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Le maschere, i capricci e le passioni di Leonor Fini

Fino al 25 giugno alla galleria Tommaso Calabro a Milano, un omaggio alla vita di un'artista a lungo dimenticata.

di Alessia Delisi

Leonor Fini (1907-1996), Le Retour des absents (1965, olio su tela, 81 x 116 cm)

Si doveva respirare un’atmosfera di decadenza e glamour nella Venezia del 1951, quando, in una notte di fine estate, si svolse la festa in maschera più faraonica e più contestata del secondo dopoguerra italiano: Le Bal Oriental, che già qualcuno si apprestava a definire “il ballo del secolo”, organizzato da un eccentrico collezionista d’arte, il miliardario franco-messicano Don Carlos de Beistegui, nel suo da poco restaurato Palazzo Labia. L’ispirazione per il dress code era il Settecento trasfigurato e fantastico delle Storie di Antonio e Cleopatra, gli affreschi di Giambattista Tiepolo che decoravano la sontuosa dimora di de Beistegui, oggi sede della Rai. Tra mille invitati – tutto il jet set dell’epoca – c’erano l’Aga Khan III, Marella Caracciolo (non ancora coniugata Agnelli), la socialite Daisy Fellowes, Teresa Foscari Foscolo, Barbara Hutton, Christian Dior con un costume ideato da Dalí e Dalí con uno di Dior, Orson Welles che teneva banco mentre Cecil Beaton, Cornell Capa e Robert Doisneau erano intenti a scattare foto. E poi c’era lei, Leonor Fini, l’angelo nero del Surrealismo, l’artista di origini argentine amica di Anna Magnani ed Elsa Morante (erano soprannominate “le gattare”), che amava dare scandalo, alimentando un mito creato in gran parte da lei stessa.

Prima di venire dimenticata, relegata dalla critica italiana a personaggio da cronaca rosa per via del suo anticonformismo e della passione per maschere e travestimenti, Leonor Fini era stata pittrice, scenografa, costumista, scrittrice e illustratrice. Aveva vissuto fra Trieste, Milano, Parigi e Roma, attraversando la scena culturale europea dagli anni ’20 fino alla sua morte, nel 1996. Il pittore surrealista Max Ernst, che l’aveva frequentata negli anni Trenta a Parigi e con cui aveva esposto nel 1936 alla Julien Levy Gallery di New York (l’introduzione al catalogo era di Giorgio De Chirico), la chiamava la «furia italiana», descrivendola come una donna di «scandalosa eleganza, capriccio e passione». Oggi l’artista, nata a Buenos Aires da emigrati italiani, torna a far parlare di sé con la mostra Leonor Fini. Italian Fury, in programma dal 2 aprile al 25 giugno alla galleria Tommaso Calabro di Milano con la regia di Francesco Vezzoli e un allestimento di Filippo Bisagni.

Leonor Fini, Nonza, Corsica, 1965

Su Leonor Fini circolano molte leggende. Si dice, per esempio, che non fosse nata nel 1907, ma più probabilmente nel 1910. Nella collezione della Galerie Minsky di Parigi, che conserva molte sue opere, sono presenti passaporti e carte d’identità che ne daterebbero la nascita anche al 1908 e persino al 1918. Lei stessa era solita mentire sull’età e pare addirittura che avesse chiesto a Stanislao Lepri, suo compagno di vita insieme a Constantin “Kot” Jelenski, di falsificare i propri documenti. Dopo una prima giovinezza trascorsa a Trieste – la madre vi è tornata per sfuggire a un marito dispotico e bigotto – Lolò, come molti la chiamano qui, è prima a Milano, dove ama, ricambiata, il pittore Achille Funi, e poi a Parigi. Sul treno che la porta nella capitale francese racconterà di aver conosciuto un uomo «paffuto, strano, sbrindellato ed elegante nello stesso tempo»: è Filippo De Pisis, che la introdurrà all’ambiente artistico della città e grazie al quale, nel 1931, esporrà alla galleria Jacques Bonjean, diretta da un giovane Christian Dior.

Se a Trieste la sua cerchia di amici includeva gli artisti Arturo Nathan e Carlo Sbisà, Gillo Dorfles e il futuro gallerista Leo Castelli, a Parigi frequenta assiduamente Breton, Dalí, Éluard, Ernst e gli altri esponenti del movimento surrealista, a cui tuttavia non aderisce mai. Ha un’indole insofferente e ribelle, ama mascherarsi (ha imparato a farlo da piccola, per rendersi irriconoscibile al padre che vuole riportarla a Buenos Aires) ed è la regina incontrastata delle feste. I suoi dipinti in questo periodo – pare che per qualche anno abbia venduto più di Picasso – sono popolati da creature ambigue e asessuate, sfingi, angeli, donne-gatto, come pure da oggetti dall’oscura simbologia psicanalitica. Nel 1936, per Elsa Schiaparelli, disegna il profumo Shocking, ispirato al busto dell’attrice Mae West, ma è la mostra Fantastic Art, Dada, Surrealism al MoMA di New York a consacrare il suo talento.

Leonor Fini, Saint-Dyé-sur-Loire, 1973

Nel 1943 si trasferisce a Roma con il nuovo compagno, l’aristocratico Stanislao Lepri, che per lei ha interrotto la carriera diplomatica e si dedica alla pittura (negli anni Cinquanta la coppia si trasformerà in un trio con l’arrivo di Constantin Jelenski, intellettuale di origini polacche). L’Italia però non sembra accogliere favorevolmente le sue opere, considerate troppo letterarie e di maniera. La delusione è cocente. «Veramente non farò mai nulla in Italia, né mostre né altre manifestazioni», scrive all’amica Elsa Morante prima di fare definitivamente ritorno a Parigi, nel 1946. E da questa città, al critico Mario Praz: «Ho ben poca nostalgia e sono ben contenta di essere qui, ho fatto una specie di conto, ho visto che in due anni di Italia ho odiato più persone che qui in 13 di soggiorno». È quindi un’artista ritrovata quella che la galleria Tommaso Calabro porta in scena anche attraverso il dialogo con i suoi molti legami affettivi. Come ha scritto l’amico pittore Fabrizio Clerici, «io ancora penso a Leonor come a colei che tra i pennelli e la tela ha posto uno specchio, lo specchio sulla cui superficie a volte passano riflessi gli interni moti della sua fantasia, i capricci, gli aspetti più intimi e affascinanti del suo sentire, e gradatamente li dipinge per noi per tramandarci e farci capire la complessità del suo dramma».