Attualità

La tv fatta con il cuore (e le frattaglie)

Intervista a Chef Rubio, star di Unti e bisunti prima e Il cacciatore di tifosi poi: si parla di cucina di strada, rugby e televisione.

di Fabio Guarnaccia

Gabriele Rubini aka Chef Rubio arriva all’appuntamento con qualche minuto di ritardo, trafelato e coperto di sudore. Quest’anno l’inverno a Milano fa davvero schifo, è caldo e piovoso. Guardo fuori ma il tempo sembra reggere. Gli ultimi chilometri se li è fatti di corsa, mica ho capito perché. Negli ultimi mesi Chef Rubio è diventato uno dei personaggi più interessanti della tv italiana, una delle più avare al mondo in fatto di facce nuove. Da quando è cominciato Unti e bisunti (giugno 2012) non ha più smesso di correre. Il suo nuovo programma, Il cacciatore di tifosi, è il primo di una lunga serie di eventi che Discovery ha organizzato dopo aver acquistato l’esclusiva del Sei Nazioni, il torneo di rugby più importante in Europa, in programma a febbraio su DMAX. Gabriele, manco a dirlo, è stato un giocatore di rugby professionista. Due passioni, due programmi. Mi piacerebbe capire, al di là delle retorica da ufficio stampa, quanto pesino il rugby, ma sopratutto la cucina, nella sua vita.

Cucina

Gli chiedo da dove arriva il suo nome, tra i cuochi che lavorano in tv lui era uno sconosciuto: nessuna stella Michelin, nessun ristorante, nessun piatto firmato. Mi racconta che “Chef Rubio” è il nome che si è scelto per assonanza con Chef Tony. Faceva ridere. Ma in realtà l’idea di fondo era quella di portare un po’ di umanità nella rappresentazione che si offre oggi della cucina: «La qualifica di chef è autoironica. Oggi se ne parla tanto, c’è molta attenzione e serietà sul termine. Mi piace smontare tutti quelli che si mettono la casacca da chef con su il proprio nome. Per cui sono partito con filmati amatoriali su Youtube (il canale è ancora attivo e si chiama “fishechip”, nda) con l’idea di comunicare il mio modo di vivere la cucina. Essere competenti non significa necessariamente prendersi sul serio». Resta il fatto, però, che Rubio chef lo è davvero. Nel 2010 ha frequentato il corso superiore ad Alma, la più importante scuola di cucina italiana a livello internazionale, diretta da Gualtiero Marchesi. «Un pezzo di carta serve a farti prendere sul serio dagli altri come chef. Ma anche questa è una mezza verità. Per cucinare bene non serve nessun diploma». La sua ostilità nei confronti del sapere ufficiale ha radici profonde, mi racconta che ha lasciato l’università dopo tre anni di giurisprudenza perché sentiva il bisogno di fare qualcosa per sé. In questo senso la qualifica di chef gli calza a pennello: capo di se stesso. «Per migliorare bisogna saper correre dei rischi ed essere egoisti».

Le pagine di apertura e chiusura del taccuino sono foderate con immagini che descrivono i diversi tagli della carne, sono bellissime e ci sono tagli di cui non immaginavo l’esistenza (spalla tennis?)

Se Alma gli è servita per sentirsi più sicuro e per ampliare la sua cultura culinaria, sono stati i viaggi la sua scuola più importante. «Il primo viaggio serio è stato in Nuova Zelanda nel 2005 ed è coinciso anche con il mio primo lavoro in una cucina professionista. Al proprietario ho mentito, gli ho detto che avevo già esperienza, mi ha sgamato dopo una settimana ma mi ha tenuto perché gli piaceva come cucinavo». Giappone, Corea del Sud e Cina sono i paesi che lo hanno segnato di più come cuoco. Ci mettiamo a parlare di cucina cinese e di quanto sia fraintesa in Italia, anche per colpa di molti ristoranti davvero scadenti. «La cucina cinese ha millenni di storia ed è una delle poche al mondo a essere codificata, come quella francese. Poi è alla base della cucina coreana e giapponese». Gli chiedo qual è stato il piatto che ha apprezzato di più a Pechino e mi aspetto chissà quale stranezza, invece mi cita gli spaghetti in brodo di pollo. Non si ricorda il nome del piatto, vorrei dirgli fa niente, ma in quel momento prende dalla borsa un taccuino sfondato e pieno di annotazioni fitte fitte che mi sembra interessante. Ne ho visti diversi nella mia vita, di scrittori, illustratori, fumettisti, designer, ma di cuochi mai nessuno. Le pagine di apertura e chiusura sono foderate con immagini che descrivono i diversi tagli della carne, mi ci perdo dentro, sono bellissime e ci sono tagli di cui non immaginavo l’esistenza (spalla tennis?). Le pagine all’interno sono un lungo elenco senza pause di impressioni personali, ricette e appunti sulla preparazione dei cibi ma anche sui posti di Tokio, per esempio, dove si mangia il migliore ramen. Il nome di ogni piatto è riportato con maniacale precisione, così come gli appunti sulle cotture e i dettagli degli ingredienti sono accurati e costellati di disegni piuttosto divertenti, tra i quali spiccano inaspettati soggetti sadomaso. Capisco che quella per la cucina dev’essere una passione totale, ma evito di addentrarmi oltre. Comunque se lo pubblicasse sarei disposto a comprarlo.
«Eccolo qua, si chiama Qing Tang Mian»: svelato il nome degli spaghetti con brodo di pollo.

Gli chiedo cosa ne pensa della cucina italiana. «Ha delle potenzialità enormi, materie prime eccezionali, ma gli manca rigore. È solo da pochi anni che sta acquisendo un’identità precisa. Quello che mi fa incazzare è che spesso trovi ristoranti che se ne sbattono di dare un’identità a quello che propongono, dove il cibo non racconta nulla. La cucina dev’essere fatta di storie e persone ma troppo spesso proiettiamo le nostre ambizioni su qualcun altro, fare leva su se stessi è più difficile che scimmiottare la cucina degli altri. Se uno fa un piatto non mi verrebbe mai in mente di rifarlo». Mi dice che per lui la cucina deve essere il racconto di un’esperienza e che per questa ragione si sente un cuoco in continua formazione, senza padroni. «Invidio uno chef bravo per il suo vissuto e per quello che ha imparato sul cibo sperimentando. Mi interessa andare all’origine della cucina. Magari ci metterò 30 anni per affermarmi a livello personale ma alla fine, se ce la farò, la mia cucina sarà il risultato del mio percorso, sarò io e nessun altro».

«Certo, le esperienze nei ristoranti in seguito sono state importanti. Ma il cibo di strada ti permette di andare molto a fondo».

A questo punto, anche per stemperare un po’, gli chiedo se è davvero un appassionato di street food [Unti e bisunti è interamente dedicato alla cucina di strada italiana, nda] e che ruolo riveste all’interno della sua ricerca: «Nei primi viaggi non avevo soldi. Non potevo permettermi di mangiare al ristorante, quindi mangiavo per strada. Però lo facevo anche perché la cucina dei ristoranti di solito non è la matrice di una cultura culinaria, mentre quella di strada lo è per forza. Poi certo anche le esperienze nei ristoranti in seguito sono state importanti. Ma il cibo di strada ti permette di andare molto a fondo». Poi mi racconta che a metà gennaio uscirà un libro dedicato alla dieta mediterranea, sul quale lavora da tre anni e che raccoglie 40 ricette della cucina italiana rivisitate da lui e da una nutrizionista. Ma un piatto tuo ce l’hai?

«Ne ho solo uno. È stato il piatto d’esame all’Alma: Sarde in saor espresse. Si tosta la farina, fai il saor al momento e arrostisci la sarda, se lo mangi insieme ti viene in bocca l’effetto ammosciato del fritto delle sarde in saor del giorno prima. Avevo bisogno di un piatto da fare al volo, ero in veneto e volevo restituire la mia esperienza. Gli altri piatti sono un tentativo da cui non ho ancora ottenuto l’effetto che volevo».

In tutto questo la tv che ruolo ha? «Mi piace la possibilità di comunicare le mie cose a un pubblico più ampio. Ma se non avessi più nulla da dire lascerei perdere. Non è una cosa che mi interessa di per sé. Se mi proponessero un programma su qualcosa di diverso dalle mie passioni direi di no. Già così comincio a essere abbastanza in riserva; quindi a maggio, dopo la seconda stagione di Unti spero di avere tempo per cucinare con la costanza che serve». Per farsi capire meglio mi parla di Jiro Dreams of Sushi, un documentario di qualche anno fa che racconta la storia sorprendente di Jiro Ono, uno dei migliori cuochi giapponesi che ha dedicato la vita alla preparazione del sushi: «Capisci come l’eccellenza si può raggiungere solo con il metodo e la ripetizione. Fa sempre la stessa cosa da una vita (ha quasi 90 anni) e ancora non si sente vicino alla perfezione». Gli chiedo se pensa in futuro di fare anche lui lo chef in un ristorante: «Assolutamente no. Cucinerò sempre ma non è detto che la cucina sarà la mia fonte di guadagno». E sulla cucina io non ho più niente da chiedere. Anzi, no, non riesco a trattenermi e gli chiedo se guardaMasterchef, ma fa una faccia che sembra abbia mangiato chòu dòufu (tofu puzzolente).

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Rugby

Ha iniziato a giocare a rugby perchè soffriva di una forte scoliosi – se state pensando che il nuoto sarebbe stato più indicato sappiate che l’ho pensato anche io ma il rugby, mi dice, ti permette di lavorare su tutti i muscoli in modo simmetrico. Buono a sapersi, anche se per me ormai è tardi. Fino a 18 anni ha giocato nel Frascati, che è la sua città di origine, poi è entrato nel giro della nazionale italiana, dall’under 16 all’under 21. Le due squadre a cui è più legato sono la Lazio e il Rovigo, con quest’ultima ha giocato anche la Coppa Europa. Ah, e poi ha partecipato ai Mondiali under 19. Il suo ruolo è quello del terza linea. Il rugby professionistico lo ha mollato per i gravi infortuni subiti, anche se mi confida che stava già pensando di lasciare tutto per dedicarsi alla cucina: «L’ho preso come un segno del destino».

Non devi dimostrare un cazzo. Accettazione e spirito di fratellanza, non fa niente se sei basso, magro, brutto. Questa è la cosa più importante. Ma è difficile da raccontare.

Il suo compito ne Il cacciatore di tifosi è di trasformare un popolo di pallonari in tifosi di rugby. Al suo fianco c’è sempre un giocatore della nazionale italiana che cambia di puntata in puntata. Tra i gruppi di italiani da convertire c’è un po’ di tutto: dai bikers romani agli anziani di una bocciofila. Giusto per capirsi gli chiedo quali sono le caratteristiche più importanti del rugby e lui mi parla di spirito di gruppo, fraternità e lealtà: «Non devi dimostrare un cazzo. Accettazione e spirito di fratellanza, non fa niente se sei basso, magro, brutto. Questa è la cosa più importante. Ma è difficile da raccontare. Non ci sono primedonne e tutto è in funzione del collettivo». Qui parte una lunga discussione sul carattere latino che fa a cazzotti con questi valori perché a noi piace la squadra ma ancora di più ci piacciono le prodezze individuali.

Dai rugbisti che ho conosciuto mi sono fatto l’idea che un po’ ci giochino su questa differenza con il calcio, fino a compiacersene. Metto Rubio a conoscenza di queste mie fisime, mi dice che probabilmente è una forma di difesa. Boh, sarà.

Mi confessa che il personaggio, per quanto sia suo, rispecchia solo una parte del suo carattere. A quanto pare Gabriele Rubini è supertimido.

Rispetto a Unti e bisunti, il programma mi sembra più costruito. Anche lui ne esce in maniera diversa, anche se il personaggio gli calza a pennello: «Per me è stata dura. Ci sono molti più monologhi… Mi è toccato fare di più l’attore, specie nelle parti motivazionali all’interno dello spogliatoio. Un conto è parlare di cibo con qualcuno che capisce quello che dici. Un altro è parlare da solo. Fortuna che c’erano gli autori. Alla fine però ci ho preso gusto e mi sembra che il risultato sia buono».

Gli chiedo se si sente a suo agio con il culto che si è scatenato intorno al suo personaggio, in fondo fino a 8 mesi fa non lo conosceva nessuno. Cos’ha capito che piace di sé al pubblico? Che domanda, mi rendo conto. Però anche qui sembra avere le idee chiare. Piace perché è un tipo diretto e perché francamente il personaggio del romano che fa il duro ma che sotto sotto è un buono gli riesce bene. Poi fa ridere. Mi confessa che il personaggio, per quanto sia suo, rispecchia solo una parte del suo carattere. A quanto pare Gabriele Rubini è supertimido. Io gli credo, così come mi sembra indubitabile la genuinità delle sue passioni. Non ha più neanche i baffi a manubrio che hanno contribuito a diffondere la sua immagine non più tardi di qualche mese fa. A quanto pare gli davano fastidio quando mangiava.

 

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