Il progetto in evoluzione di Ivano Atzori e Kyre Chenven unisce l'artigianato sardo alla volontà di raccontare un territorio affascinante e problematico.
Riassumere il percorso di Ivano Atzori non è cosa semplice, in primis per lui stesso. C’è chi lo ricorda come Dumbo, uno dei writer più importanti e conosciuti in Italia; chi come il co-fondatore di King Kong, «ufficialmente un negozio di spray per i graffiti e lo streetwear», come scrive in uno dei saggi Federico Sarica, suo compagno in quell’avventura, in realtà uno spazio sperimentale dove una certa idea di moda, community e business si incontravano; chi ancora per One Size Fits All, progetto interamente dedicato ai passamontagna con cui Atzori ha collaborato con designer come Riccardo Tisci, Vivienne Westwood, Raf Simons e Haider Ackermann tra gli altri; chi per Pretziada, piattaforma multidisciplinare fondata insieme alla moglie Kyre Chenven dopo il trasferimento in Sardegna, con l’idea di valorizzare le manifatture dell’isola mettendole il collegamento, in una conversazione alla pari, con artisti e designer (ne parlavamo qui).
Riassumere Ivano Atzori non è facile, appunto, ma alla fine, nonostante la riluttanza all’auto–celebrazione, ci ha provato lui stesso con Presente Continuo, una speciale pubblicazione realizzata in collaborazione con C.P. Company che riunisce le sue tante storie, e traiettorie, tramite fotografie, chat, biglietti, libri e saggi scritti da amici, collaboratori, persone incontrate durante questo lungo percorso che Atzori ha attraversato, e segnato, in tanti modi diversi. «Presente Continuo è l’unico tempo in cui mi ritrovo. Mai statico, sempre in mutamento. Respira, soffre, esulta. È un tempo inosservato, incessante davanti ai nostri occhi. Presente Continuo è un progetto orizzontale, collettivo, dove persone che stimo e amo hanno dedicato il loro prezioso tempo. Presente Continuo è la prova della mia resistenza. Della mia fragilità e della mia implicazione. La mia eccessività silenziosa», scrive Atzori stesso nel manifesto del libro, che è già da collezione. Incontro Ivano a Milano qualche giorno prima della presentazione di Presente continuo. Arriva con sua figlia Antioca, ragazza incredibilmente sveglia, che ci ascolta con pazienza mentre chiacchieriamo in una città che alla mattina sembra ancora lenta, nonostante siamo in una zona centralissima. Ogni tanto ci fa delle domande, soprattutto quando parliamo di giovani, ed è interessante osservare la dinamica tra lei e il padre, il modo in cui lo/ci mette alla prova quando cerchiamo di fare delle previsioni sulla sua generazione.
In quest’intervista abbiamo parlato di com’è stato riprendere in mano tutte quelle esperienze, ritrovare tutte le persone conosciute negli anni con le quali si è fatto qualcosa, e guardare a come il tempo ha cambiato quei momenti di condivisione. Abbiamo parlato di come moda e contro-culture si scontrino, il più delle volte, invece di incontrarsi, di cosa significano per davvero quelle contro-culture e del valore che hanno certi capi e accessori del vestire quotidiano, e di come il fare le cose si lega inevitabilmente a un’idea di creatività che prescinde il business, ma che può incoraggiare industrie più sane, meno accumulatrici e voraci, nel senso che possono mantenere le persone, e le loro vite complicate, al centro della conversazione. Abbiamo parlato di come tutte queste cose rientrino nell’essere culturalmente rilevanti, ma per davvero.
ⓢ Ciao Ivano, direi di iniziare dal perché hai sentito il bisogno di raccogliere l’esperienza di una vita, o di più vite, in questo libro.
Se devo riassumere, credo siano tre i motivi principali che mi hanno spinto a iniziare questo percorso. Il primo è che la cosa che mi ha sempre affascinato di più dell’appartenere a quella che la società definisce “underground” o “contro-cultura” è che non si tratta di qualcosa che è solo contro la cultura dominante, ma è a tutti gli effetti un’alternativa reale a quella cultura. Poi sai, penso che nessuno avrebbe fatto un libro su di me, sulla mia storia, ma parlando con le persone più giovani ho capito che c’era un interesse a scoprire determinate cose, a sapere dove e come e perché erano nate. Infine c’è un motivo strettamente personale, e cioè quello di mettere ordine nel mio percorso personale, nelle mie esperienze che hanno attraversato tanti mondi diversi e che per questo spesso hanno creato anche della confusione, persino in me. Ho sentito la necessità di fermarmi e ripensare a tutto quello che avevo fatto fino a oggi, al presente continuo che ho vissuto, ai miei tentativi, fallimenti, obiettivi raggiunti. Questo libro mi ha aiutato a mettere le cose in ordine e, di conseguenza, a scartare tutto quello che non era più necessario, facendo emergere invece quello che, secondo me, aveva senso trattenere e portare avanti.
ⓢ Mi spieghi perché Presente continuo? Cosa significa per te?
È un titolo che è molto legato alla mia storia, al crescere in una città come Milano dove il marketing e la comunicazione sono priorità. Mi piace lavorare con dei titoli che siano evocativi, che mi aiutino a guidare la narrazione di ciò che faccio e Presente continuo ha anche dentro di sé una certa idea di retroattività, di restituzione. Io di fatto prendo tempo con ogni progetto che faccio, perché le cose ben fatte hanno bisogno di essere ponderate e hanno bisogno di tempo anche per essere recepite, comprese. L’idea di un presente continuo mi pare riassumesse tutte queste cose qui. È anche un’attitudine, una forma mentis.

Ivano Atzori. Foto di Enrico Rassu

Risk, Gee &, Chiste. Outtake “One Size Fits All”, 2010
ⓢ Com’è stato rimettere mani alle foto, ai testi, ai ricordi per la stesura di Presente continuo? E come hai scelto le persone a cui hai affidato i saggi che compongono il libro?
È stato un lavoro lungo e delicato, perché innanzitutto mi sono reso conto di aver fatto tante cose e spesso avevano una certa intangibilità. “Creare” non vuol dire necessariamente realizzare prodotto o opere d’arti. Il mio “creare” è stato spesso invisibile – a Milano, ho connesso mondi distanti tra loro, ho diffuso entusiasmo, ho condiviso una idea di esistenza che potesse generare nuove energie. C’era tanto materiale da recuperare, dai primi anni Novanta fino ad oggi e riguardandolo ho visto come ho attraversato le diverse epoche, epoche che sono state condivise con persone, epoche in cui ci sono state tante metamorfosi e cambiamenti. È stato complesso guardare a questa trasformazione, perché inevitabilmente finisci per cercarci un significato e forse non si dovrebbe fare. Questa è una cosa che mi hanno insegnato i graffiti: un’azione, una volta compiuta, non deve appartenerti, non deve essere solo tua, ma devi accettare il fatto che quell’azione ha poi una vita propria, un po’ come succede con i figli. Bisognerebbe mantenere uno sguardo distante, darsi l’opportunità di guardare le cose da lontano, con introspezione. Il materiale del libro è frutto del lavoro di tante persone che mi hanno accompagnato negli anni, fotografi, autori, compagni di strada: ho pensato sarebbe stato interessante chiedere a loro di portare i loro ricordi, le loro esperienze e riflessioni, anche se questo poteva innescare dei meccanismi interpersonali non sempre facili da gestire.
ⓢ Quello che mi interessa di più raccontare della tua storia, e che trovo sia l’unicità che ti contraddistingue, è che tutto quello hai fatto (con i graffiti, con King Kong, con One Size Fits All, con Pretziada) mantiene sempre la stessa tensione e la stessa capacità di intuire cosa sta succedendo attorno a te. Credo sia una questione di forma mentis, come dicevi prima, ma anche di metodo, che si muove attraverso discipline diverse e scene diverse. Qualcosa che la moda prova a fare ma che non sempre le riesce.
Mi fa piacere che tu possa riconoscere l’esistenza di quella tensione. Mi rifaccio a quella intangibilità menzionata prima, amo analizzare i luoghi che vivo con profondità, comprenderne la loro condizione. Osservo le persone e le loro necessità, il loro stato emotivo. Creo paragoni con me stesso, è il mio unico strumento per potermi dare delle risposte. Il mio approccio alla progettazione tiene sempre conto di questo termometro sociale, il risultato è una restituzione. Tornando alla tua domanda, la tensione è sincera e quindi percepibile. In molti si sentono coinvolti, toccati e se vuoi, disturbati. Oggi, dopo vent’anni, mi accorgo che la mia tag è un simbolo, un segno che ha creato un movimento di inclusione. La moda spesso non tiene conto degli infiniti mondi che la circondano. Offuscata dalla sua autoreferenzialità, la sua narrazione diventa un monologo, una proposta unilaterale, dove l’unico strumento che gli rimane a disposizione è la forza della seduzione. Tutto questo non è sano, e per niente romantico, aggiungo.
ⓢ Oggi gli oggetti che provengono dalla cultura street (cappellini, felpe, sneaker, passamontagna) sono entrati a pieno diritto tra i fondamentali del guardaroba di tutti, indistintamente, così come la vocazione alla multi disciplinarietà di cui abbiamo parlato. Ma se guardi alla curva dello “streetwear”, come lo chiamano, e al punto in cui ci troviamo oggi nella moda, che cosa ci vedi?
Il problema è il concetto di guardaroba. Un concetto statico, chiuso, esclusivo. Che mette in competizione le persone. Non mi è mai appartenuto. E’ un luogo buio e respingente. Bisogna parlare di attitudine e autenticità. Bisogna parlare di marciapiede ed eleganza. Bisogna parlare di vandalismo in relazione all’architettura, bisogna parlare di autorevolezza in disputa con l’ironia. Di contemporary design e pollai. Immaginare questi linguaggi apparentemente distanti dialogare tra loro, perché è questo ciò che accade realmente. Con il King Kong per me, e sicuramente per Federico, era dare voce alla mia capacità di intercettare storie affascinanti, progetti che avessero una luce speciale, unica, e proporli a Milano per cosi iniziare a creare piccole crepe all’interno di un sistema omologato, anacronistico. Con Pretziada, insieme a Kyre, stiamo facendo la stessa cosa oggi, restituendo una nuova idea di geografia. La moda oggi un gran pettegolezzo. E’ un grafico impazzito a cui i giovani come i miei figli non partecipano. Vorrei da una parte tornare a vedere urgenze e contenuti e dall’altra vedere il sistema ammettere la propria disfatta e accogliere con più professionalità e ascolto. La moda, senza i brand, esisterà comunque perché la necessità di esplorare e di esplorarsi non cesserà mai.
ⓢ Nei primi anni Duemila a Milano sono successe tutte le cose di cui abbiamo parlato e gli effetti di quell’energia sono ancora visibili. C’è ancora quell’energia in città, secondo te?
Io credo che ci sia, ma come dicevo prima ci vuole del tempo per comprendere bene quello che sta succedendo oggi. Prima di dire che la città è morta dobbiamo aspettare dieci anni, vent’anni per capire se effettivamente questa energia è riuscita o riuscirà a lasciarsi qualcosa, se ha costruito una sua rilevanza culturale. Credo che in questo momento ci siano delle possibilità di riflettere su tutta una serie di cose, quindi mi auguro che questa possa essere un’opportunità per capire quanto le azioni, l’originalità, il coraggio di fare qualcosa possano influire sulla progettualità che possa auto sostenersi, anche in termini economici, e creare un’industria, magari ridimensionata nelle aspettative. Di prodotti negli scaffali ce ne sono già abbastanza.
ⓢ Su cosa stai lavorando adesso?
Mi sono fatto un appunto su questa domanda, perché vorrei fosse un po’ una dichiarazione d’intenti. Vorrei mantenere quella predisposizione all’ascolto che mi permetterà di lasciare questa conversazione e portare con me le cose che mi hanno fatto riflettere. Sono sicuro che Presente Continuo sarà in grado di generare domande e reazioni. È da lì che si creano cose nuove, no? Quella è la scintilla che accenderà nuovi focolai.
In apertura: Ivano Atzori. Foto di Anna Adamo

Il film Disney-Pixar si intitola Gatto, è ambientato a Venezia e lo dirige Enrico Casarosa. Il film al quale viene accostato lo potete indovinare facilmente.