrazione autoconclusiva dei nipponici.

Che questa roba venda è un male o è un bene?, si chiede Veltroni. Farò contento l’ex-segretario del Pd e citerò qui due classici: facciamo come ne Il nome della rosa e torniamo ad Aristotele, a Le confutazioni sofistiche. Da premesse errate vengono conclusioni sbagliate anche attraverso ragionamento corretto: Veltroni parla dei manga come fossero un genere, e invece sono un mezzo e un linguaggio. Manga vuol dire letteralmente fumetto, ma l’errore sul significato della parola è piuttosto comune: nella non tanto piccola comunità di lettori di manga italiani divenne una specie di meme la foto di un cartellone di chissà quale libreria di chissà quale città. Era una sorta di benvenuto alla sezione del negozio dedicata al fumetto giapponese: «Qui ci sono i manga», c’era scritto, «una parola che significa “ascolta”». Meriterebbe un premio quello che riuscì a risolvere il rebus: avevano letto la voce dedicata su Wikipedia e scambiato la parentesi, con dentro il link al file audio della pronuncia della parola, con la traduzione della stessa.

I manga hanno avuto una brutta fama sin dal loro arrivo in Italia e, come spesso capita, si diventa famigerati perché si viene fraintesi. Quando, nel 1976, nel nostro Paese arrivarono le prime serie anime (i manga vennero solo dopo, a successo acquisito), ci arrivarono perché costavano poco: l’industria dell’animazione e del fumetto giapponese si fonda, ancora oggi, su condizioni lavorative indecenti (se volete saperne di più, guardate un delizioso anime di qualche anno fa, si chiama Shirobako). All’epoca, quell’indecenza faceva comodo: c’erano palinsesti da riempire e nuovi pezzi di pubblico da accontentare: “l’invasione dei cartoni animati giapponesi”, come venne definita all’epoca, fu data ai ragazzini, le telenovelas sudamericane alle casalinghe. Un prodotto valeva l’altro: c’era un buco nella programmazione all’ora di pranzo o della digestione e si metteva quello. Poco importava che in Giappone gli anime andassero in onda la sera: gli americani i loro cartoon li trasmettevano la domenica mattina.

Quando, alla fine degli anni ’70 quelle storie – il Grande Mazinga, Mazinga Z, Goldrake, Candy Candy, Lady Oscar, Harlock, Mila e Shiro, solo per citarne alcuni – arrivarono in Italia nella loro versione originale, quella cartacea, ovviamente l’opinione a riguardo era quella che veniva dalla tv: almeno così i bambini stanno zitti e non rompono i coglioni. Gli eroici Alfredo Castelli e Silver provarono già allora a spiegare che le cose erano più serie di come le facevamo noi nella nostra provincia, misero su una rivista chiamata Eureka che pubblicava “manga seri” come Golgo 13 e Black Jack: ovviamente finì malissimo. I manga hanno avuto una brutta fama sin dal loro arrivo in Italia. L’ossessione per il “disagio dei giovani”, altro tic diventato parte del carattere di un Paese di pensionati e pensionandi. Elena Romanello sulla questione ci ha scritto saggi interi, ma il mio aneddoto preferito resta sempre la spiegazione che all’epoca fu data al fenomeno dei «sassi dal cavalcavia» di Tortona: i ragazzini fanno questa cosa assurda perché giocano a un gioco che si chiama Ken, perché ogni generazione ha il suo Bluewhale e, di conseguenza, le sue Iene (quando si vince a Ken, per qualche ragione si grida “Bingo!”, scrisse Fabrizio Ravelli su la Repubblica del 22 gennaio del 1997, pochi mesi dopo i fatti. Ravelli non indagherà mai i legami tra i lanciasassi del cavalcavia e le sale bingo, né quelli tra Ken e Barbie). Anzi no, non è un gioco ma un fumetto giapponese intitolato Hokuto no Ken, direttamente responsabile dell’accaduto come si intuisce dalla foto della cameretta di uno dei ragazzi in cui si possono distinguere poster di X-Files, dischi metal, albi di Dylan Dog e nessuna traccia di Ken il Guerriero. Talvolta «la violenza parossistica e perciò irreale di cui queste pubblicazioni sono sempre intrise» (sempre Veltroni) genera mostri, ed è per questo che noi adulti siamo ancora oggi a vigilare sulla prima pagina del Corriere della Sera.

I manga hanno avuto una brutta fama sin dal loro arrivo in Italia, ma ora è peggio perché il loro successo è visibile: adesso si nota perché nel frattempo tutti gli altri “media tradizionali” si sono dimenticati come si fa a convincere i ragazzi a spendere i soldi della paghetta. C’è chi dice persino che il successo commerciale dei manga stia in realtà portando, paradossalmente, a una loro diminuita diffusione culturale: se ne leggevano di più e diversi ai tempi pionieristici della scannerizzazioni illegali, un meccanismo contraddittorio simile a quello che ha girato per anni tra il boom della serie tv e quello dello streaming illegale e della pirateria online. Ora, invece, c’è quello che i gatekeeper decidono di far passare, che è minore in quantità a disposizione, ma maggiore in comodità di fruizione.

Il modo in cui Veltroni ha scritto di manga mi ha fatto tornare in mente un altro aneddoto, che in realtà è un segno di certi tempi, di certe persone, delle direzioni che la storia culturale di un Paese può prendere e che poi non prende. Dino Buzzati scrisse una parte della prefazione alla prima edizione italiana (1968) del Paperon de’ Paperoni di Carl Barks: «Una delle più grandi invenzioni narrative dei tempi moderni: la loro statura, umanamente parlando, non è inferiore a quella dei famosi personaggi di Molière, o di Goldoni, o di Balzac, o di Dickens». Buzzati scriveva pure lui sul Corriere e, già 53 anni fa, lo sapeva che questi non erano e non sarebbero mai stati solo giornaletti.

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