Attualità

La legge contro Airbnb

I divieti a New York, San Francisco, Berlino, il problema della tassazione, le proteste degli albergatori. È possibile trovare un punto di incontro tra legislazione e vantaggi della sharing economy?

di Azzurra Giorgi

In principio erano Kat, Amol e Michael, arrivati a San Francisco per una conferenza dell’Industrial Designers Society of America. L’anno era il 2007 e loro sono i primi tre ospiti di Airbnb, che da idea è diventata un’azienda che vale trenta miliardi di dollari (cioè più di gruppi come Hilton e Marriot messi insieme). In meno di dieci anni è arrivata in 190 Paesi e 34 mila città, dando la possibilità di alloggiare a prezzi contenuti e di creare una comunità di utenti che si basa, essenzialmente, sulla fiducia. Ma fin dall’inizio i problemi non sono mancati: c’è stata una rivolta da parte degli albergatori, che hanno accusato la piattaforma di concorrenza sleale, e poi da parte delle amministrazioni delle città, sia in Europa che negli Stati Uniti, che hanno visto in questo servizio un’ulteriore causa della carenza degli appartamenti disponibili sul mercato immobiliare. Nell’ultima settimana, ad esempio, Airbnb ha avuto dei grandi problemi con New York, cioè con il suo mercato più grande, problemi che fanno riflettere sul rapporto tra economia tradizionale e sharing economy, che sembrano non riuscire a trovare un punto di incontro.

 

New York contro Airbnb

Cinque anni fa lo Stato di New York ha approvato un emendamento che proibiva di affittare la maggior parte degli appartamenti per un periodo inferiore ai trenta giorni. Gli host – che adesso a New York sono 46 mila – hanno continuato comunque a farlo, e nel giugno scorso lo Stato ha approvato una legge che prevede multe dai mille ai 7.500 dollari per chi continua a violare questo limite: è rimasta sulla scrivania di Cuomo per mesi, fino al 21 ottobre, quando il governatore ha deciso di firmarla. Il documento era stato pensato per due motivi: andare incontro alla necessità delle strutture alberghiere, da sempre sul piede di guerra, e contenere la crisi immobiliare della città, dove le case disponibili sono poche e care. Così per come è stata pensata, mette a serio rischio il futuro dell’azienda, che si basa principalmente proprio sui soggiorni brevi: non sarà effettiva, però, finché Airbnb non risolverà i suoi problemi legali con un’altra città, San Francisco, dove peraltro è nata. In questo caso, la città ha approvato una legge – a cui ha contribuito Airbnb stessa – che impone a ogni host di registrare la sua proprietà: ma dall’anno scorso, soltanto il 20% dei 7.000 host lo ha fatto e San Francisco ha deciso che avrebbe multato pesantemente l’azienda. Airbnb allora gli ha fatto causa per aver violato il Communications Decency Act, che estranea un sito web da ogni responsabilità per il contenuto postato dai propri utenti. E lo stesso ha fatto a New York: «La legge è sbagliata» – dice Alessandro Tommasi, Public Policy Manager di Airbnb – «risponde a logiche di parte e viola alcune leggi della Costituzione. Ci ha lasciato amareggiati la loro scelta di andare avanti perché non risponde alle necessità di New York». Airbnb, tra l’altro, aveva fatto delle proposte alternative per evitare che la legge andasse avanti, ma senza successo.

Anjelica Huston at Airbnb's Hello LA Event at Cook's Garden by HGEL

Cosa sta succedendo in Europa

in Europa la situazione è altrettanto complessa. Ogni Paese ha una sua normativa, e non è facile per l’azienda trovare un punto d’accordo. A Berlino, ad esempio, non si può affittare un appartamento intero ma soltanto una stanza, oppure più di una se in casa abita il proprietario, che comunque deve prima chiedere una licenza. A Barcellona, invece, succede l’esatto contrario: non si può affittare un’unica stanza ma tutto l’appartamento. Ancora, Parigi e Firenze hanno trovato un accordo con Airbnb per il pagamento della tassa di soggiorno: nel capoluogo toscano è la stessa piattaforma che la riscuote e poi la versa periodicamente nelle casse municipali, mentre i proprietari di casa devono pagare, per ogni stanza, un euro di Tari al comune, che ogni anno guadagna in questo modo più di dieci milioni di euro. «È molto complicato operare in un mercato del genere, ma questo non ci ha spaventato. Anche in Italia le regole cambiano da città a città, è difficile per noi ma anche per gli ospiti stessi, che spostandosi possono trovare strane le differenze di normativa» ha detto Tommasi, che sottolinea, però, come Airbnb si stia sforzando per trovare delle soluzioni comuni. «Vorremmo dare delle informazioni più precise attraverso la piattaforma anche a tutti i nostri host. Nel 2015 abbiamo approvato un Community Compact, un piccolo manifesto nel quale abbiamo indicato alcune linee guida per quanto riguarda anche il rapporto con le città: noi vorremmo andargli incontro per risolvere le varie problematiche», ha detto.

Con il Community Compact, infatti, Airbnb si impegna a «informare le amministrazioni per aiutarle a compiere scelte consapevoli sulle politiche di home sharing», specificando che a ogni città dovrebbe corrispondere una politica differente che risponda meglio alle varie esigenze: ad esempio gli affitti per brevi periodi potrebbero essere disponibili per le case in cui vivono gli host stessi e soltanto in alcuni casi estesi alle seconde abitazioni. Nel documento si legge, inoltre, che sono accettati anche Bed&Breakfast e agenzie (vietati, invece, in alcuni degli altri Paesi), ad un’unica condizione, «che rispettino l’esperienza autentica di Airbnb», specifica Tommasi.

Actor James Franco Designs his Hollywood Forever Cemetery Pop-Up at Airbnb's Hello LA Design Lab

La condivisione è una favoletta?

Secondo un report di Airbnb, in Italia nel 2015 più di 80 mila persone hanno utilizzato la piattaforma per ospitare viaggiatori, guadagnando in media 2300 euro per 26 notti all’anno e ospitando più di tre milioni e mezzo di persone. Le strutture sono invece passate dalle circa 220 del 2009 alle oltre 200 mila di adesso, un dato che non è passato inosservato tra gli albergatori, da sempre contrari a questo tipo di servizio. Qualche settimana fa, il presidente di Federalberghi Bernabé Bocca ha detto che la condivisione «è una favoletta», elencando poi una serie di bugie legate alla sharing economy, una su tutte: non è vero che gli host utilizzano Airbnb soltanto per arrotondare, ma nella maggior parte dei casi sono dei professionisti che mettono sul sito più di un alloggio. In realtà, secondo Airbnb, soltanto il 4% degli utenti ha più di quattro annunci, mentre l’87% ne ha uno o due. Per quel 4% – posto che siano tutti soggetti professionali – come si fa a verificare che rispettino la condizione necessaria per restare sulla piattaforma, cioè l’”esperienza autentica”? Non è facile. L’avvocato Lorenzo Chiriatti ha pubblicato, insieme a Paolo Barberis, per Volta un lungo paper sul tema, nel quale riporta anche i risultati di un’indagine fatta dall’Università Bocconi nello scorso anno, che rilevava come a Milano il 27% degli immobili del centro storico fosse di proprietari che offrivano in affitto almeno due appartamenti all’interno della piattaforma, mentre il 16% di altri che avevano almeno dieci alloggi. «Io capisco il punto di vista di Airbnb, ma lasciare che ci siano soggetti professionali rischia veramente di creare concorrenza sleale e di fare crescere il costo degli affitti nei nostri centri storici», ha detto Chiriatti.

Per fare chiarezza servirebbe una legge nazionale, auspicata un po’ da tutti. E in realtà una è già stata proposta dall’Intergruppo Innovazione ed è da maggio in commissione. Così com’è, dà il potere all’Agcm – l’Autorità garante della concorrenza e del mercato – di vagliare e approvare la policy di ogni piattaforma, e prevede due tipi di tassazione, una per chi svolge una piccola attività parallela al proprio lavoro e una per chi opera a livello imprenditoriale. Ma ci metterà del tempo per essere approvata. Secondo Chiriatti, la commissione dovrebbe pronunciarsi entro la fine dell’anno, poi passerà al Parlamento: «È una base di partenza ma ancora non risponde a tutto, ci vorranno altre discipline successive, e nel frattempo si sta muovendo anche l’Unione Europea». Un’altra legislazione sarebbe utile non soltanto per la sharing economy, ma in prospettiva anche per gli albergatori stessi: «Loro hanno due grandi nemici, il nuovo competitor e l’attuale normativa, che è fin troppo dettagliata e stringente. Parlando con gli albergatori ho scoperto che anche a loro farebbe comodo una disciplina più leggera, magari inizialmente testata sulla sharing», spiega Chiriatti. Un punto di accordo, quindi, è necessario, anche perché la sharing economy porta dei vantaggi non soltanto per i consumatori, ma anche per l’ambiente (secondo Blablacar, ad esempio, è stato risparmiato un milione di emissioni di Co2 in un anno): «È un’occasione che non possiamo perdere, non dobbiamo buttarla via perché siamo incapaci a gestirla», dice Chiriatti, che sottolinea che entrambe le parti dovrebbero essere disposte a cedere qualcosa.

Airbnb, ad esempio, aveva fatto una proposta giusta a New York: quella di eliminare dalla propria piattaforma le figure professionali, che in Italia, come già detto, operano liberamente, il che significa che un’agenzia può prendere degli immobili, metterli sul sito ed «entrare in conflittualità con altri operatori, facendo qualcosa che non rientra più nella sharing economy», continua Chiriatti. Dall’altra parte, però, gli albergatori dovrebbero sfruttare quest’occasione per scrollarsi di dosso un domani una normativa troppo rigida anche per loro, e magari già oggi seguire l’esempio virtuoso di alcuni, come degli hotel lombardi che hanno iniziato una collaborazione con Airbnb e permettono agli ospiti della piattaforma di sfruttare alcuni servizi degli hotel pagando una piccola maggiorazione.

FRANCE-TOURISM-AQUARIUM

Qualcuno si sta muovendo anche nell’economia tradizionale: Bmw e Sixt, ad esempio, hanno deciso di ripensare al loro business e progettare un sistema di carsharing, DriveNow, arrivato anche in Italia (ma non è la sola: Audi sta testando un servizio di sharing per le aziende, che potrebbe partire dal 2017). «L’economia tradizionale è divisa a metà, ci sono quelli che si chiudono non rendendosi conto che lo sharing è figlio del digitale ed è un nuova opportunità, e quelli che si riorganizzano in base alle tecnologie: tutti dovrebbero muoversi su quest’ordine», dice Chiriatti. Ma senza una normativa aggiornata, che rispetti sia i consumatori che le aziende, i problemi continueranno ad esistere: basta vedere anche il caso di Uber, che è stata costretta a rinunciare ad UberPop in Italia, ma che adesso ha portato a Milano UberEats, il servizio che permette a chiunque di consegnare cibo a domicilio. E non è detto che non incontri problemi di vario genere: alla fine, se qualcuno dovesse sollevare questioni legali, un giudice non potrebbe fare altro che rispondere alla normativa vigente – e quindi datata – e bloccare o modificare il servizio.

 

Immagini Getty Images.