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I Labubu diventeranno un film e a dirigerlo sarà Paul King, il regista di Paddington e Wonka Se speravate che l'egemonia dei Labubu finisse con il 2025, ci dispiace per voi.
Un reportage di Vanity Fair si è rivelato il colpo più duro inferto finora all’amministrazione Trump Non capita spesso di sentire la Chief of Staff della Casa Bianca definire il Presidente degli Stati Uniti una «alcoholic’s personality», in effetti.
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LinkedIn ha lanciato una sua versione del Wrapped dedicata al lavoro ma non è stata accolta benissimo dagli utenti «Un rituale d'umiliazione», questo uno dei commenti di coloro che hanno ricevuto il LinkedIn Year in Review. E non è neanche uno dei peggiori.
C’è una specie di cozza che sta invadendo e inquinando i laghi di mezzo mondo Si chiama cozza quagga e ha già fatto parecchi danni nei Grandi Laghi americani, nel lago di Ginevra e adesso è arrivata anche in Irlanda del Nord.

XIII è la prima uscita della nuova etichetta di C2C e Stone Island

Intervista ad Alessio Capovilla, in arte XIII e già membro del collettivo Gang of Ducks, sul suo nuovo Ep Invrs Solaria, prima uscita di una nuova etichetta.

11 Marzo 2021

Venerdi 5 marzo. Occhi azzurri vitrei che riflettono il blu sopra Torino. Capelli lunghi coperti da un berretto dello stesso colore del cielo, solo più profondo. In diffusione una playlist di musica tradizionale persiana. Alessio Capovilla, in arte XIII, perché «di tutte le porte che potevo aprire, ho scelto la tredicesima», ci accoglie in casa sua: una vecchia panetteria che ha rilevato per farne la propria dimora e il proprio studio. Un loft, praticamente, che mostra ancora le scorie di un vecchio incendio, i graffi del fuoco sui muri e sulle piastrelle, ma anche i tratti della personalità del nuovo inquilino, fra macchine del caffè vintage, Vespe e biciclette parcheggiate indoor, un tornio di fianco alla porta del bagno. Questo luogo in cui si produceva il pane non ha perso il suo spirito nelle mani dei nuovi affittuari: il cibo qui continua a essere una cosa importante.

Alessio non è solo il musicista che sono venuto a intervistare, ma anche un raffinato esploratore del mondo e un notevole cuoco. Menù post chiacchierata: zuppa di legumi in pentola di ghisa petromax, carciofi e cavolo romanesco in tajine con pepe giamaicano, il tutto in ciotole di terracotta fatte a mano dalla compagna di Alessio, Anastasia (la coppia, assieme ad altri due soci, ha aperto il locale Isola in città: chiuso per pandemia). Beviamo molto bene, ma non vi dico cosa. Dopo uno speciale caffè El Salvador Finca Vista Hermosa, altra specialità della casa, viene proclamato il tempo del kimchi. Non so cosa sia. «È un piatto coreano fatto di verdure fermentate», mi spiega mentre appoggia sul tavolo un barattolo arancione fluo. Lo annuso, sa di acetone, ma lo provo con lo stesso brivido della prima sigaretta. Mi piace. «Se senti che ti smuove qualcosa, vuol dire che c’era da smuovere».

Invrs Solaria è il titolo dell’Ep che esce per l’etichetta discografica di C2C Festival e Stone Island, una collaborazione che ha l’obiettivo di promuovere la musica indipendente. Per XIII è un nuovo capitolo della sua produzione solista, una delle tante caselle dell’attività polimorfa di questo producer e sound designer già membro del collettivo Gang of Ducks. Un Ep romantico e sognante di quattro tracce, tre in studio più un estratto live. Un disco affascinante di future digital folk, post new age, musica elettronica che replica la musica organica. Chiamatelo come volete, persino trap medievale: «Oreferirei che non l’ascoltasse nessuno più che definirlo così», scherza Alessio. L’Ep esce oggi ma lui sembra quasi essersene dimenticato. Quello che può sembrare un vezzo è in realtà un modo di essere, allo stesso tempo dentro e fuori il presente. «Devo ancora fare il post su Instagram», sorride.

ⓢ Sensazioni?
Ho più volte vissuto momenti di bellezza riguardo l’uscita di un mio disco, ma mi accorgo anche di essere distaccato. Il momento di più grande emozione è ricevere il feedback di un amico o un musicista che rispetto. Invrs Solaria è un disco veramente mio, diretto e molto sincero. Volevo dialogare con persone che potessero fruirne in maniera più ampia. Solitamente i miei brani non hanno una struttura definita, invece qui ho cercato di dargliene una. Spero che finalmente qualcuno possa capire quello che faccio.

ⓢ L’EP esce in digitale per l’etichetta di C2C Festival e Stone Island. Una combo importante.
Tutto è partito dalla prima parte di un’installazione con movimenti musicali in quadrifonia in cui avevo puntato un occhio di bue all’interno del Roseto dei giardini della Reggia di Venaria, intitolata proprio “Inverso”. La seconda parte avvenne a febbraio a Milano nello store di Stone Island, in compagnia dell’artista Ken-Tonio Yamamoto: dalla registrazione di quella performance ho poi tratto i sample con cui ho fatto i tre pezzi dell’Ep e incluso un estratto live.

Perché “Inverso”?
È un nome che ho dato a un determinato periodo in cui cercavo di invertire la marcia. Stavo andando in una direzione e me ne sono stancato. Ho preso delle sbandate: mi ero allontanato da me stesso, “Inverso” segna invece il ritorno verso chi sono veramente. Volevo cercare di comprendere più profondamente chi fossi. Volevo analizzare lo storico della mia generazione e della mia famiglia: capire dove sono nati i miei parenti e cosa hanno fatto. 

Hai origini russe.
Mio nonno era siberiano, mia mamma pure. Mio papà invece è veneto. Mia mamma ha iniziato a lavorare in Brasile, poi si è spostata sempre per lavoro a Torino, dove ha conosciuto mio padre.

ⓢ Da questo punto di vista, sei un figlio della dimensione industriale di questa città.
Assolutamente sì.

ⓢ In che senso questo disco evoca le tue radici siberiane?
Mio nonno è nato al confine fra la Mongolia e la Siberia. Mi sono interrogato su cosa potesse ascoltare da quelle parti, in quegli anni. Mi sono avvicinato molto alla parte sciamanica della Siberia, ho scoperto che il termine “shaman” ha proprio origini siberiane. Mi sono addentrato in queste musiche rituali e ho scoperto che sono parte integrante del mio Dna. Svilupparle mi faceva stare bene.

ⓢ Hai avuto occasione di andarci personalmente o hai fatto tutto in remoto?
Da piccolo andavo spesso in Russia, ora sono dieci anni che non ci torno. Non ho più nessuno là se non alcuni cugini, che però stanno vicino a Mosca.

ⓢ Qual è il tratto più siberiano del disco?
L’utilizzo del tamburo sciamanico in “Marante” è tipico dei riti siberiani o mongoli. Ma se allarghi al mondo intero, si tratta di una pratica che trovi in molti altri luoghi: le stesse cose sono nate nello stesso periodo praticamente con gli stessi strumenti in diversi Paesi. È una cosa particolare perché non ha una effettiva geolocalizzazione. Lo stesso aggettivo “siberiano” per me non è così importante, non vorrei abusarne: faccio musica che parla con il passato ma che non appartiene a nessun posto al mondo.

ⓢ Mi viene in mente il lavoro su riti e maschere di Mana in “Seven Steps Behind”. La ricerca della dimensione ancestrale assieme alla de-geolocalizzazione è una caratteristica di molti artisti di Torino. Avete creato una sorta di bolla da un lato ipertorinese – perché strettamente figlia della città – ma dall’altra totalmente sospesa.
Si tratta di emarginazione. La scena di Torino non è centralizzata all’interno dei meridiani che sviluppano le linee guida e le mete del mercato. Qui facciamo musica molto d’impeto e senza riferirci a Londra, Berlino o altre città. Siamo un ghetto, come può esserlo Principe a Lisbona. Stare a Torino equivale stare fuori dalle dinamiche che ci sono a livello nazionale o internazionale. Stiamo a lato. Se guardi bene a livello individuale siamo molto diversi, ma c’è un fil rouge che ci unisce. Vogliamo solo fare qualcosa di personale più che qualcosa di strano. Qualcosa di più riconducibile a un tuo storico. 

ⓢ Spingete sempre un po’ più in là nei suoni, nell’estetica, nell’avanguardia digitale, ma in fondo cercate le radici.
Ho amato moltissimo un film distopico che si chiama I figli degli uomini, di Alfonso Cuarón. C’è una scena in cui il protagonista entra in una capanna nei boschi, in cui trova un suo “amico” studioso. Le donne non sono più fertili e non possono avere figli, il genere umano è finito. Questo vecchio vive in una capanna un po’ hippie, coltiva marijuana e fragole, cerca sempre la terra, cose reali in un contesto iper futurista, con palmari di vetro ovunque. Io ho iniziato come musicista elettronico ma voglio finire come musicista organico.

Alessio Capovilla, in arte XIII, e Carlo Pastore. Foto di Francesco Coia

ⓢ Con Isola in effetti hai fatto una delle cose più antiche al mondo: un posto dove la gente possa incontrarsi. Come vivi l’altra tua dimensione da imprenditore?
Non mi vedo come imprenditore, mi sento un ragazzo che assieme ad altri tre ha iniziato un progetto. Per me Isola è come un nuovo moniker di un nuovo progetto musicale, un progetto che magari è andato bene e mi ha fatto entrare qualche soldo. Volevo avere un posto a Torino che offrisse le cose che mi piace mangiare e bere.

ⓢ È girata ovunque nel mondo la notizia che Nicolas Jaar abbia regalato al vostro locale la sua collezione di dischi.
Ho sentito Nico. Voleva disfarsi della sua collezione, per una questione principalmente di spazio e peso in fase di trasporto, credo, Nico è uno molto riservato. Voleva lasciare qualcosa a Torino che è una città che gli ha dato molto. All’inizio ha pensato di portarli in giro a mano, ma erano effettivamente tanti. Così mi ha chiesto di lasciarli a Isola, dove c’è una community legata al mondo dell’arte e della musica. Io ho accettato, e abbiamo fatto questo give out. È stato difficile perché non eravamo neanche pronti, sono venute centinaia di persone. 

ⓢ È vero che un giorno Jaar è venuto a portare altri dischi ma nessuno si è accorto che lui fosse lì?
C’era un sacco di gente in fila per i suoi dischi, ma quando è arrivato lui non l’hanno riconosciuto. C’è da dire che ha un look un po’ diverso ora. Ha lasciato altri dischi e se n’è andato.

ⓢ Preferisci fare dischi o colonne sonore?
Io amo fare musica libera, ma con lo scoring ho capito che non tutto è permesso, che avevo bisogno di disciplina. Lavorare con altri o facendo musica funzionale ho imparato anche quest’aspetto.  

ⓢ Meditativo è un aggettivo che ti piace?
Legarmi a mondi interiori è l’unica maniera che ho di sopravvivere. Diamo un nome a tutte le cose ultimamente: meditazione, yoga, cucina vegetariana, biodinamica, deep listening… Per me è una questione di sopravvivenza. Senza ragionamento e introspezione, senza prendermi il mio tempo e respirare, senza il silenzio, non riesco a vivere. Per me è interrogarmi e rilassarmi.

ⓢ L’introspezione è un modo di fuggire dal mondo?
In giro c’è molta politicizzazione della musica. Io non sventolo nessuna bandiera, non lascio che le mie scelte quotidiane vengano strumentalizzate. La mia è pura ricerca personale avulsa dal contesto. Come Alessio ho idee politiche, sono impegnato e attivo nella società pur senza parlare troppo. Nella parte musicale taglio via tutto il resto, la mia musica è un trip d’immaginario.

ⓢ Che cosa intendi?
Fare musica significa stimolare l’immaginazione. Creare un nuovo panorama in cui tu stai bene e cerchi di fare entrare altre persone. Quando faccio una traccia mi immagino che sia la colonna sonora di un momento che ho inventato io, in cui non vigono le regole del mondo reale, quindi ho più libertà d’azione. Quando invento il nome di un brano parlo di spazi virtuali che ho inventato nella mia testa, per fuggire dal quotidiano. Quando faccio musica sono solo. Penso a “A Wall With Hole”: per me un buco nel muro è un modo di vedere l’altro mondo che ci sta dietro. 

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