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Limburg

05 Luglio 2011

Tutti i bambini di questo mondo amano le patate fritte ed il cioccolato, ed anche chi preferisce le tedesche ammetterà che la birra belga è qualcosa di speciale. A parte questi pilastri di certezza, il Belgio è probabilmente il Paese europeo più schizofrenico che ci sia. Da una parte ospita il quartier generale dell’UE (almeno in teoria bastione di unità ed intesa transnazionale), mentre dall’altra ha recentemente strappato all’Iraq la statuetta per il record di mesi senza un governo ufficiale. Da tempo frulla in testa a molti l’idea della secessione, ed a qualcuno addirittura quella di dissolvere lo Stato annettendo rispettivamente i ricchi nazionalisti delle Fiandre all’Olanda e gli squattrinati socialisti valloni alla Francia. Ma con tre regioni e altrettante comunità linguistiche, che non coincidono, questa polarità da Signore degli Anelli sembra sfumare in una millefoglie di beghe ultraterritorializzate.

La provincia di Limburg sta a cavallo tra la parte settentrionale e quella meridionale del Belgio, contemporaneamente contigua all’omonima regione olandese e stiracchiata oltre il confine vallone. I borghi principali sono tutti di origine medievale ed hanno nomi che sembrano onomatopee da battaglia con gli spadoni, come il capoluogo Hasselt o Genk, dove dopo il declino delle miniere di carbone la maggior parte della gente lavora nell’industria automobilistica. Vivacizzata da una piazzetta accogliente o dai loghi al neon di qualche birra locale, di solito l’anonimità della provincia belga non fa molto arte contemporanea. Con il suo passato (medievale prima, e minerario poi) ed il presente fordista, la zona si è però aggiudicata la prossima edizione di Manifesta.

La biennale itinerante paneuropea (che tempo fa passò anche da noi, in Trentino-Alto Adige) fu fondata dopo la caduta del muro di Berlino e, negli anni, si è proposta come una piattaforma per la mappatura di una nuova topologia culturale europea. E, di conseguenza, pure per la sua creazione.

Le città coinvolte sono sempre state scelte in aree lontane dalle rotte internazionali del mondo dell’arte, spesso con contrasti culturali o linguistici (come nel caso della basca San Sebastian, nel 2004, e di Nicosia, nel 2006, edizione annullata a causa di problemi con le autorità cipriote). Dalla prima edizione a Rotterdam, Manifesta si è sempre più concentrata su regioni invece che singole città, passando da urbanità ben definite come Lubiana o Francoforte ad aggregazioni culturali (tra cui la nostrana, già citata). Anche il carattere europeo della manifestazione è andato quantomeno deterritorializzandosi, con l’esplicita ricerca di dialogo con il Nord Africa della scorsa edizione spagnola di Murcia/Cartagena e la partecipazione di un numero crescente di curatori e artisti provenienti da altri continenti.

Quale che sia il credo curatoriale di Manifesta, il suo caratteristico formato è stato recentemente criticato in un interessante saggio di Marco Scotini sul primo numero di No Order, una pubblicazione sul ruolo dell’arte nella società postfordista. Secondo Scotini, il formato stesso di biennale e la funzione di promozione regionale dell’evento sono esempi perfetti di precarizzazione dei professionisti ed asservimento alle logiche di riqualificazione postindustriale, princìpi che governano il mercato del lavoro e lo sviluppo urbano in maniera ormai trasversale. Nonostante il carattere politico, Manifesta sarebbe l’ennesimo pupazzo della flessibilità e del profitto globale, un carnevale che promette benefici paragonabili al famoso “effetto Guggenheim” (che anni fa ha trasformato una città poco attraente come Bilbao in una meta turistica obbligata) senza però lasciare benefici culturali duraturi. A parte un’ovvio input turistico con cospicuo tintinnìo nelle casse (pubbliche e non), dice Scotini, a livello di fermento ed iniziative il rapporto con il contesto ospitante non sopravvive al periodo delle mostre. Ed in proposito il curatore e direttore di No Order cita anche la crisi finanziaria del Museion di Bolzano, il quale aprì una nuova e spettacolare sede subito prima del capitolo trentino della biennale e fu sferzato da ingenti debiti poco dopo.

Tenendo presente la critica strutturale di cui sopra, aldilà delle aspettative rivoluzionarie riguardo a qualsivoglia formato curatoriale, bisogna riconoscere che dal punto di vista locale la biennale male non fa. Non è il Guggenheim e nemmeno un siero di vitalità underground, ma una diversione sì. Chi si aspetta che una biennale debba risolvere i problemi del contesto in cui avviene ovviamente storcerà il naso, chi invece la usa come pretesto per farsi una gita sicuramente non resterà deluso.

Possiamo immaginare perché Hasselt, Genk e qualunque altro paesello della zona abbastanza fortunato da ospitare l’esposizione non possa che rallegrarsi della partecipazione a Manifesta 9. Se la regione di Limburg ha preso il suo nome da una cittadina che adesso sta in un’altra provincia, mentre il Belgio tutto non sa a quale Stato potrebbe pagare le tasse tra qualche anno, una certezza c’è: la geografia dell’arte contemporanea è mobile ma esclusiva, e 100 giorni di popolarità non capitano proprio a tutti.

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