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Anche stavolta il premio di Designer of the Year l’ha vinto Jonathan Anderson È la terza volta consecutiva, stavolta ha battuto Glenn Martens, Miuccia Prada, Rick Owens, Martin Rose e Willy Chavarria.
L’Oms ha detto che i farmaci come Ozempic dovrebbero essere disponibili per tutti e non solo per chi può permetterseli Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, in futuro bisognerà garantire l'accesso a questi farmaci a chiunque ne abbia bisogno.
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Il sindaco di Pesaro si è dovuto scusare perché ha coperto di ghiaccio la statua di Pavarotti per far spazio a una pista di pattinaggio Ma ha pure detto che Pavarotti resterà "congelato" fino a dopo l'Epifania: spostare la statua o rimuovere la pista sarebbe troppo costoso.
Siccome erano alleati nella Seconda guerra mondiale, la Cina vuole che Francia e Regno Unito la sostengano anche adesso nello scontro con il Giappone Indispettita dalle dichiarazioni giapponesi su Taiwan, la diplomazia cinese chiede adesso si appella anche alle vecchie alleanze.
È morto Tom Stoppard, sceneggiatore premio Oscar che ha reso Shakespeare pop Si è spento a ottantotto anni uno dei drammaturghi inglesi più amati del Novecento, che ha modernizzato Shakespeare al cinema e a teatro.

Julie Mehretu, l’arte come insieme

Ensemble, la più grande mostra in Europa dedicata all’astrattista, dal 17 marzo a Palazzo Grassi a Venezia, comprende anche una selezione di opere di altri artisti, presentate secondo un principio di rimandi visivi.

17 Marzo 2024

Julie Mehretu mancava da Venezia da oltre dieci anni, da quando la sua opera era esposta nella mostra L’elogio del dubbio a Punta della Dogana, una delle due sedi, insieme a Palazzo Grassi, della Pinault Collection. Da allora sono passate molte mostre in quei luoghi, e in tutta la città, ma il “cubo di cemento armato”, una sorte di corte cubica realizzata da Tadao Ando all’interno del museo di Punta della Dogana, porta ancora le tracce di quell’opera nella memoria di molte delle visitatrici e dei visitatori. Il dipinto di grande formato di Mehretu ricordava le forme geometriche di una città, forme stratificate di passaggi e linee, visioni e discorsi, e un filo rosso. Nella parete della corte cubica – muro di un interno veneziano che racconta come la storia di questi edifici sia fatta di continue metamorfosi anche nell’apparente staticità immobile di ogni cosa – quell’opera, con il suo filo rosso, ha legato Mehretu al luogo, a Venezia, a tutte le persone che vi sono passate, e che in quel dipinto hanno intravisto la loro città, qualunque essa fosse, aumentandone le connessioni. Forse è stata anche la complicità di alcuni concerti che si tenevano all’interno della corte cubica dall’acustica impeccabile a rendere il dipinto di Mehretu un cameo, un istante incastonato, nella memoria di molte e di molti.

La bellezza del ritorno di Julie Mehretu a Venezia è un grande avvenimento, per quel cameo ma per molto altro ancora. Il grande avvenimento sta nel fatto che Julie Mehretu. Ensemble, dal 17 marzo al 6 gennaio a Palazzo Grassi a cura di Caroline Bourgeois e dell’artista stessa, è la più grande esposizione a lei dedicata in Europa. Presenta al pubblico circa cinquanta stampe e dipinti realizzati nell’ultimo quarto di secolo e opere prodotte in questi ultimi tre anni, disposte sui due piani del celebre palazzo affacciato sul Canal Grande. A fare da eco al titolo anche opere di altri artisti che con Mehretu condividono affinità e amicizia in dialogo continuo tra arte e parola: le opere di Nairy Baghramian, Huma Bhabha, Tacita Dean, David Hammons, Robin Coste Lewis, Paul Pfeiffer e Jessica Rankin costellano le sale in un costante richiamo con le opere di Mehretu.

La mostra presenta l’opera dell’artista – nata in Etiopia, vive e lavora a New York – soprassedendo all’ordine cronologico di composizione e privilegiando un principio di rimandi visivi: un percorso del guardare che può essere intrapreso attraversando sale diverse in un intreccio continuo che diviene molto personale. Il dialogo che rinvia a un costante “insieme”, quello del titolo della mostra, è il filo rosso che srotola tutta l’opera degli ultimi quasi trent’anni di Mehretu, un dialogo dei dipinti nel loro avvicendarsi nel tempo, nei loro collegamenti e nelle loro stratificazioni: dipinti e stampe dal profondo segno astratto che si fa concretezza legata ai temi del contemporaneo tramite la storia dell’arte, per farsi consapevolezza lotta e sociale.
È un dialogo che sembra soprassedere il tempo eppure in realtà lo attraversa, che potrebbe sembrare un monologo ma a soffermarsi si percepisce che è un insieme di segni, voci, che si alzano da ogni opera in un flusso continuo. Ensemble è questo costante rinvio con le opere degli altri artisti in mostra: le sculture astratte di Barghramian, le culture totemiche di Bhabha, i ritratti in filmati in 16mm di Den, le opere tessili di Rankin, le sculture iperrealistiche di Pfeiffer, le installazioni visive di Lewis e le composizioni di Hammons, parlano visivamente tra loro e con quelle di Mehretu, disponendo in più livelli così senso e significato in una relazione continua perché sono nate dalla condivisione, in uno scambio di stimoli, temi, idee, discussioni.

Quel filo rosso che aveva fatto capolino oltre dieci anni fa a Venezia nella parte superiore di un dipinto di Mehretu arriva sino a oggi, e ritroviamo proprio lui al primo piano della mostra, lo vediamo già da lontano dalla balconata interna del palazzo, lo scorgiamo. Avvicinandoci Invisible Line è come se ci aspettasse, da sempre lì, come se riprendesse quel discorso solo sopito e mai interrotto, di astrattismo che nasce dalla concretezza, di linee che attraversano una parte di dipinto per poi fermarsi o uscire verso non sappiamo quale dove, ma lo possiamo immaginare. Il filo rosso che avviluppa chi lo segue nel tempo e nel luogo, lo rende partecipe di questa esposizione corale che nasce dal dialogo di chi ha vissuto simili esperienze artistiche e di vita: sono persone che hanno subito geografie imposte scegliendo l’immigrazione per salvarsi da dittature religiose o militari, o per superare gli effetti devastanti delle colonizzazioni, e hanno lavorato con il loro talento a una ricostruzione della propria identità senza mai chiudersi in un ego ombelicale ma rivolgendosi alla società collettivamente, civilmente, politicamente. La pittura o l’espressione artistica in loro non è fine a sé stessa ma è piuttosto uno strumento per connettersi al mondo civile, al mondo politico, agli altri; è un richiamo a superare l’individualismo e a condividere invece che isolarsi, come accade sempre più spesso anche nel mondo dell’arte con la tecnologia.

Julie Mehretu con questa mostra ha preso i confini del proprio creare e li ha spostati, allargati, così tanto da farci stare dentro altre artiste e artisti, altri modi di fare arte, altri paesi e paesaggi, altre geografie, altre culture, provando in tal modo che la propria patria dell’anima si può costruire e si costruisce con delle scelte, con l’impegno, proprio come le sue opere. A noi spettatrici e spettatori non resta che prenderci il tempo necessario per visitare questa esibizione che forma una grande e composita opera d’arte, scendere e risalire le scale di Palazzo Grassi, lasciarci trasportare dal flusso degli intrecci, farci largo attraverso gli strati di visioni e di significati, ammirare, stupirci, farci legare da quel filo rosso che di così tanto ci parla.

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