Cultura | Dal numero

La gamification del benessere

Per sfuggire allo stress sempre più applicazioni promettono di aiutarci a meditare e dormire meglio. Ma come? Con un sistema a premi che crea soltanto ulteriore competizione.

di Davide Coppo

Uno dei motivi per cui la mia carriera liceale durò sei anni anziché cinque è strettamente legato ai videogiochi e alla mia capacità di concentrazione. I videogiochi erano tutto quello a cui anelavo, finite le lezioni, mentre l’autobus mi riportava a casa liberato dalla scuola, e inevitabilmente, appena arrivato in camera, catturavano la mia totale attenzione per l’intero pomeriggio. La mia capacità di concentrarmi era allora, al contrario di quanto si potrebbe pensare oggi, fenomenale: una volta iniziata un’avventura di Final Fantasy o un campionato di Pro Evolution Soccer, era impossibile distogliermi dal gioco. Non il senso del dovere, non il senso di colpa, non l’ansia silenziosamente sprigionata dalle verifiche future. Questa è la straordinaria forza di un videogioco scritto bene, disegnato bene, e programmato bene: catturare i sensi e la mente del giocatore come, probabilmente, nessun’altra attività umana. Era inevitabile che questo Graal dell’attenzione, prima o poi, facesse gola ad altre industrie. E quando qualcuno si è accorto che si potevano applicare le caratteristiche di programmazione e design dei videogiochi anche a contesti non ludici, è nata quella che oggi chiamiamo gamification.

La storiografia opera a posteriori, e allora oggi possiamo postulare che la prima applicazione a “gamificarsi” fu Foursquare nel 2009. Scrivendo nel 2023, il 2009 sembra allo stesso tempo dietro l’angolo e lontanissimo. Lontano per quanto l’utilizzo delle applicazioni stesse è cambiato in questi quattordici anni. La rivoluzione di Foursquare, all’epoca, ci sembra ovvia: stava nel fatto che l’app permetteva agli utenti di recensire e mappare luoghi diversi in giro per il mondo, e in base a queste performance distribuiva premi e “badge”. Erano uno stimolo a recensire di più. Più recensioni, più badge. In realtà il sistema era simile a quello che è sempre esistito nell’internet 1.0 per i forum, in cui le stelline sotto al nome davano l’idea di quanto un utente fosse esperto o “niubbo”. In realtà, con un po’ di volontà, si possono trovare radici ancora più antiche, talora antichissime, alla gamification: la prima, un gioco da tavolo del 1800 chiamato Kriegsspiel, sviluppato dall’esercito prussiano per insegnare le tattiche di battaglia agli ufficiali. I comandi alle truppe venivano scritti su un foglio, dati poi a un arbitro, che li leggeva ad alta voce e muoveva le truppe. L’esito della battaglia era determinato da complessi calcoli matematici. Oggi diremmo: da un algoritmo.

Dopotutto è naturale vedere, dal posto in cui stiamo oggi, il motivo per cui la gamification ha conquistato così rapidamente il mercato del lavoro, dell’educazione, dello shopping, della salute, del semplice entertainment, e così via. Sono abbastanza sicuro che l’attenzione che ho saputo fare mia in quegli anni studenteschi passati con il joypad in mano non si sia mai più ripresentata, nei decenni successivi. Un po’ perché certi videogiochi erano, come detto, una macchina perfetta per catturarla, ma soprattutto perché il mondo, dal 2008 in poi, si è industriato molto per riuscire a distruggere, in tutti i modi possibili, proprio la capacità di concentrazione della popolazione mondiale. Ed è per questo che mi sembra che la gamification si stia buttando soprattutto, in questi tempi, su quell’universo che chiamiamo benessere e soprattutto benessere mentale.

Il concetto di “applicazioni per meditare” è nato più o meno intorno alla metà degli anni Dieci. Il New York Times parlava di due applicazioni, Headspace e Calm, in un articolo del 2016. Si intitola: “La via dello smartphone alla pace interiore”. In un’immagine si vede una delle vecchie interfacce di Headspace. È verde brillante, con un personaggino buffo disegnato piatto, e la schermata dice: «Scegli un pacchetto» e sotto la lista di quelli tra cui scegliere. Depressione, autostima, stress, ansia. Tutti i pacchetti hanno un piccolo lucchetto vicino, a segnalare che non si possono fruire. Perché prima bisogna pagare. Ancora oggi, quando ti iscrivi a una di queste applicazioni, una schermata ti dice subito: «Attiva le notifiche». E cioè: fatti disturbare. Ironico, dover ricevere una notifica sul telefono che ti distrae, spezza la tua concentrazione, per riuscire a dirti: «Sveglia, è ora di meditare».

Queste stesse due applicazioni detengono tuttora il 70 per cento dell’intero mercato della meditazione su smartphone. Funzionano in modo simile, sono divise in categorie. Ne apro una, leggo: «For challenging times», oppure «Mental Health Matters» oppure «Navigating Injustice», al cui interno trovo gli esercizi per meditare su «Grief & Injustice», «Self Love», «Releasing Wounds» e «Acknowledging Our Privilege». Hanno tutti i lucchettini vicino al nome, non li posso cliccare, perché devi abbonarti per poter navigare l’ingiustizia e guarire le ferite e così via. 

Che ci siano servizi e media che vogliono fornire istruzioni per meditare non è una novità: anche negli anni Settanta e Ottanta esistevano, sotto forma di libri e manuali. Era roba new-age che oggi ricorda certe case disordinate e puzze di cavolo di certe zie delle nostre vite, era roba che ti compravi e ti leggevi da solo e poi provavi a vedere se funzionava. La lettura, e i manuali di auto-aiuto, oggi sono però stati sostituiti da queste applicazioni con disegnini a una dimensione e colori pastello ed elementi geometrici che è già stato battezzato “corporate Memphis”. 

Non servirebbe nient’altro che un libro – non solo di auto-aiuto, anche di divulgazione buddhista, magari, come L’insegnamento del Buddha di Walpola Rahula (Adelphi) – e un po’ di buona volontà, per meditare. Pazienza e tempo e ancora pazienza per rimediare agli errori che inevitabilmente si faranno. E nemmeno si dovrebbe spendere soldi in abbonamenti. Ma è difficile; meditare, dico. È un processo in cui sbagliare è necessario. È per questo che però meditare ha senso e l’ha sempre avuto nella storia dell’umanità. Per la difficoltà. La gamification invece è arrivata per cancellarla, e ha impiegato la ricetta segreta per ogni cosa di quest’epoca di pigrizia: il content.

In senso buddhista, la meditazione sarebbe uno strumento per comprendere che tutta la realtà è impermanente e transitoria, compreso quello che consideriamo “io” o “sé”. Attraverso la meditazione dovremmo riuscire ad arrivare alla decostruzione di questa illusione, che esista un “io” o un “sé” personale. Ma se c’è una voce pre-registrata che ti guida, e dei disegnini da guardare come se fossi un bambino in pizzeria, e se c’è poi un risultato e il risultato è da condividere con i tuoi amici, perché la gamification non è se non è condivisibile, allora come fai a svuotarti, a dimenticarti del mondo, e di te? Non puoi, naturalmente: tutto è concentrato al contrario su di te, fatto su misura per te, ricordo costante che c’è un me, un te, e di sicuro non un non-sé.

Potrebbe essere che la mia avversione alle applicazioni di meditazione derivi da una certa – sempre mia – testardaggine nel meditare per i fatti miei, e quindi dall’invidia di non farcela sempre come vorrei. Perché anche senza tornare all’annullamento del sé buddhista, è pur complicato starsene dieci o quindici o venti minuti a occhi chiusi senza guardare uno schermo e concentrati su un’unica cosa, che sarebbe poi il niente, e il motivo è sempre quello che citavo poco sopra: e cioè che sono quindici anni, o poco più, che la nostra attenzione è stata completamente frammentata e polarizzata dai social network e da questi piccoli schermetti tascabili che ci portiamo in giro tutti i giorni. 

E però va detto anche che le illustrazioni colorate e rassicuranti, il content infilato dappertutto e il processo e l’interfaccia da gamification non servono soltanto a facilitare il processo di attenzione e concentrazione, ma soprattutto a creare profitto. Questo è uno scopo che non ha niente a che fare con il concetto di gioco, e pure di videogioco. La natura stessa del “gioco” è assente, in realtà, dalle attività che hanno subito un processo di gamification. Perché la gamification si applica per un preciso scopo: facilitare l’approccio a un compito che altrimenti non faremmo. Perché troppo noioso, difficile, inutile o stupido. A guardarci bene, il principio del gioco è però l’opposto di quello della gamification: è fare qualcosa per niente, se non il puro piacere di farlo. Per questo motivo Ian Bogost, accademico e designer di videogiochi, in un saggio del MIT chiamato Why gamification is bullshit (esplicativo, direi), suggerisce di utilizzare il termine «exploitationware», qualcosa di simile a “cose basate sulla mercificazione/strumentalizzazione”.

Eppure l’ossimoro ancora non ha raggiunto il picco. Se “gamificare” un’attività fatta di concentrazione e silenzio come la meditazione sembra così assurdo, che dovremmo dire della gamification del sonno? Questo è un mercato ancora più ampio, con ancora più applicazioni a farsi concorrenza tra di loro – e da poco è arrivato anche Pokémon Sleep, in cui chi meglio dorme piglia più pesci, anzi Pokémon – e un bacino di utenza praticamente universale, con requisiti accessibili a tutta la popolazione mondiale; leggi: poter dormire. Le app del sonno ti dicono quanto bene hai dormito, quanto ti sei girato, quanto hai russato, e ti invitano a dormire ancora meglio, a girarti meno, dicendoti: coraggio, ti manca poco, guarda questo piccolo grafico colorato. Possiamo pensare che il monitoraggio di una notte di sonno sia un sincero aiuto a dormire meglio, ma sotto la superficie di self-help si intravede un orizzonte po’ più straniante e angosciante. E cioè: è una gara. E una gara è una gara, che sia con te stesso o contro altri non importa né cambia la natura della cosa. Il momento del più assoluto riposo, della non-produttività per eccellenza, diventa anche quello dedicato alla competizione. Questo nasconde il terzo grande problema della gamification e del tech-liberismo: la guerra totale, senza esclusione di colpi, al tempo vuoto, alla noia, all’assenza di stimoli. 

La noia e il riposo sono, in questo tipo di mercato, come un pezzo di Foresta amazzonica assediato dai bulldozer degli allevatori bolsonaristi. Loro vorrebbero trasformare un paradiso naturale senza una destinazione d’uso (leggi: la natura) in un terreno di performance e un’opportunità di profitto. Le applicazioni vogliono la stessa cosa. Dicono: che spreco, il sonno. La guerra di conquista delle multinazionali tecnologiche al nostro tempo libero passa dal territorio più intimo di tutti, in cui diventiamo utenti anche se in fase Rem, anzi proprio in quanto tali. “Staccare”, come ci diciamo agli aperitivi dopo il lavoro, diventa in quest’ottica un’attività sovversiva, e in quanto tale va ostacolata il più possibile. Se non c’è un goal non c’è un senso, sussurra il mercato, laddove un senso è solo un modo per dire un guadagno, monetario o di status. 

E ora, un momento dedicato alle cose viste con il senno del poi. Nel capitolo XV del Capitale di Marx si legge: «Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe mediante la trasformazione in tempo di lavoro di tutto il tempo di vita delle masse». Centocinquanta anni dopo le cose si sono ribaltate, e la classe che pure poteva godersi quel tempo libero ci ha rinunciato da sola, senza violenze né costrizioni, grazie all’inganno più subdolo con cui le compagnie tecnologiche hanno convinto chiunque a trasformare il proprio otium in un tempo performativo. Una citazione ancora valida oggi invece è quella con cui si apre La società dello spettacolo di Debord, pubblicato esattamente cento anni dopo il mattone di Marx. Questa dice: «Tutta la vita delle società in cui regnano le moderne condizioni di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione». Si potrebbe correggere: in una simulazione di gioco.

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