Attualità

Il capitalismo letterario di Ricuperati

Un dialogo su arte, editoria, mercato, amore, odio e psicoanalisi con lo scrittore-curatore torinese, in libreria con La scomparsa di me.

di Alcide Pierantozzi

«Ma lo sai che sono andato in terapia dalla dottoressa De Mari? L’omofoba che vogliono radiare dall’albo dei medici per le patenti corbellerie che ha detto sui gay… Ma fu solo per un caso, se ci andai…». È la prima cosa che mi scrive Gianluigi Ricuperati sulla chat di Facebook, alle ore 23 e 25 di sabato 18 febbraio, lasciandomi intendere che sì, è indispensabile fare menzione di questa esperienza della sua vita nell’intervista. A Milano nell’ambiente dell’arte si parla (e sparla) abbastanza di lui. Ma non è mai uno screditare, quello no. Laddove non lo si adorasse, gli si tace de visu che è troppo ambizioso, che fa un fantastilione di cose, che lo affascinano troppo i soldi, che indossa maglioni così chiassosi, dai colori rutilanti, da non c’entrare niente con la sua faccia da mister o da medico dello sport. Lo si canzona per quella sua propensione à la Rousseau a venerare i grandi – ma il paragone con il filosofo non regge. Anche perché a Rousseau Gianluigi gli direbbe, come fece M. de Castries: «Abiti in un solaio! Possibile che in giro si parli così tanto di te?». Però poi, se lo conosco, smuoverebbe mezzo mondo affinché il filosofo si trasferisca seduta stante in una suite al Djana Majestic.

Ricuperati, trentanovenne torinese, ha scritto tre romanzi (l’ultimo, La scomparsa di me, è appena uscito per Feltrinelli), svariati saggi, è direttore creativo di Domus, curatore, traduttore, appassionato d’arte e di architettura, in Francia lo pubblica Gallimard. In una clip di presentazione per un reality lo definirebbero “un ragazzo agitato come un frappè”. E alla domanda “quanti anni hai?”, sono certo che Gigi risponderebbe: “Per ora trentanove”. Per ora scrivo, per ora organizzo un premio letterario, per ora vado a cena con Orhan Pamuk e viaggio in aereo con Hans-Ulrich Obrist. Chi non ci crede, legga l’intervista. Alla fine della quale ammette: «La vita è stata incredibilmente generosa con me». Mi sono divertito a punzecchiarlo, così da spremergli ciò che pensa di quel conclave di intelligenze rispettabili chiamate, ancora, élite.

 

ⓢ Raccontami della De Mari. Come ci sei finito da lei?

A Torino, anni fa, aveva una sua piccola fama, anche per il fatto che scrivesse romanzi. Però quando l’ho conosciuta io non era così agguerrita. Certo, idées réçues ne aveva, e a ogni sessione sciorinava questi pattern ripetitivi verso tutto. Poi questi attacchi sempre più violenti contro i gay, che peraltro non erano il mio argomento di analisi. Dopo un sms in cui mi scrisse delle cose orribili, mi sono allontanato brutalmente.

 

ⓢ Quale sms?

 Mi scrisse delle cose molto brutte, una specie di diagnosi telematica, peraltro vaga e inesatta. Ma molto sinistra, cattivissima. Mi diceva che avrei rovinato la vita di tutti coloro che mi stavano accanto se non fossi tornato in terapia da lei. Dalle sue parole, quando andavo in studio, emergeva una visione paradossalmente violenta anche del rapporto uomo-donna, cosa che mi turbava parecchio. A volte ho il sospetto che tutta questa ossessione per la parte rettale della vita che lei ha, nasconda un desiderio oscuro di sodomizzazione intellettuale e forse anche fisica, e psichica.

 

ⓢ Non è semplice cattiveria?

Vuole diventare famosa. E sa che oggi pestare duro su temi come questi ti rende un argomento di conversazione. Con me non aveva alcuna tensione di tipo medico, diciamo ippocratico: mostrava solo una passione per le persone carismatiche, quasi una sorta di innamoramento. Bisogna anche dire che io non ero proprio l’obiettivo ideale perché avevo tutti i problemi del mondo tranne quelli relativi all’identità sessuale. Avevo spesso l’impressione che fosse lei a uscire da queste sessioni molto carica di idee e suggestioni che le venivano da me, e non il contrario. Io credo che una conversazione debba essere come l’atto di scuotere un albero da frutto, un abbraccio produttivo.

 

ⓢ Be’, ma se mi dici che questi temi oggi funzionano, è un problema. Tu di solito come ti comporti?

Adotto il sistema che uso quando perdo il rispetto di qualcuno: non pago. Per me i soldi sono un oggetto transazionale di grande importanza, un gesto d’amore e rispetto quantificabile: tanto è vero che disprezzo gli avari sopra ogni cosa, e quando perdo il rispetto di qualcuno metto in atto complicate strategie di guerriglia finanziaria.

 

ⓢ Spiegamela questa.

Ho fatto così con alcuni dei miei padroni di casa, lo sai, che quasi sempre appartenevano alla classe sociale che frena l’Italia e il mondo: i rentier. Categoria di fronte alla quale mi sento come invaso da un ologramma di Karl Marx, e divento robespierriano: non essendo persona violenta e avendo (ancora) qualche grano di sanità mentale, mi limito – quando queste persone incrociano il mio cammino – a far danzare nevroticamente la cambiale emotiva. Questo perché i soldi sono spesso una questione di sentimenti.

 

ⓢ Non hai mai trovato un bravo padrone di casa?

Adesso ne ho trovato uno che stimo molto perché è un grande medico, e io adoro i medici, quelli veri. Per questo mi ha fatto indemoniare leggere l’abuso della professione medica da parte della nostra De Mari. Ho pure pensato di scrivere un memoir breve sulla mia esperienza di paziente con lei.

 

ⓢ Io lo compro.

Ma no, è appena nato Gioele, poche settimane fa. E non vorrei attirare un’onda di veleno e tensione sulla mia famiglia.

 

ⓢ Come mai questo nome?

L’abbiamo chiamato come il profeta giovanissimo perché la mia compagna, Lidiya Liberman, viene da una  famiglia ucraina-ebraica. Io credo che il futuro sia dei profeti giovanissimi. Forse già il presente lo è. Sai, io vengo da un ambiente cattolico e cristiano, ma per gran parte la mia esperienza è stata di accoglienza, moderazione e razionalità: ho conosciuto forse tutti i cattolici migliori del mondo, chissà: ma non mi sono mai sentito giudicato, mai sentito sbagliato. O forse ho una sindrome narcisistica così forte da non riconoscere l’umiliazione quando si presenta con la sua punta di freccia avvelenata. La schivo. La mangio. Vorrei poter insegnare questa tecnica a tutte le ragazzine e a tutti i ragazzini che vengono umiliati da psichiatri pazzi, genitori malvagi, compagni sadici, terapeuti violenti e insegnanti aguzzini. È un’alchimia di restituzione al mittente di ogni cattiveria irrazionale, in nome di una forza superiore. Quella forza sai chi me l’ha data? Me l’ha data mia madre, insieme a tanti problemi e a tanto, tantissimo amore.

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ⓢ Mi hai parlato molto di tua madre la prima volta che ci siamo conosciuti, cinque anni fa.

Mia madre è stata una fonte battesimale di idee, problemi e passione distillata, e sicurezza, e ansia. È stata una delle persone più religiose ma anche ironiche e autoironiche che io abbia mai conosciuto. Una ragazza ferita da un padre internato in un campo di concentramento, brutale e anaffettivo, mio nonno. Ma lei aveva tutta la fame di vita e la pulsione di morte che può spillarti dalle vene quando scappi da una situazione del genere.

 

ⓢ Nel  frattempo tu eri un ragazzino, e quante riviste leggevi? All’inizio più riviste che libri, vero? So che ti sei formato sulle riviste.

Le riviste sono state una specie di talismano per me, e lo sono tutt’oggi. Un talismano di concentrazione del tempo. Una passione totalizzante.

 

ⓢ Riviste di che tipo?

All’inizio principalmente di musica e cinema. Leggevo moltisismo Duel.

 

ⓢ Anch’io, ma non ci capivo nulla… tu sì?

Capivo e non capivo. Nella biblioteca dove andavo c’era anche la collezione completa di Cahiers du Cinéma. Oggi a rileggerla mi fa un po’ tenerezza. Come mi fa tenerezza il Mucchio selvaggio.

 

ⓢ Le hai tenute tutte?

Sì. Anche perché la mia grande passione per l’architettura è venuta con una rivista, la Domus, diretta da Stefano Boeri. Una rivista eccezionale che si interessava a tutto. È stata lo specchio della mia sete di conoscenza.

 

ⓢ Che differenze vedi tra l’ambiente dell’arte (e dell’architettura, del design)  e quello del cinema e dell’editoria? So che li frequenti parecchio tutti e tre.

 Devo essere schietto? Nell’arte si scopa ma non si legge, nell’editoria si legge ma non si scopa, nel cinema si legge e si scopa. C’è poco altro da aggiungere.

 

ⓢ Nell’editoria si legge? Rispetto al modo di gestire e considerare il denaro le differenze quali sono?

Beh, nell’editoria i soldi sono scomparsi, non ce li ha nessuno. Nell’arte invece sono i protagonisti. Nel cinema sono comparse che si comportano da protagonisti.

 

ⓢ E perché nell’editoria sono scomparsi?

Perché il mercato si è ristretto, ed è impensabile – come avveniva nel 1996 o giù di lì – che a certi autori di nicchia e di prestigio oggi vengano dati anticipi alti. Fino a quando non c’è stato un calcolo preciso di cosa rendevano gli autori e i libri, cosa avvenuta alla fine degli anni Novanta, si poteva ancora comprare il prestigio di un autore. Oggi gli intellettuali sono proletarizzati, e per questo sopravvivono solo quelli che hanno rendite di posizione o fanno attività extraletterarie oppure hanno azzeccato un bestseller, ma è una fiamma che si spegne presto.

 

ⓢ Quindi le cose non sono cambiate più di tanto…

Sono cambiate, sono cambiate. Diciamo che sono sparite quelle stranezze che rendevano così affascinante il lavoro intellettuale, e più eleganti i suoi protagonisti.

 

ⓢ Sì, ma a te il mondo in cui viviamo piace molto, no? O meglio: ti piace più di quanto piaccia alla maggior parte dei tuoi colleghi.

Penso che il mondo di oggi sia molto interessante, e che un cervello dalle innumerevoli accensioni ed esplosioni non può restare fermo, se no finisce con il produrre soltanto letteratura mainstream o consolatoria. Muoversi e incontrare le creste increspate del fenomeno umano è fondamentale, ma costa. Per questo il mondo dell’arte, che parla una sola lingua, e accade ovunque, produce interpreti del contemporaneo più attenti e vispi di quanto faccia il mondo letterario (sopratutto italiano). Che cosa si può capire del mondo stando sempre al Pigneto ?

 

ⓢ Una sola lingua… quella del denaro?

Sì. Un modo per fare una vita dignitosa mantenendosi e senza regalare le proprie perle ai porci (la brutta politica, la brutta tv, la brutta vita) è alzare l’asticella puntando su orizzonti culturali europei o globali. Di anticipi comunque non si vive: con i propri libri tradotti, un po’ di fortuna e un bravo agente, forse sì.

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ⓢ Tu perdi poco tempo, lo so. Vai dritto al punto delle cose, anche di quelle da leggere e da vedere. I veri influencer dei nostri giorni, magari occulti, chi sono?

Per ragioni culturali e professionali vivo al centro magnetico di varie discipline, letteratura, arti visive, architettura, design, e altro; ne ho fatto una specie di ossessione conoscitiva, ma è anche una cosa inevitabile, almeno per me (credo anche per chi vuole capire il nostro tempo). Per questo avevo pubblicato le 100 global minds l’anno scorso: se dovessi fare le 100 global minds italiane giovani, nostre contemporanee, l’elenco sarebbe lungo: i nomi di qualità, caratura e potenzialità sono tanti.

 

ⓢ Fanne un paio.

Tanti, altro che un paio. Da Joseph Grima, teorico architetto e curatore, ad Antonio Ottomanelli, fotografo e ricercatore che lavora sul Sud Italia in modo superbo, Ginevra Bria, curatrice, ed Emanuele Coccia, filosofo a Parigi, Lorenzo de Rita, ad Amsterdam. Da artisti come Piergiorgio Robino, alias Studio Nucleo, un vero vulcanologo del design, ad architetti come Alessandro Bava, che ora sta a Londra.

 

ⓢ E i curatori, gli artisti, gli imprenditori?

Sui curatori in Italia o dall’Italia brillano i nomi più interessanti e noti, tutti molto bravi. Ci tengo a dire che per un drogato di curiosità e intelligenza pura come me, la conversazione con Carolyn Christopher-Bakargiev non dovrebbe esaurirsi mai, ma ci sono anche direttori di musei coraggiosi come Cristiana Collu, e fosse per me punterei tutto su Davide Giannella, uomo e curatore raffinatissimo di Milano.  L’editoria indipendente è tra le migliori d’Europa, basti pensare a Giovanna Silva di Humboldt, e ai ragazzi di Cartography, una rivista di viaggi: poi ci sono artisti con cui scoppiano per eccesso di pressione le ruote della felicità mentale, come Luca Trevisani, e anche Riccardo Beretta, e Renato Leotta: ma seguo sempre con attenzione donne che ricercano senza sosta come Elisa Sighicelli, Sara Enrico.  Anche la giovane Corinna Gosmaro. In Italia ci sono imprenditori luminosi, non illuminati, come Massimo Orsini, l’inventore di Mutina, un gioiello delle piastrelle made in Emilia Romagna. Il cinema ha dei talenti come Pietro Marcello e Adriano Valerio, da cui mi aspetto grandi cose, e persino la critica cinematografica militante ha nel gruppo di Filmidee un bastione di rigore e impudente inventiva.

 

ⓢ E gli scrittori?

Mi lasciano freddo molti autori della generazione smarrita, quella dei cinquantenni diventati grandi negli anni Novanta, con poche eccezioni come quelle di Tommaso Pincio e Giuseppe Genna. Mi eccita il dialogo con Vanni Santoni. Amo molto Sofia Silva e Letizia Muratori, e sono incuriosito dagli irregolari delle lettere come Dario Voltolini, Gianluca Favetto, Marosia Castaldi. Di tutti quelli che lavorano nell’editoria sono sempre attentissimo alle cose che fa Matteo Codignola.  Il problema è che molti scrittori e critici italiani mi sembrano ancorati a una vita del XX secolo: cosa rispettabilissima, persone rispettabilissime, ma non rivolte al futuro, non pronte a cambiare le regole. Specialmente tra i più impegnati, che poi sono quelli politicamente corretti, scorgo una nostalgia che rischia di incanaglirsi, e di non mostrare il tempo e il mondo così come sono. Dice Naipaul, citando a sua volta qualcun altro: the world is what it is… Oltretutto,  alcuni dei grandi solidaristi sulla pagina diventano talvolta molto borghesi quando si tratta di vivere, di fare scelte: e non voglio fare un discorso da filisteo. Io sono a favore del radical-chic. Il problema è che negli italiani di sinistra borghese si è perso tutto lo chic e pure un po’ di radicalismo.

 

ⓢ Nel libro racconti la vita che continua dopo la morte, nel senso che il protagonista entra psichicamente dopo morto nella mente degli altri personaggi. È un pretesto narrativo o ci sono ragioni più profonde?

Non amo la parola pretesto. Amo molto la parola innesto. Per questo il personaggio si installa, si innesta nelle menti delle persone: l’idea in nuce c’è in diversi film e anche in qualche serie, anche se non esattamente come l’ho sviluppata io. Il mio è un desiderio espressivo ed esistenziale; non posso vivere nemmeno un giorno senza desiderare di essere un altro. È un’ossessione che grazie ad anni di analisi ho trasformato da trauma, da ferita aperta, da occasione di scorno quotidiano, a operazione fantastica. La vita della mente è un esercizio di realismo fantastico.

 

ⓢ La scomparsa di me. “Scomparsa” è una parola forte, scomparire vuol dire uscire di scena continuando a esistere, no?

Si, mi pare una bellissima definizione, anche per me stesso. Molti pensano che io viva in una bolla di narcisismo, ed è forse così per molti versi, ma c’è una stanza al mio interno che è integralmente aperta agli altri. Io amo scomparire a me stesso, come antidoto alla demonìa dell’ego: lo faccio come padre, come ex fidanzato, come compagno, come amico a volte, come datore di lavoro, come promotore e connettore di persone: mi interessano davvero gli altri, in questa stanza aperta al vento. All’avvento altrui. Vorrei che nei prossimi decenni questa stanza contagiasse tutte le altre. Vorrei migliorare senza sosta. Vorrei migliorare senza di me.

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ⓢ Se un po’ ti conosco, ho capito che per te la politica non può più esistere, avendo lasciato tutto nelle mani dell’economia, a cominciare dalle cose di cultura. È un’analisi originale. Solo i soldi possono riscattare la cultura, se investiti nella cultura. Ti piace se ti dico che siamo dall’altra parte di Berlusconi?

Mi piace molto. Devi sapere che una parte fondamentale della mia crescita è stata l’hip hop. Nella cultura hip hop c’è una visione alchemica del denaro. Specialmente in quella americana. Il denaro è una forma di energia. A me piace creare occasioni in cui dei piccoli animi diventano dei maghi, non a caso uno dei miei libri preferiti è Il mattino dei Maghi di Pauwels e Bergier. Il mio luogo creativo ideale è un incrocio tra il primo rap italiano, specie Isola Posse All Stars, specie “Passaparola” e “Sfida il buio” di Speaker Dee Mo, da una parte, e dall’altra un hedge-fund radicale, di quelli che trasformano dal nulla il tutto dei soldi, come Bridgewater di Ray Dalio, uno dei centri esoterici della finanza mondiale.

 

ⓢ È vero che a Torino ti detestano?

Mi detestano i torinesi che non capiscono la differenza tra uno stronzo grande e un grande stronzo. Io sono uno stronzo ma ho una mia grandezza, d’animo, di tensione, di spirito, di progettazione, di offesa e difesa. Non sono arrivato qui per lasciare le cose “intoccate”, per lasciarle come prima, e mi sono ritrovato per ben due volte nella vita senza niente, senza soldi, senza mamma, senza amici stretti. Questo ti rende un po’ duro. Ma ho dato a molti più di quanto abbia ricevuto io, e lo farò ancora, se avrò la fortuna di avere fortuna.

 

ⓢ La stai avendo, mi pare.

La vita è stata incredibilmente generosa con me. E non sarà la cattiveria di qualche ex berlusconiano, o di qualche ex comunista (a volte le due cose coincidono), magari nominato da qualche garante della politica locale per l’amministrazione di qualche minuscolo potere, a farmi recedere dai soli principi in cui credo: aiutare sempre, rispondere sempre, dare sempre, prendere sempre, spendersi sempre, pensare sempre, progettare sempre, nominare sempre, procreare sempre.

 

 

 Fotografie di Sebastiano Pellion di Persano