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John Woo e Hollywood hanno fatto pace

Dopo vent'anni, il regista è tornato a Hollywood con Silent Night, film d'azione senza dialoghi con il quale stavolta vuole compiere l'impresa che non gli è riuscita nella sua prima esperienza americana: dimostrare di essere un autore.

di Francesco Gerardi

John Woo ama le colombe bianche e le pistole Beretta. Nei film che lo hanno reso famoso ci sono sempre entrambe: nel mezzo di un conflitto a fuoco tra guardie e ladri, mentre i proiettili sparati dalle Beretta riempiono l’aria di coriandoli di legno scheggiato e confetti di vetro rotto, una colomba bianca spicca il volo in slow motion, attraversa il fuoco armato silenziosa e illesa. All’inizio, pubblico e critica pensavano si trattasse di un vezzo. Poi Woo è diventato uno dei maestri dell’heroic bloodshed – il cinema d’azione reinventato negli anni Ottanta da registi di Hong Kong come Woo e Ringo Lam, solo per citare i più noti – e si è capito che la colomba che vola in mezzo ai proiettili della Beretta era la firma dell’autore. Ma che significa? Perché questa scena si ripete quasi sempre e quasi uguale in A Better Tomorrow, A Better Tomorrow II, The Killer, Bullet in the Head, Hard Boiled? E ogni volta Woo si mette lì a spiegare, con la pazienza ereditata dal padre insegnante: la colomba è un simbolo che sta per la purezza dell’animo umano, essenza che sopravvive anche nel più violento dei mondi. E le Beretta? «Per me sono degli splendidi personaggi, le Beretta. Sono così forti, così eleganti. A confronto, tutte le altre pistole mi sembrano stupide».

John Woo ha fatto un nuovo film. Si intitola Silent Night, è appena arrivato in sala: è un action movie (ovviamente), centocinque minuti di film senza nemmeno una parola dentro (il titolo è un gioco di parole basato sull’assenza di dialoghi e sull’ambientazione prenatalizia del film: tutto comincia durante la vigilia di Natale, la silent night, appunto) e senza nemmeno una colomba bianca. Il protagonista Joel Kinnaman si è detto incazzatissimo per questa assenza, ha persino implorato Woo di inserire delle colombe bianche in Cgi come il regista aveva già fatto in passato per una scena di Mission: Impossible 2. Non c’è stato niente da fare: Woo non ne ha voluto sapere. Tra gli amanti del cinema di Woo c’è chi in questa decisione ci legge un messaggio a Hollywood: mi avete fregato una volta, non mi fregherete di nuovo, stavolta non avete a che fare con lo stesso regista che avete masticato e sputato vent’anni fa. Silent Night in effetti è il ritorno a Hollywood di Woo che, nonostante viva a Los Angeles dall’inizio degli anni Novanta, sono vent’anni – dal 2003, anno in cui ha diretto Paycheck – che si rifiuta di avere a che fare con produzioni americane.

Questa lunghissima separazione si spiega con il fatto che la prima volta a Hollywood di Woo non è stata una prima volta soltanto per lui. Senza tregua è stato il primo film americano diretto da un regista nato in Cina, con tutti gli imbarazzi e le incomprensioni del caso. La Universal non si fidava a mettere milioni di dollari nella mani di un regista che parlava a stento l’inglese e accettò di far fare il film a Woo solo a una condizione: Sam Raimi doveva esserne il produttore esecutivo, pronto a subentrare alla regia nel caso in cui le cose non avessero funzionato. Raimi – che sull’essere sottovalutato potrebbe scrivere un trattato pure lui – provò a spiegare ai dirigenti Universal che «Woo al 70 per cento vale più della stragrande maggioranza dei registi al 100 per cento». La produzione pretese anche che Woo cambiasse completamente il suo metodo di lavoro: fu costretto a realizzare uno storyboard delle scene di combattimento, lui che aveva sempre deciso tutto improvvisando, decidendo un attimo prima di girare, passeggiando per il set con il walkman alle orecchie e facendosi guidare dalla musica (rock per le scene “dure”, jazz per quelle “fluide”, classica per quelle “dolci” e così via, per un’intera tassonomia personale). A Hong Kong era abituato non solo a decidere ma a fare tutto lui: se in A Better Tomorrow Chow Yun-fat indossa quello spolverino o gli occhiali da sole Alain Delon 707A, è per decisione di Woo. Per avere un’idea del successo del film: dopo la sua uscita, i giovani di Hong Kong ribattezzarono lo spolverino Mark Gor Lau (la giacca di fratello Mark, il nome del personaggio di Chow) e iniziarono a indossarlo sempre, ovunque, anche se a Hong Kong faceva troppo caldo per quella giacca. Gli Alain Delon 707A divennero i più venduti di Hong Kong, e Delon scrisse personalmente una lettera di ringraziamento a Chow.

Woo non dimenticò mai l’offesa di aver dovuto girare un film con un supervisore appresso. Un film in cui tra l’altro dimostrò quanto fosse vera la frase con la quale aveva “convinto” la Universal a fargli fare Senza tregua: «So come far sembrare un attore un eroe». Frase che assume tutto un altro valore se si considera che in Senza tregua l’attore da far sembrare un eroe era Jean Claude Van Damme. Woo non lo hai mai detto apertamente, ma nelle interviste concesse dopo aver abbandonato l’America ed essere tornato a Hong Kong si capisce lo stesso: Hollywood non lo ha mai capito davvero. Certo, se Woo non fosse mai esistito non esisterebbe una grossa parte del cinema americano contemporaneo: Le iene di Tarantino non avrebbero camminato come camminavano uscendo dal Pat & Lorraine’s Coffee Shop; Neo e Trinity non combatterebbero come combattono nella lobby scene del primo Matrix; l’intera saga di John Wick non sarebbe mai stata immaginata nemmeno. Ma l’ammirazione dei colleghi è un conto, così come l’apprezzamento del pubblico – Senza tregua, Nome in codice: Broken Arrow, Face/Off, Mission: Impossible 2, Paycheck, tutti i suoi film americani, tranne Windtalkers, sono stati dei successi commerciali – un altro è il riconoscimento dell’industria. Hollywood vedeva in Woo soltanto quello che le interessava: la doppia fondina presa dai film di Sam Peckinpah, i gangster in completo elegante ispirati a quelli che abitavano le Mean Streets di Martin Scorsese. Hollywood non vedeva – e soprattutto non voleva – quella parte di Woo che aveva imparato la malinconia dai 400 colpi di Truffaut e le coreografie dei combattimenti da Judy Garland nel Mago di Oz, da Gene Kelly in Cantando sotto la pioggia, da Fred Astaire.

Soprattutto, Hollywood non capì che Woo non era un mestierante come erano tanti registi action dell’epoca. Woo è, si considera, lavora come un autore. Non che il mestiere gli dispiaccia, si capisce: tra i periodi più felici della sua vita Woo mette sempre quello in cui lavorava accanto al leggendario Chang Cheh, maestro del kung fu movie. Negli anni Settanta a Hong Kong non c’erano scuole di cinema, l’unica maniera per diventare registi era trovarne uno che accettasse di farti da mentore. In cambio della conoscenza tramandata, bisognava accettare che il mentore ti prendesse a male parole tutte le volte che lo riteneva necessario, cosa che con Cheh succedeva abbastanza spesso. Sui set di Cheh Woo ha imparato il cinema come artigianato (si occupava soprattutto del montaggio), sui suoi poi lo ha reimparato come arte. Le incomprensioni americane vengono da qui: Hollywood non vide l’autore, non capì che come tutti gli autori vive di poetica e che la poetica è la legge che forma i mondi immaginari e che il mondo immaginario di Woo è fatto di pistole Beretta ma anche, soprattutto di colombe bianche.

Woo è un autore romantico nel senso letterario, “tedesco” del termine. Le sue storie vengono dai poemi epici, i suoi personaggi dai cicli cavallereschi, i suoi mondi sono spazi antichi dominati da dicotomie essenziali: onore e disonore, lealtà e slealtà, fedeltà e tradimento, amore e odio, vita e morte. Mondi maschili ma non maschi, storie i cui protagonisti si abbracciano, si accarezzano, si baciano, si proteggono, si sacrificano l’uno per l’altro proprio come cavalieri appartenenti allo stesso ordine. Più che amici d’infanzia o compagni d’armi, i suoi personaggi formano bande di fratelli tenute assieme da un codice. Nei mondi di Woo, la violenza è quella dei duelli tra cavalieri, degli scontri tra briganti, delle battaglie campali tra gli eserciti: il bloodshed è heroic o non è, la brutalità è quella di Omero che descrive nel dettaglio la lama di Achille che recide la carotide di Ettore. È una violenza appunto romanzesca, non reale: un’astrazione di cui è capace solo chi ha vissuto la violenza vera come Woo, sopravvissuto alla gioventù in un quartiere poverissimo di Hong Kong in cui la sua famiglia si ritrovò a vivere dopo che suo padre, militante del Kuomintang di Chiang Kai-Shek, fu costretto a fuggire dalla neonata Repubblica popolare cinese pur di non tradire i compagni sconfitti. Un quartiere in cui, ha raccontato Woo, la mattina dovevi assicurarti di uscire di casa avendo con te un’arma qualsiasi – una bottiglia rotta, un mattone spezzato, un’asse di legno scheggiato – e in cui comunque potevi stare certo che la sera saresti tornato con dei lividi nuovi.

Vedremo se questa volta Hollywood accoglierà davvero John Woo l’autore. Nelle interviste fatte in queste settimane per promuovere Silent Night, le cose non sembrano essere migliorate granché. Oggi come vent’anni fa, in quasi tutte queste interviste arriva il momento in cui Woo si sente chiedere da dove viene la sua fissazione per le pistole. E lui, oggi come vent’anni fa, risponde con una cattiveria sottile: «Odio le pistole. Non ne ho mai usata una. Non ne ho mai avuta una. Io».