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Tutte le case di Pedro Almodóvar

Da Donne sull'orlo di una crisi di nervi a La stanza accanto, in tutti i film che ha diretto le case raccontano molto dei suoi personaggi e, soprattutto, di lui.

di Elisa Giudici

Si può fare autofiction a partire dalle quattro mura di casa? Sì, a patto però di essere un narratore eccezionale come Pedro Almodóvar, che anche in La stanza accanto riesce a raccontarsi non solo attraverso i suoi personaggi, ma anche attraverso gli appartamenti che abitano. Sin dai suoi esordi, il cinema di Almodóvar ha avuto una speciale predilezione per gli ambienti casalinghi, o forse pubblico e critica ci hanno fatto particolarmente caso per via del carisma delle abitazioni in cui si muovono i personaggi del regista spagnolo. Il cinema di Almodóvar è espressione di un gusto e una voce così distintivi che basta una scena, un dialogo o l’arredamento di una stanza per riconoscerne immediatamente l’ideatore.

La casa almodóvariana ha alcuni tratti ricorrenti. Il primo è ovviamente il colore: Almodóvar osa quello che buona parte di noi nemmeno contempla di poter fare in materia di tinteggiature. Colori primari, complementari, a contrasto, pareti di un rosso vivo accanto a quelle di un verde profondo, che danno alle sue dimore cinematografiche l’aspetto di musei contemporanei. Analogia visiva rafforzata dall’onnipresenza di oggetti di design prima e di vere e proprie opere d’arte poi, una volta che il suo cinema si sposta dai rioni popolari di Madrid alle case dell’alta borghesia.

In Dolor y Gloria, il film più autobiografico del regista, il protagonista-maschera Salvador Mallo non vuole prestare ai musei che gliene fanno richiesta i dipinti che ha appesi alle pareti di casa, comprati con i guadagni ricavati come regista di fama internazionale. Gli fanno compagnia nelle lunghe nottate in cui lotta contro il dolore: la casa del film è stata ricreata dallo scenografo Antxón Gómez a immagine e somiglianza di quella madrilena del regista, tanto da arrivare a inserire negli ambienti i medesimi oggetti di design, le ceramiche, gli arredi e appunto i quadri di grande valore artistico ed economico.

Nel cinema di Almodóvar l’appartamento prevale sulla villa, i piani alti sono più amati del piano terra (con l’iconica eccezione del seminterrato di Tacchi a spillo, in cui dalle finestre dell’appartamento gli occupanti possono spiare solo i piedi dei passanti, tra cui appunti quelli delle donne che ondeggiano sui tacchi). Almodóvar ama i condomini e i grattacieli, forse per indulgere la sua strana passione per i balconcini fioriti che affacciano sul panorama tutto palazzi – evidentemente, volutamente finto – della città.

C’eraun grande balcone fioritoin Donne sull’orlo di una crisi di nervi nel 1988, c’è un balconcino che affaccia sullo skyline di New Yorkin La stanza accanto, primo lungometraggio in lingua inglese del regista, primo film con cui raggiunge finalmente la vittoria a un festival europeo dopo decenni di trionfi sfiorati. Nel film Leone d’oro a Venezia la protagonista Martha (Tilda Swinton), malata terminale di cancro decisa ad affrontare la morte alle sue condizioni, trova le energie per annaffiare le sue piante. Lo racconta all’amica Martha (Julianne Moore) mentre il cielo newyorkese dietro di lei è di una tinta rosa pastello. Siamo lontani anni luce dall’energia nervosa di Pepa, protagonista di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, che dal balcone fronteggiava prima la minaccia di un suicidio, poi la polizia convinta (a ragione) che avesse aiutato a nascondere alcuni terroristi.

La casa nel cinema di Pedro Almodóvar infatti è molto più di un tratto distintivo o di una scenografia carismatica: è un altro tassello di un cinema che, nel suo complesso, diventa autofiction visiva della vita del suo creatore. Prima ancora e ancor più di essere regista, Pedro Almodóvar è infatti scrittore: il corso degli eventi ha voluto che finisse a narrare storie anche per immagini, colori, suoni. Le sue storie però sono sempre infinite varianti della sua storia personale. La stanza accanto è perfetta espressione della sua voce: una pellicola in cui la sua mano evidente, ma appare palese anche come il regista oggi sia più anziano e contemplativo di un tempo. Questo non solo per il tema trattato – l’eutanasia ma più in generale una riflessione molto catartica sulla morte – ma anche per lo stile sobrio utilizzato, che si riflette sugli spazi casalinghi.

Oltre alla casa di Martha, c’è una seconda dimora al centro della narrazione. Si tratta di una villa lussuosa fuori cittànelle vicinanze di Woodstock, che la protagonista affitta perché vuole morire alle sue condizioni: prima di soffrire troppo o perdere la propria dignità, in un contesto estraneo, non familiare perché «non bisognerebbe mai tornare nei posti dove si è stati bene». Martha non vuole morire nella casa che ha creato a sua immagine e somiglianza perché non vuole macchiarla con il ricordo negativo della sua morte per quanti la erediteranno. Così affitta una villa che è quasi la casa nel bosco delle fiabe,ovviamente in termini almodóvariani. È una villa dalle linee moderne e dagli angoli acuti, tutta vetrate e design, che affaccia su un bosco da cui proviene sempre il canto degli uccelli. È la sintesi perfetta del cinema di Almodóvar oggi, meno sferzante di un tempo, ormai abituato a un contesto alto borghese e high brow lontanissimo dalla sua gioventù di miseria, dagli ambienti prima ecclesiali e poi underground da cui emerse da autodidatta.

Nel corso di La stanza accanto c’è anche un ritorno inaspettato a casa. Martha infatti ha dimenticato un elemento cruciale per il suo piano e l’amica Ingrid la riaccompagna subito a casa per recuperarlo. Le due frugano per tutta l’abitazione e da gran voyeur qual è ed è sempre stato, Almodóvar indulge nel sbirciare nei cassetti della protagonista morente, mostrandoci l’interno di scatole di latta ricolme di cianfrusaglie e ricordi, sfogliando i taccuini che da corrisponde di guerra ha riempito delle proprie memorie, frugando nelle tasche dei suoi abiti.

Rientrata la crisi, Tilda Swinton spende parole toccanti per quel ritorno a casa inaspettato. Aveva già detto addio a una casa in cui non faceva conto di tornare, che ora gli appare strana, quasi estranea. È l’effetto che fa il cinema degli anni ’80 e ’90 del regista quando rivisto oggi. Film dopo film ci siamo sentiti raccontare tutta la sua vita, che seppur sempre riconoscibile per indole e gusti oggi è un’altra persona plasmata da decenni di carriera, da anni di depressione e malattie croniche così serie che l’hanno tenuto lontano dal set. Anni in cui, impossibilitato a lavorare e per questo caduto in depressione, Almodóvar vive chiuso in casa, prigioniero del dolore fisico e psicologico: la casa dai colori brillanti si trasforma in prigione e tinte forti, trasfiguratasi in un dei film più cupi e diabolici della sua produzione: La pelle che abito.

L’Almodóvar di oggi non è più il giovane regista trasgressivo e provocatore che diventa icona della voglia di libertà dalla dittatura e dal perbenismo della Spagna post franchista. Non è nemmeno l’uomo che dopo i 30 anni affronta i lutti della comunità queer nell’era dell’Aids, un adulto che ha imparato a conoscere il suo corpo tramite “la geografia del dolore” (Dolor y gloria). È uno scrittore over 70 ormai abituatosi agli agi e ai lussi che il successo gli hanno assicurato, che parla attraverso personaggi dai mestieri creativi – entrambe le protagonista de La stanza accanto sono a loro volta autrici – attraverso cui esplora il suo rapporto con l’idea stessa di morte, a volte con serena contemplazione, a volte con angoscia.

Il tutto in case che, viste nell’insieme della sua filmografia, costituiscono come un grande condominio almodóvarianodi cui a ogni film apriamo una nuova porta, che racconta una fase della vita del suo regista, un’epoca storica e culturale, attraverso una nuova storia e un nuovo appartamento.