Cultura | Dal numero

Nessuno rappa come J Lord

Ha 18 anni, è napoletano, e il 25 marzo esce il suo primo album No Money No Love: intervista a una delle promesse più dirompenti della scena rap italiana.

di Tommaso Naccari

«Posso mettermi della musica mentre mi scatti?». Sono queste le prime parole che J Lord pronuncia il giorno della nostra intervista. Le rivolge ovviamente al fotografo e lo fa in risposta a un input di sentirsi quanto più naturale possibile. Dà prima un’occhiata a dei libri, è tentato dal prenderne uno, dal prendere una rivista, per un attimo punta gli occhi anche su un modellino di un aeroplano Alitalia, poi tira fuori il telefono, raccoglie dalla tasca le cuffie – rigorosamente col cavo – e quasi come fosse un automatismo fa partire Meek Mill. L’audio gracchiante delle cuffie riempie quello spazio, ora non è solo J Lord ad ascoltare Meek Mill. Quel mix di sana strafottenza – che poi capisco essere solo nell’apparenza – e di curiosità, mi riconducono subito a prendere atto del fatto che la persona che ho davanti ha 17 anni (il 25 agosto 2021 ne ha compiuti 18, ndr). Non li dimostra, almeno in cuffia. Le volte che mi è capitato di ascoltarlo, proprio come lui sta facendo con Meek Mill – anche io con delle cuffie col cavo – mi sono trovato davanti a un mix disarmante di realness e semplicità che mi ha fatto entrare in un viaggio del quale mi è risultato poi impossibile capire gli step successivi. J Lord è uno dei newcomer più atipici della scena italiana: nonostante parli di drill, inizi a essere sempre più spesso uno dei nomi più spendibili al momento dell’annuncio delle tracklist dei colleghi, vedere un suo video ti proietta immediatamente in un immaginario che ha ben poco a che vedere con i (quasi) coetanei che sono emersi con lui. In poco più di un paio d’anni di carriera, grazie a un featuring con Ghali e Liberato è arrivato persino a passare in radio, eppure guardando il videoclip di “Chiagne Ancora” non sembra di essere davanti a Emma Marrone, ma a Kendrick Lamar o, alla peggio, al suo cugino più piccolo Baby Keem, che anziché rapper nello slang di Compton parla come chi è nato e cresciuto ad Afragola.

Partirei subito da quello che stavi ascoltando durante gli scatti, Meek Mill. Anche la collana che porti al collo mi sembra un chiaro riferimento al personaggio. Mi piacerebbe capire cosa ti piace di lui, che cosa deve fare un rapper per piacerti. Dal fatto che, appunto, anche nel tuo modo di vestire ci sono dei riferimenti al rapper di Philadelphia, direi che non è solo la musica ad affascinarti…
Perché Meek Mill su tutti? Perché Meek Mill è un esempio. Un esempio da seguire per sempre. Se penso a quello che ha vissuto, come l’ha vissuto, ma soprattutto come ne è uscito, non posso che rimanere colpito. Penso alla storia di suo padre, penso a quello che si è sentito dire sull’uomo che doveva crescerlo dalla famiglia, penso a quando la Polizia [J dice «i carabinieri» nda] lo ha preso, lo ha pestato, che aveva praticamente la mia età. Adesso lo vedi, lo senti e non puoi non chiederti: «Ma come ha fatto?». Tu hai visto il documentario? [Free Meek, disponibile su Amazon Prime in Italia].

Sì, speravo di arrivare proprio lì. A volte mi sembra quasi una fissa inutile concentrarsi troppo sulle storie dei rapper, capita di farlo anche più che con la musica. Poi mi giustifico dicendo che ne scrivo, non lo faccio. Invece un rapper come te, è attento a queste cose?
Ti dirò, a volte anche a me interessa più la storia di un artista. Perché è la sua storia che ti fa sentire delle connessioni con lui, con quello che dice. Prima ti dicevo che Meek Mill è un esempio: per me lo è proprio per la sua storia, la sua storia mi fa capire meglio anche la sua musica. Per dirti: c’è tanta gente che mi scrive cose come: «Mi piaci perché quello che racconti lo sto vivendo». La tua storia, da rapper, è fondamentale, perché la tua storia, che poi finisce nella tua musica, è quella che può dare una mossa alla gente che magari si trova bloccata nella propria vita. Potrebbe essere bloccata per paura, per mancanza di fiducia in loro stessi. Vedere che uno come Meek Mill ce l’ha fatta, che uno come me sta raccontando la propria storia, visto quello che c’è dietro, be’, quello può aiutare qualcuno.

Sono felice di sentirti dire ciò, perché mi pare che rispecchi perfettamente l’impatto che si ha con la tua musica. La prima volta che ho visto un tuo video musicale sono rimasto abbastanza scioccato: era qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò che stava andando in quel momento. Calato nel contesto della scena e del rap napoletano, sembravi quasi un alieno. Pertanto il mio primo istinto è stato chiedermi: «Qual è la sua storia?». Perché ti vesti così? Perché rappi così? Su questi beat “classici”, anche se classici non sono.
Perché mi viene spontaneo, mi viene da dentro. Mi viene spontaneo rappare in napoletano, per esempio, che è sempre una scelta che da fuori può sembrare controintuitiva. Spontaneo perché mi sento vivo quando lo faccio nella mia lingua. Poi anche quando rappo in italiano – penso al pezzo con Mecna – ho avuto un bel riscontro, è una sfida, riuscire a fare anche quello.

Ma oltre al napoletano è proprio l’immaginario che mi stupisce. Le prime volte che ho sentito parlare di te o che ho parlato di te con altri ascoltatori del genere, non c’è stata volta in cui non sia uscita l’espressione “old school”, che fa ridere detto di un ragazzo che non ha neanche 18 anni. Tu ti senti old school?
No. Forse l’unica cosa per cui mi si può dire che sono old school è perché io dico le cose come stanno. Penso che sia più un concetto di attitudine che di sonorità, non ho bisogno di immedesimarmi in personaggi che non mi starebbero bene addosso. Io sono così, perché dovrei cercare di sembrare un’altra persona che non sono?

Ecco, questa cosa su di te me l’aveva detta una delle tante persone con cui ho parlato di te, The Night Skinny [noto producer della scena, nda]…
Lo sapevo che c’era dietro Skinny (ride). Spacca Skinny!

Mi diceva che in studio hai passato un sacco di tempo ad ascoltare la G-Unit…
Sì, sì, sì, mi piacciono. Quei giorni in studio con lui sono stati importanti, mi ha fatto ascoltare delle cose dei Dipset. Tra l’altro mi ha colpito che in studio lui abbia foto ovunque di Cam’ron e gli altri. Spacca un sacco quella roba…

Ritratti di Alessandro Furchino Capria dal numero 48 di Rivista Studio

Ok, abbiamo parlato di G-Unit, Dipset. Ma non ci credo che non ti ascolti nulla di nuovo, dai!
No, con Vane [Massimo Pericolo, nda] per esempio ho parlato per un sacco di tempo di quanto ci gasa Lil Durk. Però ce ne sono altri di rapper nuovi che mi ascolto, in questo periodo mi piace un sacco The Kid LAROI, spacca un sacco. L’ho scoperto ascoltando il disco di Juice WRLD, fenomenale. Poi vabbe’, anche Lil Baby mi piace un sacco, anche lui spacca. Però è un momento molto strano, anche in Italia. In generale, forse un po’ anche per la musica che ascolta mia madre, Fela Kuti, a me piace un po’ tutta quella parte melodica, ti direi che mi ascolto un sacco di R&B, ecco. Prima parlavamo di ispirazioni, reference: ora far coincidere quest’onda che viene dall’America con il nostro gusto è un po’ un casino, a volte viene fuori un po’ di confusione.

Sapevi che saremmo arrivati a questo momento, soprattutto per uno che viene da fuori come me, forse è un passaggio obbligato, mi odierai: il paragone con i Co’Sang. Come prima, la cosa che mi ha colpito è l’attitudine: loro, come te, a prima vista, sembravano incredibilmente americani, senza però quella sensazione di “già visto”. Sembravano, loro, e sembri, tu, davvero americano, non qualcuno che sta copiando…
Sì, però posso dirti cosa mi stimola e trovo interessante di questo periodo? Che l’ispirazione non sia più solo americana. Pensa all’Inghilterra: la drill, un fenomeno che io amo, viene praticamente da lì. È un sottogenere pazzesco, mi fa divertire, mi mette di buon umore, ti fa ballare ovunque ti trovi. E se ci pensi è assurdo che sia forse una delle prime volte che sono gli europei a influenzare gli americani. Pop Smoke rappava come un inglese. Oppure guarda Central Cee [rapper inglese, nda], ha i numeri di un americano.

Penso che non esista intervista o situazione in cui tu non ne abbia parlato, ma è un tema, per forza. La tua città, Napoli. Ti aiuta a essere “mega real”, come dicevamo prima?
Sì, certo, secondo me sì. Perché al di là della tua musica, conta la vita reale, quella fuori dallo studio. Tra l’altro è interessante il concetto di “real”, secondo me è un po’ distorto. Tu nel pezzo puoi dire tante cose, poi però si vede la vita reale che conduci. Ma non è neanche una questione di “inventarsi” le cose, se sei bravo puoi anche inventare e risultare credibile, ma trovo che sia brutto, che non sia rispettoso. C’è chi lotta per uscire da determinate situazioni, non ha bisogno di chi ci si mette a forza per rappare.

Mi stupisce, a proposito di essere “real”, una forte dicotomia che vedo nei tuoi pezzi. Nonostante tu sia molto giovane, vedo un contrasto molto maturo tra le sonorità dei pezzi, spesso anche molto “cupe”, e i testi, che se non sono direttamente positivi sono, se non altro, propositivi, motivazionali. Per cui vorrei tornare un po’ al discorso iniziale: cos’è per te la musica? Sia da autore che da ascoltatore. È un mezzo motivazionale? Uno sfogo?
Guarda penso che questa cosa si capirà solo più avanti, quando al di là di una manciata di singoli e featuring potrò dare una visione d’insieme ai miei ascoltatori, con un mio progetto un po’ corposo. Non credo molto alla cosa dello scrivere solo quando si sta male, però mi sento di dovermi spingere oltre. Vero, ho 17 anni, ma l’età è solo un numero. In qualche modo io sento la spinta a, non so so se sia il termine giusto, “complicarmi” la vita. Lo diceva anche Jay-Z, di aver 99 problemi. Penso che un po’ tu debba averli questi problemi o se non altro immedesimarti in chi li ha.

Guarda questa cosa dei problemi tra l’altro è stato il tema centrale di un’intervista di The Weeknd degli scorsi giorni…
Ah, non lo sapevo. Ma vedi? È così. Il disagio è fondamentale. Ti devi ritrovare in quella situazione in cui ti dici: «E adesso?». Ma il disagio non è solo di vita eh, può essere anche un tentativo di evoluzione fuori dagli schemi. Penso per esempio: dopo i pezzi Hip Hop che tu definivi classici, dopo i pezzi napoletani crudi, adesso? Che si fa?

E non ti spaventa questa cosa?
Di brutto, assolutamente sì. Bisogna stare sempre in continua evoluzione. Io i pezzi come li ho fatti finora, raccontando quello che ho raccontato finora, potrei farli non ti dico con il pilota automatico, ma quasi. Però sento proprio la voglia di trovare un nuovo sound, di provare cose nuove. Sento sempre dirmi «hai 17 anni, prenditi il tuo tempo», eppure questo è il mio tempo, sento che se mi fermo, se mi adagio, è un rischio. Penso a Kanye West, secondo me con Donda farà ancora qualcosa di diverso rispetto a quello a cui siamo abituati, proverà nuove sonorità, le mischierà con le vecchie [al momento dell’intervista l’uscita del nuovo album dell’artista di Chicago sembrava ancora un miraggio, nda]. Quella cosa è fondamentale, oppure ti passa la voglia.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da J LORD (@___jlord___)

Un altro aspetto che ritorna molto nei racconti degli artisti che finora abbiamo citato come ispirazioni è quello dell’amicizia. E leggendo o ascoltando cose su di te, ho trovato che anche tu lo reputi fondamentale. Mi ha colpito, per esempio, leggere di te che dicevi «Mi sento di avere meno amici di prima». Cosa vuol dire?
Parto raccontandoti che ovviamente non ho mai avuto così tante interazioni con gli altri come nell’ultimo periodo. Persone che mi scrivono che spacco, di continuare così, che li aiuto nei momenti bui, che mi scrivono cose anche molto grandi da gestire per me. Però avvengono principalmente su Instagram, sul telefono. Dal vivo sento che le persone mi percepiscono come, boh, non saprei neanche come dirti. Ti faccio un esempio stupido: mi è capitato più volte di vedere ragazzi che erano vestiti “male” – per farti capire – che mi guardavano ma non si sono avvicinati, per paura di cosa non so. Forse del giudizio, ma mi sembra assurdo.

Quasi un timore reverenziale…
Sì, ma non capisco perché. Forse è un termine abusato, ma io dico spesso alle persone che mi fermano, che mi ascoltano, che vogliono fare due chiacchiere con me, che siamo una famiglia. Al di là dei numeri, su Spotify, dei follower, io ci credo davvero in questo concetto di famiglia, credo davvero che la mia fanbase lo sia. Nel bene e nel male eh, si crea un rapporto per cui loro si aspettano qualcosa di nuovo da te, c’è l’attesa, come alla vigilia di Natale. Si crea un patto, un rapporto, da me vogliono qualcosa e io in qualche modo ho promesso loro qualcosa. Forse si lega anche un po’ a quel concetto di mettersi sotto pressione, l’investimento emotivo è un po’ un disagio…

Ok, ora che abbiamo parlato di investimento emotivo forse è il momento giusto per parlare per l’ultima volta di “realness”, un concetto stranissimo nel rap, quasi un’arma a doppio taglio. Anche qui, secondo me, l’età ti viene incontro: uno degli ultimi tuoi brani che è uscito è con Ghali e Liberato, possiamo − semplificando al massimo − dire che sia un pezzo “pop”. Eppure non stona con ciò che hai fatto prima. Ti pesa questa cosa di “fare del pop” o non te ne frega un cazzo?
A me piace tutto. Pop non è schifo, pop è bello. Prima parlavamo di The Weeknd. Ma lo vedi? The Weeknd fa paura, bro. Vagli a dire che fa pop con la faccia schifata. Ma ti dirò, secondo me non è neanche una questione d’età. So che forse prima il pop era più “nemico” di quanto non lo sia adesso, però è per una questione di attitudine. Adesso il pop si è aperto alle sonorità che piacciono a me, a te. Dipende sempre da come lo fai.

Quindi quando prima mi dicevi “la ricerca del sound”, vuol dire che mi devo aspettare un J Lord “pop” nel futuro? O meglio: anche un J Lord pop?
Mi sembra di capire che tu ascolti J Lord, no? Cosa ti aspetti adesso da J Lord? Magari un progetto, giusto? Che te ne fotte del sound? Non mi sembra di aver fatto qualcosa di troppo simile a quello che faceva prima, vorrei continuare su quest’onda qua. È lo stesso discorso della lingua: inglese, italiano, napoletano. Come mi verrà scriverò, non fatemi porre dei limiti.