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Marco Rossari: come sprofondare in una nottata di alcol, amore e letteratura

Con lo scrittore abbiamo parlato del suo ultimo libro, L'ombra del vulcano, appena uscito per Einaudi.

di Davide Coppo

Mettere tutto in un libro. Mettercela tutta. Credere nella letteratura come se fosse l’unica ragione di vita. Oggi è ancora possibile?» Se lo chiede il protagonista di L’ombra del vulcano, il nuovo libro di Marco Rossari – ed è un protagonista che assomiglia molto a Marco Rossari. Sono belle credenze, io ci credevo molto a un certo punto della vita, quando studiavo, per esempio, letteratura all’università. Succede, per me, per molti, che poi si cresce, si invecchia, e si crede meno nella letteratura. O forse ci si scherma di più, si usa l’ironia, la nonchalance. È un peccato. Marco Rossari ha scritto un libro invece che è una preghiera per la letteratura, sincera, bruciante. La storia di un uomo che si trova a tradurre un libro-mostro – Sotto il vulcano di Malcom Lowry – e lo deve fare mentre naufraga una sua storia d’amore durata un decennio. Il tempo della narrazione è quello di un’estate torrida e quasi solitaria a Milano, in cui il protagonista si aggrappa alla letteratura per salvarsi dall’amore e dall’alcol, o si aggrappa all’alcol per salvarsi dalla letteratura e dall’amore, e così via per altre combinazioni. Rimangono questi tre fattori, spesso fondamentali in una vita.

Penso che una delle qualità principali di questo libro sia la sincerità con cui scrivi di letteratura. La letteratura come una forza travolgente, che cambia le vite. Quasi anacronistico, mi ha fatto pensare alla purezza che avevamo quando ci siamo innamorati dei libri, prima che arrivasse quell’ironia che adesso capita che mettiamo davanti a tutto, per difenderci.
Sono cresciuto scrivendo cose più umoristiche, e schermandomi dietro quelle risorse: l’ironia, il sarcasmo. Tuttora lo faccio e questo libro non ne è del tutto esente. Ed è dovuto anche al fatto che quindici anni fa ho provato a scrivere un grande romanzo ed è stato un disastro, una sconfitta tremenda. Da quel momento ho cominciato a riscrivere umoristicamente. A un certo punto ho sentito che però questa scrittura umoristica era molto più fragile dell’altra. Mi ricordo perfettamente che mentre stavo scrivendo Le cento vite di Nemesio, un libro con una gag a ogni pagina, a un certo punto ho sentito nostalgia di un tipo di scrittura che se ne fregasse completamente di tutto. E ho iniziato a scrivere su un file dei lunghi brani di prosa completamente liberi ma che mi davano gioia. Da lì è nato Nel cuore della notte. Con questo libro sono tornato su questo tipo di scrittura.

ⓢ Ci vuole coraggio, per scrivere così?
Io ho un rapporto con la letteratura di questo tipo, molto viscerale, che continuo in realtà a cercare di attenuare con l’ironia, perché sarebbe troppo forte, ridicolo. Per cui in questo libro penso che sia la prima volta in cui riesco a dosare questi elementi al punto giusto. Però è vero, tendo a fregarmene. Anche perché non avendo venduto mai troppo, ho questa opinabile fortuna. Quando parli con uno scrittore che ha venduto tantissimo, ha questa angoscia: non posso cambiare, ho paura di essere ridicolo, devo stare in quella zona lì… Io me ne frego.

ⓢ Poi c’è l’amore, e ce n’è tanto, sentimentale, disperato. È più imbarazzante scrivere di tenerezza che di sesso?
Sì, certo. Io sono fondamentalmente impudico, quando scrivo. È vero, è difficile scrivere di tenerezza. Se vuoi raccontare la fine di una storia senza evocare il cliché della guerra dei sessi, le litigate, i traumi, i soprusi, ma invece vuoi raccontare effettivamente la dolcezza, il cuore di un rapporto, devi abbandonare la timidezza.

ⓢ Ci sono stati dei momenti in cui ti sei sentito scemo a scrivere certe cose?
C’è una frase in Sotto il vulcano, è il Console che dice a sé stesso: «Stai diventando orrendamente sentimentale». Ogni tanto me lo ripeto anch’io.

ⓢ Quindi abbiamo parlato di letteratura, di amore, e adesso parliamo di alcol. Come si scrive di alcol evitando, anche qui, quel cliché dello scrittore ubriacone solitamente associato a Bukowski?
Lowry di alcol ha scritto tantissimo, ha permeato la sua scrittura di alcol. Tu guardi al mondo attraverso gli occhi del Console in modo allucinato. Alla fine la difficoltà di Sotto il vulcano è che è un libro sì, modernista, à la Joyce, caotico… Il problema è che è un libro completamente ubriaco, allucinatorio. Lowry è uno che ce le aveva le visioni: non riusciva a tagliarsi una bistecca, ad accendersi una sigaretta. Quindi non c’è stato solo Bukowski. Avendo io un discreto rapporto con l’alcol, tendo un po’ a sprofondare con la scrittura. Faccio una cosa da speleologo. Butto fuori tutto quello che riesco a sentire e cerco qualcosa di poetico. Non mi interessa la bruttura dell’alcol. Mi interessa invece far partecipare il lettore a cosa significa sprofondare in una nottata fino a perdere i contorni della realtà. E questa cosa puoi farla soltanto entrando in una rete di assonanze, allitterazioni, che ha a che fare con la poesia.

ⓢ Sprofondare mi sembra una bella immagine di moto che descrive tutto quello che succede in questo libro.
Sì, perché io tendo a farmi possedere. A consegnarmi. Anche nelle storie d’amore: credo che l’amore abbia una virtù metamorfica verso l’essere umano. Ti trasformi, e ti lasci possedere in parte dall’istinto, dall’anima, dai pensieri dell’altra persona. Forse quando ne scrivo, e questa cosa mi succede anche in effetti con la letteratura e con l’alcol, mi abbandono alla cosa che amo.

ⓢ In L’ombra del vulcano parli di un libro in particolare che ti ha cambiato la vita. Ci sono altri libri che lo hanno fatto, magari rimanendo nell’ombra, senza manifestarsi nello stile o nei temi?
Mi sono reso conto che una parte di questo libro – perché ti dimentichi di certi sassolini che ti sono rimasti nella scarpa – deve molto a uno scrittore che non legge più nessuno: si chiama Thomas Wolfe, il libro è Storia di un romanzo, pubblicato da Fazi secoli fa. Uno scrittore importante per un certo Novecento americano, in Italia non ha mai avuto fortuna. Di sicuro io non posso prescindere da una linea divertita e poetica e piena di giochi linguistici: Gadda, Arbasino, Tondelli. Poi ci sono tutti gli angloamericani del Novecento: Joyce, di sicuro, e i colossi che mi hanno insegnato cos’è il romanzo. DeLillo, Auster e Roth mi hanno dato la capacità di capire che il romanzo è struttura. Perché poi, in Italia, non lo sappiamo ancora bene cos’è il romanzo. E poi, per i momenti di dolcezza, ad aiutarmi nella prosa c’è stata anche una poetessa come Vivian Lamarque.

ⓢ C’è questo passaggio di Daniele Del Giudice in un saggio contenuto in In questa luce che dice: «Debbo ricordare che non esiste una lingua narrativa italiana. Esiste una lingua poetica italiana, una lingua poetica unitaria e continuativa che va da Dante fino a Zanzotto»
Certo, il grande Novecento italiano è Gadda, Manganelli, Landolfi, tutti scrittori stilisti. Uno scrittore che per me ha voluto dire molto come esempio di mutevolezza, azzardo, intelligenza e divertimento, che viene da quella linea ma l’ha trasformata in qualcos’altro è Tiziano Scarpa: uno che non ha mai scritto un libro simile all’altro.

ⓢ Anche tu scrivi libri molto diversi tra loro.
Io sono contento di aver scritto Nel cuore della notte, e poi Le bambinacce, che è tutt’altra cosa, e poi quest’altro libro, che rientra in un altro filone ancora. Mi piace evadere, fare delle scappatelle con i generi più strambi.

ⓢ E questo scrivere in seconda persona, come è nato?
È venuto naturale. Io volevo che ci fosse una presenza forte di questa donna fantasmatica. È anche una seconda persona mentale, in parte. È come una lettera che non avevi mai scritto. È il delirio notturno in cui dici: «Ti avrei voluto…» E ti rivolgi a un fantasma. In realtà è un libro di fantasmi, e questo è solo il fantasma principale.

ⓢ Parliamo di autofiction. La chiameresti così, la tua scrittura?
No, per me l’autofiction è una cosa molto intellettuale e molto fredda. Cerca di sfruttare il voyeurismo verso l’io per catapultare il lettore in qualcosa di perturbante – e parlo solo dei risultati migliori. Forse io tirerei fuori l’antica definizione di romanzo autobiografico: c’è sicuramente una componente autobiografica. Però sono partito dall’idea: adesso racconto una cosa vera. E poi all’improvviso ho avuto la sensazione che questa storia avesse bisogno di una cornice, che è quella dell’estate incandescente in città, che fosse romanzesca.

ⓢ È difficile scrivere di sé stessi, a 49 anni, dopo tanti libri?
49? Come passa il tempo quando ci si diverte. Non avere mai problemi a raccontare nel modo più viscerale, osceno e impudico tutto quello che succede con l’età, è una caratteristica della letteratura. Poi ci saranno quelli che diranno: è poco chic innamorarsi a 64 anni. Ma se uno mi racconta il suo amore folle a 64 anni come nel Teatro di Sabbath io mi diverto.