Cultura | Personaggi

La gigantesca scritta Dumbo

Negli anni ‘90 e Duemila era la tag più famosa d’Italia. Oggi Ivano Atzori vive in Sardegna ed è tornato a Milano per presentare la sua prima capsule collection, fatta con IUTER.

di Davide Coppo

Se sei stato un ragazzino negli anni Novanta a Milano, anzi, a Milano e in periferia, quel nome di cinque lettere ti ha accompagnato dappertutto. Io iniziavo le elementari nel 1991, ogni giorno facevo il tragitto da Trezzano sul Naviglio, periferia sudovest della città, fino alla città vera e propria. I miei compagni di classe, i miei amici, vivevano allora al Giambellino, a Quarto Cagnino, a San Siro o a Quarto Oggiaro, tutti quartieri difficili, come si dice. Case popolari, motorini nei parchetti, nessuna concessione a quello che, anni dopo, si sarebbe chiamato decoro. Scritte sui muri, naturalmente. Soprattutto una: Dumbo. Era una specie di mito, tra i miei amici delle elementari e delle medie. Il king della street art, pensavamo.

Ci ho messo in realtà anni a capire cosa significasse una tag, poi sono andato all’università, non frequentavo più quegli amici né quei quartieri, e all’improvviso, per caso, mi sono ritrovato davanti a lui. Dumbo. Non la scritta, ma la persona. A quel punto lui non era più Dumbo, ma Ivano e basta, almeno pubblicamente. Ivano Atzori viveva già in Sardegna, da dove vengono i suoi genitori, e dove vive ancora adesso, con sua moglie e i figli. All’epoca stava per fondare una cosa che si chiama Pretziada, totalmente diversa: un progetto di ricerca che ospita residenze creative in cui i designer si immergono nella cultura e nella storia del territorio prima di elaborare un nuovo oggetto che viene poi realizzato con la collaborazione degli artigiani locali.

A giugno 2023, per qualche giorno, ho rivisto Ivano a Milano: è in città per presentare la collezione “Milano Imperfecta” fatta in collaborazione con IUTER. Una capsule che, dice il comunicato stampa, «ha l’obiettivo di rappresentare le tante voci che le città spesso tendono a non ascoltare, perché considerate marginali». Ma racconta, più che celebrare, anche gli anni in cui Dumbo era parte della toponomastica di Milano. Sui muri, sui treni, sui cavalcavia, nelle metropolitane. Un po’ partendo da quello, un po’ per tirare le fila di un ventennio, ho chiesto a Ivano Atzori di quando era Dumbo e di come è cambiato adesso. Come prima cosa, ho scoperto che è cresciuto nelle stesse vie in cui sono cresciuto io.

Ecco perché vedevo così tante scritte Dumbo, nel tragitto tra casa e scuola.
I miei sono immigrati. Hanno affittato una casa a Trezzano sul Naviglio, e io sono cresciuto lì, in quei palazzi di classe operaia. Una periferia che non si capiva bene neanche cosa voleva essere. Devo dire che non c’era molta divisione di classe, ed è stato un bene perché questa cosa ti forma. In periferia non è che puoi decidere chi avere attorno. All’età di 18 anni sono scappato, mi sono trasferito a Milano.

Un tempo facevi le tag illegali, adesso quelle tag sono sui cartelloni pubblicitari per promuovere questa collezione. Che te ne pare?
Questa cosa dei cartelloni è paradossale, perché è cool esser visto da centinaia di persone e lanciare un messaggio, ma secondo me diventa un cortocircuito. Oggi è accettato che io possa mettere una tag all’interno di una cornice, pagando, e la gente lo accetta perché sto presentando una nuova realtà. Follia.

Ma c’è ancora ancora nella tua vita quella storia di strada? È una finestra sempre aperta oppure ogni tanto si riapre e poi si chiude?
Più che finestra, sono demoni. Nel senso che obbiettivamente io ho dovuto soffocare la mia necessità di manifestare il mio lato artistico. L’ho dovuto fare, non lo nascondo, perché ho cresciuto due figli, oggi sedicenni, che non potevano permettermi di essere portatore di guai all’interno di una famiglia, e grazie al cielo non è successo.

Cosa volevi fare con questo progetto con IUTER? Soprattutto, a che punto sei nella tua ricerca artistica: sei arrivato da qualche parte per fermarti?
Se mi chiedi se c’è un punto d’arrivo ti dico che non esiste, nel senso che io non me lo sono mai posto. Il mio percorso non mi pone il problema di dover per forza raggiungere un traguardo. C’era una necessità ancora una volta di mettersi in gioco, dimostrando, a me stesso in primis, che questa condizione poliedrica potesse ancora manifestarsi e portare dei contenuti nuovi. In questo caso attraverso l’abbigliamento. È un pallino che ho da molti anni: nel 2001 dopotutto ho aperto il King Kong [storico concept store di Milano, fondato con Federico Sarica, ndr]. L’abbigliamento è portatore di una posizione sociale, o almeno lo era.

I social, da dieci anni a questa parte, si sono presi tutto, anche le sottoculture. Cosa ne pensi della scomparsa dell’underground, vista da dove sei adesso?
È un tema molto complesso, ma è giusto farlo emergere. Ma quello che io facevo non poteva essere definito ancora underground. Anzi, io ho fatto di tutto per far sì che emergesse. Se uno tempesta la città di una tag, di un nome o di un codice non sta dicendo a stesso: “Appartengo all’underground”. Non è vero. È un po’ triste, o meglio artisticamente paradossale che quelle tag oggi siano accettate e siano diventate un sistema economico, giornalistico, estetico. E lo so che io sono responsabile di questo, forse tra i più responsabili. Mi sono rotto di vedere il sistema moda che si appropria culturalmente di linguaggi che non gli appartengono. Nel mio caso posso rivendicare quell’appartenenza, e il diritto di utilizzarla pagandone poi le conseguenze. Questa secondo me è la differenza sostanziale che c’è tra questo progetto e altri.

Cosa pensi del tipo di città che Milano è diventata oggi? Soprattutto se la dialettica tra illegalità e urbanistica può generare ancora cose interessanti, oppure se il decoro ci ha soffocati così tanto che non vedi più spazio per niente.
Effettivamente il decoro ha indottrinato in modo massiccio tutti i milanesi. Credo che in un certo senso una risposta sovversiva, distruttiva possa avere ancora senso e dare linfa nuova alla città: distruttiva proprio in termini di abbattimento di perimetri. Sarà sempre necessaria, soprattutto in un contesto come Milano, dove siamo tutti pronti a parlare di inclusività, ma stiamo rischiando di rimanere tutti esclusi.

Qual è il giudizio sulla tua opera, su ciò che tu hai fatto con la strada, con i muri. Cosa pensi di aver lasciato?
C’è un lascito forte, l’ho notato con i social media. Non pensavo così forte: addirittura ci sono generazioni che non hanno neanche visto e vissuto direttamente quell’epoca, ma la apprezzano. Mi auguro in un certo senso che questo lascito possa ricordare, ancora una volta, che la realtà non bisogna necessariamente accettarla per come viene proposta. Il messaggio più grande che ho cercato di lanciare è quello per cui ognuno può essere protagonista della propria vita e creare la propria realtà, anche in circostanze molto complesse. Milano l’ho vissuta in un momento in cui non lasciava moltissimo respiro a tante forme di espressione libere, avevamo amministrazioni che si imponevano come unico obiettivo quello di soffocare determinate attitudini. Nonostante siano passati tanti anni sono riuscito a trasmettere un lascito importante, ancora molto vivo.

E quanti problemi ti sei tirato addosso.
Un’infinità. Avevo sindaci contro, i massimi sistemi della politica contro. Quando uno ha la politica non dalla sua parte è rovinato, a quel punto diventi strumento di minaccia e pupazzo del tuo stesso essere, della tua stessa battaglia. Quindi a quel punto ho preferito scappare e assentarmi per un po’ negli Stati Uniti, per dedicarmi alla vita da padre e compagno.

Il titolo Milano Imperfecta: come nasce?
Nasce perché io mi sono sempre sentito così, soprattutto in età giovane. Mi sono sentito sempre un po’ marginale rispetto a quello che doveva essere una voce ascoltata. Che Milano accetti che l’imperfezione è una possibilità di crescita ed esistenza fondamentale.

Senti mai nostalgia?
Assolutamente no.