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La grandezza in tutti i sensi di Jeff Wall

La Fondation Beyeler di Basilea ospita l’importante personale dedicata all’artista canadese famoso per i suoi imponenti lightbox e le stampe fotografiche.

di Riccardo Conti

Inutile girarci attorno: Jeff Wall (Vancouver, 1946), il più grande artista canadese vivente. Detto così, certamente suona un po’ apodittico, considerando il livello di intensità costante del suo lavoro dalla fine degli anni Settanta ad oggi è difficile non collocare l’arte di Wall in una posizione apicale, non solo per capire il rapporto tra arte e fotografia ma più ampiamente per meditare sulle infinite riflessioni sull’immagine che le opere propongono.

È quindi un’ottima occasione quella offerta dalla Fondation Beyeler a Basilea che fino al 21 aprile costudirà più di cinquanta opere realizzate nel corso di mezzo secolo. La mostra, curata da Martin Schwander, non è strutturata lungo un percorso cronologico, ma insieme all’artista è stata concepita come una sorta di ricognizione del vasto lavoro di Wall in undici diverse stanze dove il visitatore troverà gruppi di opere che manifestano temi, approcci e omologie formali che restituiscono una poetica di Jeff Wall più eterogenea di quanto a prima vista si possa immaginare.

Famoso per i suoi grandi lightbox e stampe fotografiche che di volta in volta Wall ha definito ricorrendo a vari termini quali “tableau”, “reportage”, “cinematography”, “incidents”, l’artista che è oltre a quella tecnica ha avuto anche una formazione teorica e una vasta produzione di scritti sull’immagine, ha in passato diviso i fotografi in due gruppi, i cacciatori e gli agricoltori: i primi scovano e catturano immagini, gli ultimi le coltivano nel tempo. Uno delle sue opere iconiche per spiegare la prima categoria è indubbiamente la famosa “Milk” (1984) dove la staticità del tutto è squassata dal deflagrare di un cartone di latte che, a causa di un evento a noi sconosciuto, ha prodotto quella forma cinetica e astratta del liquido fuoriuscito dal suo contenitore. È un’immagine a suo modo perfetta, carica di quella forza intrinseca con cui alcune costruzioni fotografiche degli anni Ottanta riuscivano a scalfire la superficialità delle immagini dopo la grande scorpacciata della pop art e ugualmente distante anche dalle soluzioni post-concettuali di molti autori coevi a Wall, come il connazionale Jack Goldstein e gli altri protagonisti della Picture Generation. Immagini che abbiamo accolto nel nostro immaginario collettivo non tanto guardando a modelli “alti” ma a produzioni visive commerciali sofisticatissime come quelle del mitologico studio inglese Hipgnosis, a quelle grandi immagini iperrealiste riprodotte sulle cover dei vinili che indubbiamente hanno influenzato anche la generazione di Wall.

C’è poi quell’altra categoria, quella degli agricoltori; e se qui prendiamo l’etimologia del termine stesso “cultura” possiamo apprezzare come la metafora nel caso di Jeff Wall coincida perfettamente. Pochi autori come lui hanno infatti guardato con uguale intensità e metodo ai secoli della cultura visiva. Il Wall “colto” attinge continuamente al repertorio figurativo della tradizione pittorica occidentale. La composizione da tableau vivant ha come precedente l’arte pre-fotografica e la pittura figurativa dei XVIII e XIX secolo, e da visitatori noi ci basiamo sulla medesima abilità culturale di riconoscere una combinazione di personaggi e oggetti come momento pregnante di una storia. È tuttavia importante non guardare a tali affinità formali tra le composizioni di Wall e le opere pittoriche che cita come a un desiderio di imitazione o di revival e meno ancora come tentativo di nobilitare un’immagine fotografica rimandandola a un modello artistico. Wall, in tutta la sua ricerca, ci ha dimostrato invece di condividere con la pittura la conoscenza di come si possa coreografare una scena affinché lo spettatore sia capace di comprendere che quella che sta osservando è il momento di una storia, lo still-frame congelato di un film del quale abbiamo un solo gigantesco fotogramma. Dürer, Bacon, Manet, Degas, Hokusai, Delacroix, Courbet, Rembrandt, Matisse, Goya sono solo alcuni dei modelli visitati da Jeff Wall, al quale non importata tanto esplicitarne didascalicamente il rimando, quanto piuttosto studiarne attentamente le condizioni spaziali, figurative ma anche le tensioni narrative e psicologiche che queste generano.

Nel grande lightbox intitolato “The Storyteller” (1986) le radici pre-impressioniste dell’immagini giungono a noi come un messaggio subliminale; la scena nella sua totalità è un esempio perfetto di come l’artista sia maestro nell’impiegare tali modelli per introdurci a una narrazione che chiede attenzione e la curiosità di approfondire la storia di quei soggetti che nulla hanno a che fare con i riferimenti pittorici originali.

Molti degli scatti di Wall, dicevamo, sono montati su grandi lightbox che per le loro caratteristiche spaziali e luminose, conferiscono alle sue fotografie una straordinaria presenza fisica. Tale dispositivo manifesta l’immagine in uno status sospeso tra fotografia, quadro, e still-frame, ma il lightbox non è una semplice quinta teatrale-scenografica, esso aiuta a concentrare l’attenzione dell’osservatore anche su minimi dettagli, invitandolo a diventare esploratore e detective che sa assimilare visione e comprensione, particolare e insieme. Non è raro, mentre si osservano le grandi opere di Wall, trovarsi nella condizione di perlustrarla con lo sguardo in cerca di dettagli, indizi, che anche nelle sue più surreali creazioni, sembrano poter condurre l’osservatore alla risoluzione di un giallo. Un po’ come in Blow Up di Antonioni, il protagonista si serve dell’immagine fotografica per veder affiorare ciò che il suo sguardo di testimone oculare non aveva compreso. Proprio per questo, le immagini di Jeff Wall, per quanto a volte splendidamente riprodotte nelle decine di pubblicazioni a lui dedicate, testimoniano solo in minima parte l’intensità dell’esperienza di una mostra come questa.

Ci sono opere che viste anche a distanza di anni, continuano a proiettare un inquietante fascino e a custodire il loro misterioso significato; “A Ventriloquist at a Birthday Party in October 1947”, (1990) è indubbiamente tra queste. Il light-box delle dimensioni che superano i tre metri per due, mostra quello che dovrebbe essere uno spettacolo domestico per il divertimento di una dozzina di bambini, riuniti durante una festicciola attorno a una donna che apparentemente ‘anima’ un pupazzo dalle fattezze assai inquietanti. La scena, come sempre, è cristallizzata in un scatto che in questo particolare caso l’artista indica come appartenente a un momento preciso nel tempo. Wall ha spiegato come quest’opera sia stata la prima a implicare un “viaggio nel tempo” e come la sua genesi sia da ricondursi sia a memorie personali che a una molteplicità di possibili speculazioni, tra le quali l’emergere della televisione nei primi anni Cinquanta e la conseguente scomparsa di altre forme di intrattenimento come quella performata dalla ventriloqua al centro della scena. L’artista  racconta poi: «Ho cercato di ricreare l’atmosfera del periodo il più accuratamente possibile, ma mi sono preso la libertà di reinventare la marionetta del ventriloquo. È insolita nella fisicità e nel costume ed è stata sviluppata attraverso un processo di disegno e scultura. Il costume combina una gonna da danzatrice dall’India con una “Eisenhower jacket”, l’uniforme militare resa famosa dal generale americano Dwight D. Eisenhower durante la Seconda Guerra Mondiale, completa di medaglie, il tutto coronato da una gorgiera del diciassettesimo secolo. Non c’è una ragione logica per unire questi elementi e, nel mondo immaginario della fotografia, potrebbero essere stati combinati dal ventriloquo per capriccio per caso. Volevo che il personaggio della marionetta sembrasse andare oltre i tipi familiari, in zone più misteriose della mente e dell’atteggiamento. Pensavo persino che la marionetta che vediamo potrebbe non essere quella che era effettivamente presente, ma una immaginata da almeno uno dei bambini, o eventualmente ricordata male da quel bambino, nel frattempo cresciuto, nel 1990, quando l’immagine è apparsa».

Oltre a queste interpretazioni fornite dall’artista, altre potrebbero essere tentate: la distonia tra l’elemento ludico (la festa, i palloncini colorati) e la centralità dell’inquietante oratore, le cui parole non possiamo sentire, ma che in qualche modo sembrano aver generato un’atmosfera siderale nella stanza e nei volti dei bambini, rimandano a scene grottesche di burattini “graduati” e mutilati di ritorno dalla prima guerra mondiale, così come dipinti da Otto Dix e George Grosz; il minuscolo eppure ravvisabile dettaglio che uno dei piedi del pupazzo sia scalzo e attraversato da un rivolo di sangue, si aggiunge al novero di quegli ‘indizi’ che lasciano le opere di Wall eternamente inevase da una completa interpretazione.

Nel catalogo che accompagna la mostra, Martin Schwander domanda all’artista se l’arte abbia un scopo morale. La risposta di Jeff Wall è non solo esemplare, ma anche inverata dal suo lavoro stesso: «La cosa più immorale che un artista possa fare è creare consapevolmente qualcosa di artisticamente inferiore, perché ciò di solito significa compromettersi con valori al di fuori del processo artistico. Quindi, creare intrinsecamente il miglior lavoro possibile è già una questione di moralità ed etica».

Opere come “War Games” (2007), “Citizen” (1996) – non presente in mostra – “Mending” (2023) o “Dead Troops Talk (A Vision After an Ambush of a Red Army Patrol near Moqor, Afghanistan, Winter 1986)” del 1992, se opportunamente osservate invitano a riflessioni di raro scandaglio morale ed etico, oltre che a confrontarsi con temi eterni come la guerra, ponendosi domande sull’atto del vedere e del mostrare, andando oltre i didascalismi del reportage.

Nel 2003 Susan Sontag così concludeva quello che ancora oggi continua ad essere uno dei saggi più importanti mai scritti sulla fotografia; Davanti al dolore degli altri, analizzando proprio la monumentale Dead Troops Talk di Jeff Wall: «Questi morti mostrano un supremo disinteresse per i vivi: per quelli che hanno tolto loro la vita, per i testimoni – e per noi. Perché mai dovrebbero cercare il nostro sguardo? Che cosa avrebbero da dirci? “Noi” – e questo “noi” include tutti quelli che non hanno mai vissuto nulla di simile a ciò che loro hanno affrontato – non capiamo. Non ce la facciamo. Non riusciamo a immaginare davvero come è stato. Non possiamo immaginare quanto è terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventa. Non capiamo, non immaginiamo. È questo ciò che pensano con convinzione tutti i soldati, e tutti i giornalisti, gli operatori umanitari, gli osservatori indipendenti che si sono ripetutamente esposti al fuoco e hanno avuto la fortuna di eludere la morte che ha falciato chi stava loro vicino. E hanno ragione».