Attualità

Quanto è lontana Istanbul?

Su attentati e confini culturali: un dialogo con Tomaso Biancardi, che vive in questa città a noi così vicina ma così distante.

di Cristiano de Majo

Nato a Milano nel 1981, Tomaso Biancardi è uno scout letterario, un traduttore e collabora con Mondadori, è anche socio della libreria indipendente Verso. Vive a Istanbul da due anni, come dice lui, «per amore». Alla luce dell’attentato all’aeroporto Ataturk, lo abbiamo raggiunto via mail per farci raccontare cosa significa vivere a Istanbul oggi.

 

ⓢ Tomaso, quando hai incominciato a vivere a Istanbul e perché, quanto tempo ci passi? Ha a che fare con il tuo lavoro?

Mi sono trasferito a Istanbul, da Londra, dove vivevo, nel gennaio del 2014, quindi poco meno di un anno dopo le proteste di Gezi Park. Sono venuto per… amore, ovviamente! Di una ragazza turca, di Izmir, che vive a Istanbul da più di dieci anni. Niente a che fare con il mio lavoro di scout letterario che faccio a distanza, sempre per la stessa agenzia per cui lavoravo a Londra. Passo in Turchia circa metà del mio tempo, e l’altra metà per lo più in Italia, a Milano, quando non sono impegnato per fiere del libro in giro per l’Europa.

 

In che quartieri vivi e che atmosfera si respira oggi in particolare e di questi tempi in generale?

Vivo nella parte europea, non lontano da Taksim, più o meno al confine tra il quartiere di Beyoglu e quello di Besiktas. È una stradina che sale molto ripida dal mare, residenziale, con una scuola, una piccola libreria, e un negozio di alimentari. È tranquilla e anche oggi non sembra diversa dal solito, ma appena si sale su verso Taksim, si capisce che l’atmosfera non è quella di una città qualsiasi: l’ambasciata tedesca è circondata di transenne e custodita da un mezzo blindato con cannone ad acqua sul tetto e polizia in tenuta antisommossa. Si potrebbe pensare che sia dovuto all’attentato all’aeroporto, ma in realtà è così da un paio di settimane, da quando, cioè, il governo tedesco ha riconosciuto il massacro degli Armeni del 1919 come genocidio. Per dire che l’Isis, o chiunque sia il responsabile dell’attacco di ieri all’aeroporto, è solo uno dei tanti problemi di questo Paese e forse non il più grave. L’atmosfera che si respira è quella della repressione e della violenza, condite di lacrimogeni: domenica è stato il turno dell’ennesimo Gay Pride disperso dalla polizia (la municipalità lo aveva vietato, ma degli attivisti si sono ritrovati comunque a sfilare); qualche settimana fa è toccato ai tifosi del Besiktas (noti per l’antipatia nei confronti nel governo) scontrarsi con l’autorità durante i festeggiamenti per lo scudetto vinto. Per il primo maggio e il terzo anniversario di Gezi Park ci sono stati altri disordini, sempre repressi. Il terrorismo – i terrorismi, in realtà, perché c’è quello di radice islamica e quello curdo – si inserisce in questo clima già teso. Ma sicuramente ieri è stato uno shock enorme: per me, per la mia compagna, per Istanbul e per la Turchia. Uno shock che si ripete ormai ogni sei settimane, ma non per questo meno traumatico, e non so neanche se sia proporzionale al numero di vittime. In un certo senso lo si aspettava un attentato in aeroporto – era strano che non fosse ancora successo – ma una simile strage ha tolto il sorriso a tutti.

TURKEY-WEATHER-FOG

 La città sta cambiando? La vita è cambiata?

Istanbul sta cambiando ed è già cambiata. Innanzitutto cresce: nel 2000 gli abitanti erano 10 milioni, nel 2014 – l’ultimo censo – erano già 14. Alcuni stimano che in realtà siamo più vicini ai 20 milioni. Il tasso di crescita, al 3,45%, è il più alto tra tutte le aree metropolitane del mondo. Le periferie si espandono a vista d’occhio, basta frequentare regolarmente come faccio io il secondo aeroporto, Sabiha Gokcen, nella parte asiatica: non molto tempo fa era fuori dalla città, adesso è stato inglobato. Si sta anche modernizzando: in due anni, da quando sono qui, è stato costruito un terzo ponte sul Bosforo, almeno due immensi centri commerciali, una rete di tram e metropolitane (inclusa una sotto il Bosforo) di decine di chilometri, in continua espansione. Si sta hipsterizzando, anche, almeno in centro, e, purtroppo, si sta islamizzando: uno dei motivi dietro alle proteste di Gezi Park nel 2013 era una nuova legge che vietava la vendita di alcolici (esclusi i bar e ristoranti) dopo mezzanotte. La municipalità non concede più nuove licenze per vendere alcolici (mi hanno detto e io ne trovo conferma nel fatto che la miriade di nuovi locali hipster che aprono in continuazione servono la birra solo di nascosto).

Le proteste di Gezi Park, nel maggio del 2013, sono state lo spartiacque tra i tempi felici e quelli di adesso. Prima – mi dicono sia i turchi che gli amici che erano venuti qui da turisti – Istanbul era una città viva, bella, allegra, piena di musica, arte, festival, eventi. Gezi è stato, se vogliamo, l’apice di un percorso che ha portato la gioventù turca liberale a sentirsi parte di una società più ampia, europea e mondiale, che condivideva i suoi stessi desideri e valori (primi tra i quali quelli di divertirsi e fare shopping, ma non solo). Il governo ha deciso di reprimere le proteste con la violenza e promuovere uno stile di vita più consono ai valori islamici (senza rinunciare allo shopping, però). Da lì si è sviluppata l’estrema polarizzazione che adesso caratterizza socialmente e politicamente il paese: da una parte la maggioranza conservatrice, musulmana, pro-governativa, tendente al nazionalismo (anche se questa è una tendenza condivisa da tutta la popolazione, in gradi diversi); dall’altra quella che fino poco più di un decennio fa era la maggioranza – ultra laica, pro-Europa, anti-Erdogan – ma che adesso si sente marginalizzata, oppressa e in pericolo.

Il secondo spartiacque sono state le elezioni di un anno fa, quando il partito filo-curdo, HDP, raccogliendo i voti delle minoranze oppresse (curdi, gay, liberali che non credevano più nel vecchio partito repubblicano), è riuscito per la prima volta nella storia a superare lo sbarramento del 10% e a entrare in parlamento togliendo la maggioranza al partito di Erdogan che ha reagito, con un cinismo degno del peggior dittatore, riaccendendo la guerra con i curdi che lui stesso aveva contribuito qualche anno fa, con grande coraggio e qualche calcolo politico, a far cessare. Lo scopo – raggiunto – era quello di far passare il partito curdo e i suoi leader come terroristi, riaccendendo allo stesso tempo il tradizionale nazionalismo turco anti-curdo. Risultato: nuove elezioni e nuova maggioranza per il partito di Erdogan, che da allora non si è più fermato nell’affermazione del suo potere, sempre più repressivo, sempre più personale. È sempre l’estate scorsa che è cominciata questa ondata di attacchi terroristici, prima nel sudest del paese, poi ad Ankara, in ottobre, e a Istanbul.

Concerns For Tourism Grow After Recent Bombings

 Registri un eventuale cambiamento anche nell’interazione con le persone? Che tipo di persone frequenti tu e che cosa pensano di questo momento storico? Si può tracciare una differenza tra expat e turchi?

La società turca è adesso completamente polarizzata: sono due Turchie che non si parlano e si temono. Io conosco solo turchi che non hanno mai votato per Erdogan, neanche quando sembrava un “conservatore moderato” e faceva anche cose buone per il Paese. La mia compagna, come ho detto, è di Izmir, il baluardo del partito laico repubblicano di Ataturk e dell’europeismo (si avanzava, negli ultimi tempi, la proposta di una IzmirExit, ma il neologismo non ha l’appeal dell’originale). Lei, come i suoi amici e parenti, prova tristezza, paura e rabbia, ancora di più in quanto donna in una società sempre più conservatrice in cui esponenti del governo dicono, senza sentirsi in dovere di scusarsi in seguito, che le donne non devono ridere in pubblico, che le donne incinte dovrebbero stare a casa, che se si vestono così per forza poi le violentano, eccetera. È convinta che Erdogan stia portando (o abbia già portato) il Paese alla rovina e alla guerra (civile, con i curdi, e fuori, con Russia, Isis, Iran, chi più ne ha…) e teme un futuro tipo Siria. Allo stesso tempo, sa anche reagire con grande forza e ironia a quello che sta succedendo al suo amatissimo Paese: senza più giornali o televisioni ad alzare la voce contro il governo (sono tutti in prigione o sotto processo o per avere violato la nuova legge antiterrorismo – più o meno basta avere un lontano cugino simpatizzante per il PKK, ma spesso neanche quello – o per avere insultato il presidente, che è reato), i turchi si sfogano sui social media con grande humour e spirito di solidarietà anti-governativa. Serve a poco nella pratica, ma tiene salda l’idea di una società civile che non si farà piegare facilmente. Quanto agli expat, la città si sta un po’ svuotando, almeno dal mio punto di vista aneddotico, ma non ne conosco tanti.

 

  La sensazione è che Istanbul si sia allontanata dall’Europa per colpa del terrorismo, più che per responsabilità del governo; da turista, da persona che è stata diverse volte a Istanbul, avrei paura di andarci adesso, ci penserei seriamente quanto meno. Che idea hai tu, dall’interno?

Il terrorismo ha spaventato tanta gente (colpendo in modo drammatico il settore turistico che già soffre per il boicottaggio voluto da Putin dopo l’abbattimento dell’aereo russo, anche se Erdogan ha appena chiesto scusa). Lo vedo anche dal numero di visite di amici e parenti che ricevo: non viene più nessuno a trovarmi, e lo capisco, anch’io sono spaventato! Ma il terrorismo, e soprattutto la percezione del terrorismo, è responsabilità del governo. Il terrorismo curdo, che tende a colpire obiettivi militari (ma che non risparmia i civili che si trovano nelle vicinanze), è una diretta conseguenza della sciagurata decisione di Erdogan di riprendere la guerra con la minoranza curda (per tre milioni di voti). L’Isis, ormai è certo, è stato segretamente supportato dal governo turco a lungo, nell’altrettanto sciagurata equazione “i nemici dei miei nemici (curdi, Assad) sono miei amici”. Ci sono innumerevoli teorie complottistiche (non del tutto inverosimili) sui reali responsabili dei vari attentati. Sicuramente, se non altro, il governo non ha esitato a usarli politicamente a proprio favore (facendo passare una legge antiterrorismo che permette di reprimere qualsiasi dissenso o incolpando i curdi anche quando di colpe non ne avevano). La mia paura – di nuove bombe, di nuovi attentati – viene anche dal fatto che non mi fido per niente di questo governo e della sua volontà di fermarle. Dall’interno, diciamo così, c’è un’altra questione che probabilmente dall’Italia non si vede. Non è solo Istanbul che si è allontanata dall’Europa, ma è anche l’Europa che si è allontanata dalla Turchia. È un allontanamento che ai turchi, i turchi che conosco io, fa molto male: il rifiuto da parte dell’Europa di fare entrare la Turchia nell’Unione bruciava allora, ma più per motivi di orgoglio nazionale che altro. È stato il recente accordo sui rifugiati a dare il colpo di grazia alle speranze dei turchi (i “miei” turchi, ovviamente) di liberarsi in qualche modo di Erdogan. Non che credessero che l’Unione Europea avesse il potere o anche la voglia di cacciarlo, ma si sono sentiti completamente abbandonati: l’accordo ha dato a Erdogan ancora più sicurezza e ha legittimato le sue politiche repressive.

Commuting On The Bosphorus Where East Meets West

 Nella tua vita quotidiana in città quanto è presente la sensazione di trovarsi esattamente su una frontiera? Istanbul frontiera tra occidente e oriente lo è sempre stata, ma oggi forse questo dato assume connotati più sinistri…

Se Istanbul è una frontiera non è una frontiera porosa. La mia sensazione, da come vivo io la città e da come la vive la gente che frequento, è che c’è un muro: o stai di qui, o stai di là. Di qui è l’occidente – più realista del re – di là non importa cosa c’è. Quello che c’è di là fa paura ed è meglio se sta di là. Geograficamente non è così, ovviamente: il quartiere più radicalizzato di Istanbul si trova nella parte vecchia, dal lato europeo, mentre il vero quartiere hipster, Moda, sta in Asia, dall’altra parte del Bosforo. Quindi ci si trova a passeggiare e trovare tutti i contrasti che hanno reso celebre la città. Ma non c’è dialogo tra queste due anime della Turchia, è un frontiera chiusa. L’altro problema con questo concetto di frontiera, o dualismo, è che ci sono altri elementi in gioco, e ignorarli vuol dire fare il gioco di chi vuole cancellare le complessità: i curdi, per esempio, da che parte stanno? In tempi più pacifici, due anni fa, ho fatto un viaggio nel sudest della Turchia, in quello che i curdi chiamano Kurdistan Settentrionale dove ho incontrato persone che lottano per essere riconosciuti dall’Europa, che si sentono molto più affini a noi che non ai vicini turchi o men che meno arabi, anche linguisticamente: il curdo è una lingua indoeuropea mentre il turco non lo è. Ma ci sono anche curdi che, memori della repressione che hanno subito per novanta anni per mano dei turchi che noi oggi vediamo come i “buoni”, credono che Erdogan sia comunque meglio di chi c’era prima. Preferirei che Istanbul fosse un punto d’incontro, piuttosto che una frontiera. Ed è quello che era, forse più che mai nella sua storia, fino a qualche anno fa, pur con tutte le sue contraddizioni. Lo è ancora, per certi versi: l’aeroporto Ataturk, quello dove sono morte 41 persone ieri, ha da poco superato quello di Francoforte per numero di passeggeri ed è ora il terzo d’Europa. È forse anche questo che i terroristi hanno voluto colpire, l’idea di un luogo di passaggio e di incontro, nella speranza di farci alzare nuove frontiere.