Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a giugno in redazione.

Rachel Cusk – La seconda casa (Einaudi)
Traduzione di Isabella Pasqualetto

Nonostante negli ultimi anni sia stata da più parti considerata come una delle scrittrici più brave e interessanti in circolazione, l’ultimo romanzo di Rachel Cusk, La seconda casa, mi pare sia passato quasi sotto silenzio, in quell’atmosfera di indifferenza generale che, è vero, riguarda ormai il il 99 per cento delle uscite editoriali, ma che a una come Rachel Cusk non dovrebbe toccare. La vera ragione è che probabilmente i cicli di hype sono sempre più brevi, nessuno regge per più di due o tre libri e ci stanchiamo presto di qualunque cosa, persino di grandi miti come Houellebecq o Franzen. Ma forse una parte di quest’indifferenza è dovuta anche a qualcosa che sta dentro questo libro. La cosiddetta “Trilogia dell’ascolto”, composta da ResocontoTransitiOnori, aveva calamitato l’attenzione dei lettori e dei critici per diverse ragioni, ma soprattutto secondo me per la bravura di Cusk nel trovare una voce, una voce che suonava al tempo stesso letteraria e autentica – oserei dire “vera” – che restituiva con grande forza una serie di storie, aneddoti, discorsi e pensieri ricavati dagli incontri e dai viaggi della protagonista, la scrittrice Faye. Ebbene nella Seconda casa, Cusk decide di rinunciare a questa voce, di cambiare campo, di passare da quella specie di originale autofiction-nonfiction, che era riuscita a creare, al romanzo di finzione vero e proprio. Una scelta insolita e pericolosa quella di abbandonare l’identità stilistica che l’ha trasformata in una scrittrice inconfondibile. Qui siamo dalle parti del romanzo pandemico, tre coppie isolate in una casa nei pressi di una sperduta palude britannica, ma soprattutto siamo dalle parti del romanzo teorico, e in particolare del romanzo sull’arte, che peraltro origina da una riscrittura di Lorenzo in Toas, memoir del’32 di Mabel Dodge Luhan sul periodo trascorso in Messico dall’autrice con D. H. Lawrence. È strano ritrovarsi a leggere La seconda casa pensando a Resoconto. È come ritrovarsi orfani di una forma che sembrava il miglior modo per rappresentare lo spirito del tempo in un romanzo. Ma è anche vero che lo spirito del tempo cambia e oggi, forse, abbiamo meno sicurezze su come possa essere incarnato in un romanzo. Qui addirittura ci troviamo di fronte a delle forzature, una voce narrante per molti versi antipatica in cui è difficile riconoscersi. Ma è anche vero che c’è una corrente che percorre il libro da cui si resta ammaliati e che forse è l’indizio di un tentativo di evoluzione di questa scrittrice, che sembra sempre comunque assillata dalla ricerca. Ed è interessante leggerlo anche per questo, se riusciamo a distrarci dall’hype e a concentrarci più sul percorso, oltre che per le immancabili frasi killer che Cusk continua a seminare nelle sue pagine, tra cui per esempio ho segnato: «Per la prima volta, Jeffers, presi in considerazione l’ipotesi che l’arte fosse un serpente che ci sussurra all’orecchio prosciugandoci di ogni soddisfazione e fiducia nelle cose del mondo con l’idea che dentro di noi ci sia qualcosa di più nobile e migliore rispetto a ciò che abbiamo di fronte», cioè quella che sembra la dichiarazione programmatica di una crisi. O di qualcosa che sta tra la crisi e il passaggio. (Cristiano de Majo)

Imogen Binnie – Nevada (Feltrinelli)
Traduzione di Silvia Rota Sperti

Prima di arrivare in Italia, Nevada di Imogen Binnie ha fatto in tempo a diventare un cult e poi classico: il primo romanzo t4t, trans for trans, si legge in praticamente tutte le recensioni che ne sono state scritte dal 2013, anno della prima edizione americana, a oggi. È stato definito così perché, come ha spiegato la stessa Binnie, rifiuta quella parte del racconto che è «la più viscidamente interessante per le persone che non devono viverla»: la transizione. La storia di Maria e James non avviene in quella «mysterious in-between phase», come l’ha definita l’autrice, che attrae tanto i turisti. Non è un romanzo né sul cambiamento né sulla transizione né sulla trasformazione, Nevada: Maria ha completato il suo percorso da tempo, e vive la vita col cinismo e l’ironia di chi sa cosa c’è stato dopo (la vita, appunto, uguale per tutti). James lo comincerà chissà quando, il percorso, ed esiste non nel presente ma nel futuro come se lo immagina, la sua identità è sparpagliata lungo nella non-linearità del “queer time” di cui parlava Jack Halberstam. Che romanzo è, allora, questo. È un bookseller novel, uno dei primi romanzi in cui il fatto che la protagonista lavori in una libreria dà forma al romanzo stesso (in Nevada classe sociale e genere pesano quasi alla stessa maniera, e i migliori discorsi di Maria sono quelli che passano da una questione all’altra, svelando i collegamenti). È un road novel in tutti i sensi della definizione: stradaiolo nell’estetica e nell’etica, dedito alla strada, indifferente alla destinazione, concentrato solo nel viaggio come loop, ripetizione infinita di se stesso, strada senza fine. Un romanzo in cui Binnie riesce ad ampliare l’esistenza delle persone transessuali, dimostrando anche e soprattutto a quelle «che non devono viverla» che non esiste una storia che valga per tutte le persone trans, un’esperienza collettiva che tenga tutto assieme, un percorso seguito sempre e comunque. L’unica cosa che esiste in ogni caso è la vita come collezione di «episodi molto speciali», come Maria definisce la sua transizione nell’unica volta che ne parla. (Francesco Gerardi)

Peppe Fiore – Gli innamorati (Einaudi)

C’è una frase di questo libro di Peppe Fiore, il suo quarto, che ho sottolineato e poi fotografato e poi mandato a diverse amiche e amici. Dice: «La festa dei quarantacinque anni di Camilla era una di quelle dove all’inizio sono tutti un po’ a disagio, e allora si domandano: cosa ci siamo venuti a fare qui se dovevamo romperci le palle? Ovvio: siamo venuti per contarci, siamo venuti per riconoscerci, siamo venuti per accertarci di essere sempre noi, sempre gli stessi». L’ambientazione è un compleanno a cui è invitato il jet-set politico, culturale e televisivo romano, ma le stesse parole potrebbero andare bene anche per Milano, Napoli, Torino. Questo cinismo divertito è uno dei tratti più piacevoli e ricorrenti del libro di Fiore, una storia d’amore e di corruzione nel mondo della cultura, della politica e dell’architettura romana. I protagonisti sono una coppia di professionisti di questo mondo, un architetto ben affermato e ben ammanicato, e la moglie, direttrice di un grande museo di arte contemporanea. Il loro matrimonio è perfetto, il loro amore luccicante come pochi. Viene messo in crisi, come tutte le loro vite, dall’avviso di garanzia che nelle prime pagine arriva per lui, Carmine Rebora. Fiore scrive un romanzo sia intimo – il dialogo interiore della protagonista, Flaminia, è notevole – che politico, e quella disillusione della frase la si ritrova in tutta la saga che riconosciamo tutti come molto italiana. Un panorama di favori politici, inchieste a orologeria, politici progressisti ma ugualmente traffichini. Fiore è bravo a tenere in equilibrio la tenerezza dell’amore e la sporcizia del mondo politico-immobiliare. Lo fa utilizzando bene i media, vero motore della trama che muove articoli, inchieste, gossip. E una lingua che dà alle cose tutta l’attenzione che le cose meritano, accarezzandone con precisione tutti i bordi. (Davide Coppo)

Halle Butler – La nuova me (Neri Pozza)
Traduzione di Annalisa Di Liddo

È una donna sola che vive da sola, solitamente beve troppo o assume fantasiosi mix di psicofarmaci, ha una serie tv feticcio che guarda compulsivamente, odia tutti, non è bella, si veste male, non scopa mai, ha un lavoro noioso e ripetitivo e un’amica logorroica che parla soltanto di sé stessa: no, non è la mia vita (io non mi vesto male) ma quella della protagonista di questo libro, così come di tanti dei libri che ho letto e amato negli ultimi anni, da Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman a Gli amanti della notte di Kawakami (la lista di romanzi con protagoniste donne che vivono in un goblin mode perenne potrebbe continuare e sarebbe lunghissima). La Millie di Halle Butler si differenzia rispetto alle altre perché è particolarmente incazzosa, tanto che Catherine Lacey l’ha definita «una Thomas Bernhard di cattivo umore» (che invidia). Secondo Jia Tolentino, «La nuova me è l’opera definitiva della letteratura millennial», soprattutto per il modo in cui parla del lavoro (e, praticamente, quasi solo di quello): la protagonista, trentenne, è un’interinale in uno showroom di design in attesa di firmare il contratto a tempo indeterminato, ma la sua responsabile (che guarda caso si chiama Karen) non vuole che venga assunta. A quanto pare più la vita d’ufficio è tediosa più è divertente quando la racconti, nel senso che questo libro fa proprio ridere: consiglio di leggerlo in spiaggia, come ho fatto io, per avere un’ottima scusa per continuare a ossessionarsi della propria vita lavorativa anche in vacanza. Anche se Megan Nolan ha detto che quello che ha amato di La nuova me, è proprio «la consapevolezza che il lavoro non ha il potere intrinseco di dare dignità alla vita». (Clara Mazzoleni)

Jane Bennet – Materia vibrante (Timeo)
Traduzione di Angela Balzano

Nel suo Materia vibrante, uscito fortunatamente in Italia grazie al nuovo progetto di Timeo, Jane Bennett rende esplicito il suo obiettivo sin dalle premesse: argomentare a favore di una «materialità vitale» è utile, anzi necessario secondo l’autrice, perché solo «la rappresentazione di una materia intrinsecamente inanimata può essere d’ostacolo all’emergere di modalità di produzione e consumo più ecologiche e materialmente sostenibili». Ovvero: se vogliamo un cambio di passo nelle politiche che regolamentano la quotidianità delle nostre vite, il primo passo è ricalibrare il ruolo dell’agente umano all’interno di quella quotidianità, dove l’umano esiste insieme al non umano e cioè – appunto – la materia (a cominciare da questa stessa distinzione: tutto sfuma nell’altro, che sia esso umano o cosa, e viceversa). Bennett riprende una delle più grandi questioni filosofiche occidentali, la differenza ontologica tra l’uomo e ciò che lo circonda, e ci guida verso una nuova forma di materialismo le cui prime tracce si sono viste in Lucrezio, passando per Spinoza, fino ad arrivare ad Adorno, Deleuze e Guattari fra gli altri, per convincerci che siamo parte di qualcosa di molto più grandi di noi stessi, della nostra anima o spirito e di tutti i millenari tentativi filosofici di innalzarci al di sopra di tutto il resto. «Tutto il resto», d’altronde, da sempre permea e influenza l’esperienza umana, che si tratti, come scrive Bennett, di un cumulo di rifiuti abbandonati su una grata per strada o di un blackout, quello del 2003 in Nord America, che finisce per bloccare la vita di milioni di persone: fino a che punto possiamo stabilire il grado di “agentività” dell’elettricità? Quanto è casuale, quanto deriva dalle azioni umane e quanto invece da una certa, intrinseca, potenza della cosa stessa? Nel suo brillantissimo trattato, che si legge con entusiasmo, Bennett riscrive una teoria politica per il contemporaneo, una in cui si riprendono, tra le altre cose, certe tradizioni di pensiero dimenticate e sbeffeggiate per secoli e si confuta il primato dell’uomo sotto una nuova luce: quella dei nostri tempi, in cui ingiustizie sociali, storture legate ai meccanismi produttivi e cambiamento climatico ci forzano a ricalibrare la nostra idea di azione sul mondo. Riconoscendone, una volta per tutte, che ne siamo solo una piccola parte. (Silvia Schirinzi)