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Jane Bennett: umani, ma non del tutto

Intervista alla teorica politica autrice di Materia Vibrante, un saggio che ha acceso il dibattito sul nuovo materialismo e su come sta cambiando il rapporto tra l’uomo e il mondo che lo circonda.

di Eugenio Giannetta

Jane Bennett è una filosofa e teorica politica, tra le maggiori teoriche del materialismo vitale, nota per il suo lavoro su natura, etica e affetti. In Materia Vibrante, di recente pubblicazione con Timeo, sposta l’attenzione dall’esperienza umana delle cose, alle cose stesse, aprendo la teoria politica al riconoscimento della partecipazione attiva delle forze non umane agli eventi, e proponendo il concetto di una “materialità vitale” che scorre lungo e attraverso tutti i generi di corpi, umani e non umani. Materia Vibrante indaga i modi in cui le analisi politiche degli eventi mondiali potrebbero cambiare, ma non solo: è una ricerca attenta alle problematiche ecologiche e alle agende politiche, alle urgenze del nostro tempo e ai confini costantemente spostati un po’ più in là, ci parla del nostro attaccamento alla materia e guarda alla quotidianità delle nostre vite, guidandoci, come ha scritto Silvia Schirinzi, «verso una nuova forma di materialismo le cui prime tracce si sono viste in Lucrezio, passando per Spinoza, fino ad arrivare ad Adorno, Deleuze e Guattari fra gli altri, per convincerci che siamo parte di qualcosa di molto più grande di noi stessi», attraverso un’analisi innovativa di oggetti quotidiani e fenomeni fisici, che vanno dalle cellule staminali agli oli di pesce, passando per l’elettricità, i metalli e i rifiuti.

Il libro di Bennett introduce perciò una nuova teoria materialista e l’idea che noi esseri umani siamo coinvolti in un mondo materiale, spiegando che quando gli esseri umani agiscono non esercitano solo poteri umani, ma esprimono una varietà di altri “agenti”, nonché di attanti: «Il termine», scrive, «è di Bruno Latour: un attante è l’entità che dà origine all’azione, sia essa umana o non umana; un attante ha efficacia, può fare cose, ha sufficiente coerenza per fare la differenza, produrre effetti, alterare il corso degli eventi. È “qualsiasi cosa ne modifichi un’altra in una prova”, qualcosa la cui “competenza si deduce dalle prestazioni”».

L’aspirazione, scrive ancora Bennett, «è quella di articolare una materialità vibrante che scorre accanto e dentro l’umanità per capire come l’analisi degli eventi politici potrebbe cambiare se solo riconoscessimo la forza dovuta delle cose. Per esempio, come cambierebbero i modelli di consumo se capissimo che non abbiamo a che fare con rifiuti, spazzatura e materiali da “riciclare”, ma con un mucchio di materia viva e potenzialmente pericolosa? Che differenza farebbe per la salute pubblica se interpretassimo l’atto del mangiare come un incontro tra corpi diversi e variegati, alcuni miei, altri no (nessuno dei quali ha necessariamente la meglio)? Quali problemi solleverebbe la ricerca sulle cellule staminali se non dessimo per scontato che l’unica fonte di vitalità della materia sia un’anima o uno spirito? Le politiche energetiche avrebbero sviluppi diversi se l’elettricità fosse considerata non come una semplice risorsa, un bene o uno strumento, ma soprattutto e più radicalmente come un “agente”?». Domande che in parte trovano risposta, in parte ancora no, ma danno motore alla ricerca.

Come è arrivata alle sue posizioni in termini di ecologia politica delle cose e della materia?
Materia vibrante è stato suggerito da un “dentro” e un “fuori”. Il “dentro” era la mia tendenza temperamentale a notare gli oggetti ordinari e a trovarli interessanti. Questo stile un po’ ingenuo di curiosità percettiva era influenzato dal fatto che avevo letto molti naturalisti poetici, tra cui Henry Thoreau, Walt Whitman, Paracelso, e poeti contemporanei come Forrest Gander, Katy Didden, Dora Malech, Ross Gay, Joyelle McSweeney. Il “fuori”, invece, è stato – come accenno anche nel libro – il caso in cui un giorno mi sono imbattuta in un tableau involontariamente artistico di oggetti raccolti nel canale di scolo di una strada di Baltimora. Naturalmente, il mio pensiero sull’ecologia politica è stato anche il risultato di anni e anni di lezioni sulla “natura” e sulla “politica”, e di come ognuna di queste cose sia complessa e intrecciata all’altra.

Secondo lei è possibile superare il divario cultura/natura? E con quali conseguenze?
Penso certamente che sia possibile: come ha dimostrato Bruno Latour, sperimentiamo ogni giorno la commistione tra cultura e natura. La pandemia di Coronavirus ne è stata un esempio. Credo che il punto di vista sia rafforzato dal riconoscimento che anche noi “umani” siamo costituiti da forze, elementi e corpi che non sono del tutto umani, ad esempio i microbiomi nell’intestino, gli oligoelementi spesso tossici delle sostanze chimiche industriali e via dicendo.

Come si potrebbe ampliare l’ambito della democratizzazione in modo da riconoscere meglio il non umano?
Questa è la grande domanda, soprattutto ora che anche i nostri modelli di democrazia troppo antropocentrici sono sotto attacco da parte dei neofascismi e dei leader autoritari e dei loro seguaci. Un primo modo per includere il non umano è lavorare per rendere più sofisticata l’alfabetizzazione scientifica della popolazione. Credo che oggi gli artisti stiano facendo un lavoro migliore di molti sforzi governativi, anche se ciascuno sforzo è importante.

Nel suo libro cita, tra gli altri, Kafka e Whitman. Che valore hanno la poesia e la letteratura nella sua visione?
La poesia e la letteratura sono modalità fondamentali di persuasione politica, e per “politica” intendo quella che si rivolge allo stile e alla struttura della vita pubblica o collettiva e cerca di modificarne lo stile, la traiettoria e gli esiti, compresi gli “esiti” del tipo di autocomprensione, di identità e di ethos assunti dal suo pubblico.

Lei che tipo di materialista sente di essere?
Sono una “vecchia” materialista, in quanto affermo la critica etica di Marx all’ingiustizia radicale delle economie politiche capitalistiche, ma al tempo stesso sono anche una “nuova” materialista, in quanto affermo una versione (non provvidenziale) dell’idea che tutte le cose (organiche e inorganiche) sono vivaci, nel senso di capaci di alterare la scena e produrre nuovi effetti e affetti.

La comprensione della vitalità della materia come potrebbe permetterci di vivere in modo più etico?
In pratica, ricordando a noi esseri umani quanto siamo radicalmente legati a forme, forze e processi non umani, e sperando poi che un maggiore senso di dipendenza da ecologie più grandi e più che umane ci spinga, in uno slancio di “interesse personale” allargato, a prenderci cura in modo migliore, più intelligente e di più ampio respiro della Terra e, quindi, di noi stessi.