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19:44 martedì 30 dicembre 2026
L’episodio di Stranger Things in cui Will fa coming out è diventato quello peggio recensito di tutta la serie E da solo ha abbassato la valutazione di tutta la quinta stagione, nettamente la meno apprezzata dal pubblico, almeno fino a questo punto.
Il progetto europeo di rilanciare i treni notturni sta andando malissimo Uno dei capisaldi del Green Deal europeo sulla mobilità, la rinascita dei treni notturni, si è arenato tra burocrazia infinita e alti costi.
Un’azienda in Svezia dà ai suoi lavoratori un bonus in busta paga da spendere in attività con gli amici per combattere la solitudine Il progetto, che per ora è solo un'iniziativa privata, prevede un’ora al mese di ferie e un bonus di 100 euro per incentivare la socialità.
Diverse celebrity hanno cancellato i loro tributi a Brigitte Bardot dopo aver scoperto che era di estrema destra Chapell Roan e altre star hanno omaggiato Bardot sui social per poi ritirare tutto una volta scoperte le sue idee su immigrazione, omosessuali e femminismo.
È morta la donna che restaurò così male un dipinto di Cristo da renderlo prima un meme, poi un’attrazione turistica Nel 2012, l'allora 81enne Cecilia Giménez trasformò l’"Ecce Homo" di Borja in Potato Jesus, diventando una delle più amate meme star di sempre.
C’è un’associazione simile agli Alcolisti Anonimi che aiuta le persone dipendenti dall’AI Si chiama Spiral Support Group, è formato da ex "tossicodipendenti" dall'AI e aiuta chi cerca di interrompere il rapporto morboso con i chatbot.
I massoni hanno fatto causa alla polizia inglese per una regola che impone ai poliziotti di rivelare se sono massoni Il nuovo regolamento impone agli agenti di rivelare legami con organizzazioni gerarchiche, in nome della trasparenza e dell’imparzialità.
Il primo grande tour annunciato per il 2026 è quello di Peppa Pig, al quale parteciperà pure Baby Shark La maialina animata sarà in tour in Nord America con uno show musicale che celebra anche i dieci anni di Baby Shark.

Milano Moda

Le maison italiane sfilano guardando alle loro origini, tra collezioni-citazioni, show discreti, poche sorprese e molte solide certezze.

25 Settembre 2012

Nel 1958 Milano diventava una Big City, o meglio veniva considerata la nuova Big City che – insieme a le già affermate New York, Londra e Parigi – avrebbe costituito il quartetto della Moda. New York per prima, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, si trovava a dover supportare la moda ideata dai suoi stilisti: nel 1943 la febbre da couture francese era altissima (per chi poteva permetterselo) ma era altrettanto altissima la difficoltà di recapitare quei capi oltre oceano. Da una soluzione di ripiego a una di pregio: gli Stati Uniti scoprivano i propri talenti e li celebravano come patriottici creatori di consumi americani. Per farlo presero un’intera settimana di “fashion”. A Milano la moda-da-celebrare è arrivata poi. Dopo che la guerra aveva ridefinito nuovi corpi da vestire, dopo che i soldi per crinoline e toppe fittizie erano tornati nelle tasche della medio borghesia, figurarsi se non in quelle delle figlie di industriali illuminati di case di elettrodomestici alla base del boom Italiano.

Più di 50 anni dopo la Settimana della Moda di Milano ha visto di tutto: dai fasti di Gianni Versace che aveva creato la mitologia delle modelle, bellissime, inaccessibili, tutte possibili interpreti di una scena di Basic Instinct, al minimalismo importato da Calvin Klein, fino al ricorso sfrenato alle auree nipponiche. 50 anni in cui la sette giorni di passerelle ha continuato per tentativi, a volte poco riusciti, molte altre volte perfettamente in linea con i tempi e i soldi disponibili: tantissimi eventi correlati, scenografie come collezioni a sé stanti, eterno stupire (e stordire) chiunque sedesse in attesa dello show. Quest’anno il clima che si respira nella 54esima Milano Fashion Week è quello di un assestamento. Notevole. Niente fine dello show, anzi, ma uno strano sentore di routine, di tranquillità e di presa di coscienza. Neanche un paio di anni fa, il sistema moda aveva avvertito la botta, rallentato e troncato di netto orpelli e colpi di testa imprevisti. Ma la battuta d’arresto era durata poco e subito erano tornate testimonial costosissime, passerelle faraoniche, collezioni presentate con infinite uscite (e quindi numerosi capi prodotti solo per lo show).

Quest’anno però si è avvertito davvero il giro di boa, quello che rivede e riassesta tutto: dopo lo sforzo, il tentativo e gli errori i brand che in questi giorni hanno sfilato a Milano (grandi, grandissimi, piccoli, ritrovati) non hanno mirato a nessun “ismo”, hanno piuttosto preso coscienza del proprio dna e l’hanno relazionato al tempo che viviamo.

Umorismo spicciolo usare la frase fatta “prendersi le misure” per una maison come Versace che per lo show della Primavera Estate 2013 è comunque tornata a un suo format impeccabile: collezioni riconoscibilissime (gladiatori con gambale al laser e spacchi vertiginosi) e, per la sfilata della linea Versus, reintroduzione della cantante icona a rubare la scena alle modelle, meglio se oversize come Beth Ditto. Occhiolino a quello showbiz che a Donatella Versace piace, convince, perché in fondo funziona dacché suo fratello ne aveva fatto un marchio di famiglia.
Se i codici della Medusa sono questi, quelli classici di Antonio Marras si fanno più espliciti che mai, lui che per questo show ha desiderato rubare venti minuti vitali agli addetti ai lavori e li ha fatti sedere in tavolini “arredati” con torte e tazze per il té: in mezzo scorreva la collezione di parka camo, pizzi e seta stampata. Tradizione italiana che Marras mastica da tempo e che ora vuole godersi, quasi a sottolineare che il trauma per l’addio alla direzione di Kenzo è passato e che il risultato è un atelier-sfilata con la pausa del té e alle silhouette ispirate all’illustratore Henry Dinger.

C’è poi chi come Giorgio Armani da anni ha adottato la policy dell’auto-coscienza con sfilate sobrie – unico vezzo i cappelli scultura – e che anche questa volta insegna ai milanesi una formula certa da reiterare: escono in passerella abiti, non c’è bisogno di soffocarli con troppi input, meglio blazer pied de poule, ancora meglio quel tailleur pantalone classico, stampa macro, “di casa”.
Anche l’eterna diatriba di Re Giorgio vs Dolce & Gabbana sembra quietarsi in questa fashion week, perché se il clima è quello dell’understatement, la polemica viene abbandonata e si torna ai propri cavalli di battaglia (per il duo siculo-milanese, cactus e prima fila stellare con Balti-Casta-Roitfield in un perfettamente coordinato accavallamento di gambe).
Toni scontati? No, dosati il giusto per azzerare i rischi. Come la signora Jil Sander che è tornata al comando (creativo) della sua maison e che dopo il debutto nella collezione uomo era attesa per quella più impegnativa, quella donna che Raf Simons in sua assenza aveva traghettato più in là (su, dove ora giace Dior). E lei, capelli biondi raccolti e tailleur pantalone blu, ha risposto uscendo serena a fine di una collezione sua in tutto, colori, forme, capi che ti aspetteresti dalla signora tedesca e che come tali si palesano.

Tornano alle origini anche brand dai passati molto diversi e dalla salute contrastante. Gabriele Colangelo ha avuto l’onere e l’onore di riportare sul mercato le camicette e le gonnelle di Genny, brand di Ancona sbocciato negli anni di quel Boom tutto italiano celebrato appunto dalla nascita dalla Settimana della Moda di Milano. L’onere di rilanciare un brand caduto in prescrizione e allo stesso tempo l’onore di mettere le mani su una “memoria” sartoriale non da poco, quella del bonton italiano che abbracciava target intermedi. L’eleganza borghese che ora Colangelo fa rivivere nella forma più vicina alle sue origini, quindi foulard su giacche bianche look ideale per una crociera nel nuovo che ci auguriamo continui.

E poi la spirale dentro cui vortica Prada che, seppur titolare di uno storico relativamente recente (gli anni Novanta), ha già voglia di guardare indietro e rileggerlo. Dopo i divi di Hollywood strizzati in frack nero-notte, le ragazze di Prada spostano l’attenzione al pavimento: piedi rasoterra su calze in puro stile giapponese, fiori enormi, completi squadrati, intorno la quiete della signora Prada. Anche lei torna a casa, senza distrazioni, ma rilanciando deliziosamente la stessa ironica sfida di quando aveva iniziato.

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