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Anche stavolta il premio di Designer of the Year l’ha vinto Jonathan Anderson È la terza volta consecutiva, stavolta ha battuto Glenn Martens, Miuccia Prada, Rick Owens, Martin Rose e Willy Chavarria.
L’Oms ha detto che i farmaci come Ozempic dovrebbero essere disponibili per tutti e non solo per chi può permetterseli Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, in futuro bisognerà garantire l'accesso a questi farmaci a chiunque ne abbia bisogno.
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Il sindaco di Pesaro si è dovuto scusare perché ha coperto di ghiaccio la statua di Pavarotti per far spazio a una pista di pattinaggio Ma ha pure detto che Pavarotti resterà "congelato" fino a dopo l'Epifania: spostare la statua o rimuovere la pista sarebbe troppo costoso.
Siccome erano alleati nella Seconda guerra mondiale, la Cina vuole che Francia e Regno Unito la sostengano anche adesso nello scontro con il Giappone Indispettita dalle dichiarazioni giapponesi su Taiwan, la diplomazia cinese chiede adesso si appella anche alle vecchie alleanze.
È morto Tom Stoppard, sceneggiatore premio Oscar che ha reso Shakespeare pop Si è spento a ottantotto anni uno dei drammaturghi inglesi più amati del Novecento, che ha modernizzato Shakespeare al cinema e a teatro.
La tv argentina ha scambiato Gasperini per il truffatore che si era travestito da sua madre per riscuoterne la pensione Un meme molto condiviso sui social italiani è stato trasmesso dal tg argentino, che ha scambiato Gasperini per il Mrs. Doubtfire della truffa.
La parola dell’anno per l’Oxford English Dictionary è rage bait Si traduce come "esca per la rabbia" e descrive quei contenuti online il cui scopo è quello di farci incazzare e quindi interagire.

Il nuovo film di Charlie Kaufman è un road movie nella coscienza

Sto pensando di finirla qui è su Netflix dal 4 settembre.

07 Settembre 2020

Ci sono film per cui qualcuno, in un’ideale videoteca, dovrebbe assumersi il compito di informare ogni spettatore eventuale circa la cautela con cui maneggiarli. In the Mood for Love, “se lo guardate, non riuscirete ad apprezzare i film occidentali per i successivi quattro anni”. Qualsiasi opera scritta o diretta da Charlie Kaufman, “guardare solo se psicologicamente pronti ad accettare che la vostra vita fa schifo”. E potrebbe anche essere un modo per sintetizzare Sto pensando di finirla qui, il nuovo film dello sceneggiatore di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, Essere John Malkovich, il terzo diretto da Kaufman dopo Synecdoche e Anomalisa, arrivato su Netflix lo scorso 4 settembre.

Cosa sarebbe potuto succedere se avessimo preso una certa decisione? Se fossimo nati in un’altra famiglia, con diverse possibilità economiche e di carriera, o se avessimo avuto maggiore autostima? E soprattutto, quanto porci simili domande, analizzare la vita che abbiamo e non abbiamo avuto può farci del male o demolire una storia d’amore? Sono i tanti interrogativi che Sto pensando di finirla qui scompone in una miriade di possibilità narrative diverse – lo stesso Kaufman sul suo film aveva detto: «Siamo abituati a pensare che ogni storia debba svolgersi in tre atti, inizio, svolgimento e fine. Non è così» – attraverso una trama che è superficialmente semplicissima.

Una ragazza, il cui nome e background cambiano spesso nel corso del film, ha intrapreso un lungo viaggio in macchina con il suo fidanzato, Jake, per andare a conoscere i genitori di lui nonostante abbia deciso di lasciarlo. E questa è la storia, basata sul romanzo dello scrittore canadese Iain Reid, che per i primi venti minuti sembra tematizzare la dinamica di coppia. Se non fosse che il tutto si svolge durante una tormenta, nel pieno di riflessioni letterarie, cinematografiche, con i genitori di lui (tra cui la splendida Toni Collette) che abitano in una fattoria inquietante come lo sono tutte le fattorie che si raggiungono dopo chilometri di superstrada in mezzo alla neve – da Misery non deve morire, a Fargo fino a The Visit, il cinema ci ha insegnato che se nevica e non è Natale, e non è nemmeno Frozen, ci sarà sempre un potenziale morto – la madre e il padre di Jake che diventano più giovani o più vecchi ogni volta che lasciano la stanza. Fino alla scoperta – che è più una sensazione implicita, nulla viene mai spiegato davvero – di trovarci davanti a una fantasia, al viaggio mentale di qualcuno (non dirò chi) sulla vita che avrebbe potuto vivere ma che non ha mai vissuto. E come tale, essendo soltanto un compendio di immaginazioni, pieno di incongruenze, di uno, nessuno, centomila possibilità di esistenza che si sovrappongono.

Quanto potrebbe aiutarci riflettere continuamente sul modo in cui stiamo o non stiamo sprecando il nostro tempo – è un tema che ricorre spesso nel corso del film – e quanto invece frenarci? Chiedersi se le frequentazioni che abbiamo avuto le abbiamo effettivamente volute, o ci sono semplicemente capitate, «forse è la natura umana, andare avanti pur essendo consapevoli», dice la ragazza, andare avanti perché per abbandonare tutto servirebbe troppa risolutezza, perché «è più facile dire di sì, invece che dire di no». Che Sto pensando di finirla qui non è un film sul pensiero, ma un pensiero filmato, un grande omaggio alle “sliding doors” della vita, a quello che sarebbe potuto capitarci se non avessimo pensato troppo, di non essere abbastanza bravi, abbastanza intelligenti, abbastanza belli.

Quasi fosse connaturato al viaggio, in ogni road movie nella storia del cinema c’è il momento della riflessione. Sto pensando di finirla qui non è altro che un road movie nella coscienza umana, un viaggio incredibile in un senso desolato e doloroso. Come se alla fine di Easy rider avessimo scoperto che stava tutto nella mente di Jack Nicholson, strafatto e ubriaco nella cella da cui in realtà non è mai uscito.

Nei nostri viaggi mentali c’è sempre un diaframma tra il mondo reale e quello in cui ci proiettiamo, dove sappiamo come rispondere, come comportarci, dove uscire dalla comfort zone è facilissimo, ma c’è una linea che ci tiene saldamente da questa parte. E nell’opera di Kaufman, il film sui film mentali per eccellenza, il confine collassa, andiamo dall’altra parte, viviamo solo, pericolosamente, di immaginazioni e fantasie.

«Siamo gli unici esseri a sapere che la nostra vita finirà, e forse per questo abbiamo creato la speranza», fa dire il regista ai personaggi che popolano quello che il New York Times ha definito «il suo film più audace, ma anche il meno riuscito». In cui la forza risiede nei dialoghi brillanti, nel citazionismo, per cui Kaufman ha preso in prestito gli elementi principali delle sue sceneggiature passate, il voice over, il disagio di Joel e Clementine di Eternal Sunshine, le anomalie del burattinaio di Essere John Malkovich, eternal sunshine of an incel mind. In un film che è come un saggio, un trattato sul fatto che forse dovremmo smetterla, pensare di finirla qui con le nostre paranoie, le nostre peregrinazioni mentali, provare soltanto a vivere e basta.

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