Attualità

Indagine sulle feste

Definizione, limiti d'età, cornice, musica, droghe: un po' di domande e risposte su cos'è il divertimento, quando inizia e quando deve finire.

di Cristiano de Majo

Nell’ultimo anno, secondo un calcolo approssimativo ma neanche troppo, devo aver presenziato a tre feste di matrimonio e a una decina di feste per bambini in età pre-scolare. Nonostante gli sposi alla fine chiedano spesso: «Vi siete divertiti?» e qualche volta lo fanno anche i genitori dei compagni di classe dei tuoi figli, in nessuna di queste era previsto che mi divertissi. Posso comunque valutare certe differenze e dire che alcune erano migliori di altre, e ricorrere al cliché letterario teorizzando che, come le famiglie infelici, ogni festa è infelice a modo suo. Ma sono soprattutto gli elementi ricorrenti che mi parlano, le tappe necessarie a scandire quel peculiare tipo di tempo senza minuti e secondi che prende il dominio della situazione. I cosiddetti “gonfiabili” e i calzini antiscivolo e il buffet di patatine in busta e pizzette tonde sulle note di “Gangnam Style”, così come il tris di primi e quelle ore incredibilmente lunghe passate a tavola per finire a ballare sulle note di “Enola Gay” e “Life is Life” con addosso un’irritazione del colon per il vino mischiato e il troppo cibo, dicono sempre la stessa cosa: arriva un’età – diciamo intorno ai 40? – in cui il divertimento, cioè l’edonismo puro, quella particolare forma di desiderio che non richiede a tutti costi un oggetto specifico, diventa un bisogno scandaloso, che è pericoloso manifestare se non si vuole essere guardati come una persona allo stesso tempo perversa e patetica, perché arrivati a quell’età bisogna testimoniare con spirito di sacrificio al divertimento altrui: dei propri figli o del giorno più bello della vita di qualcun altro, il cui effettivo divertimento, nell’un caso come nell’altro, si è tentati il più delle volte di mettere in discussione a fine giornata.

Invece di nascondermi dietro l’alibi della nostalgia, avrei dovuto iniziare a sospettare qualcosa a giudicare dalla frequenza con cui qualche mese fa ho incominciato a ripescare su Youtube vecchi successi house di inizio anni ’90 come “Show me love” di Robin S, o “Gipsy woman” di Crystal Waters. Sentire quei pezzi mi faceva riprovare un sentimento peculiare: una specie di felicità e insieme di libertà, che è il più tipico degli attimi fuggenti, quella cosa che a un certo punto della vita si dovrebbe smettere di cercare. È successo qualche mese prima del mio ritorno alle feste – altri tipi di feste che non fossero matrimoni o feste di bambini in età pre-scolare – e devo dire che la preoccupazione di essere giudicato sia perverso che patetico è passata abbastanza presto, anche troppo presto. Nelle orecchie ho sentito il sibilo della parola “regressione” pronunciata da qualcuno a me vicino. Poi la pacca sulla spalla di un vecchio amico.

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Che cos’è una festa?

Ci sono tante scene cinematografiche di feste che rendono perfettamente l’idea di cosa sia una festa anche per una persona che per assurdo non ne avesse mai vista una, ma ce n’è una che mi torna sempre in mente, fortissima, persino definitiva. È una festa in una casa di campagna in un bellissimo film francese di Oliver Assayas ambientato negli anni Settanta con protagonisti due adolescenti della provincia parigina che si chiama L’eau froide (1994). In questa grande casa, che sembra disabitata, abbandonata, si trovano ragazzi e ragazze ripresi dalla telecamera senza una direzione precisa; ci sono i baci, c’è la droga, si accende un falò sul prato davanti alla costruzione. Un pezzo dei Credence Clearwater Revival (“Up Around The Bend”) messo sul giradischi rompe la narcosi collettiva. Alcuni ragazzi iniziano a frantumare i vetri delle finestre con le sedie e poi a buttare le sedie nel falò, con la fiamma che diventa sempre più alta e incontrollata. Altri ragazzi iniziano a uscire di corsa dalla casa per andare a ballare davanti al fuoco.

Sono gli anni Settanta – e la casa vandalizzata è un simbolo didascalico dell’istituzione famigliare da abbattere – ma c’è una universalità.  Il momento veramente importante della lunga scena (circa quindici minuti), che può passare quasi inosservato, è quando il pezzo dei Credence Clearwater s’interrompe con il rumore del graffio della puntina del giradischi sul vinile e poi, dopo qualche secondo, viene rimesso daccapo. A me sembra che proprio il trucco di rimettere la canzone daccapo – non ricordo altri film in cui questo succede – corrisponda esattamente alla ricerca di quell’istante perfetto di cui parlavo prima. Rimettere la canzone che ha prodotto l’attimo fuggente di felicità e libertà per riprovarlo.  A questo punto nella scena si vede una cosa molto vera: un ragazzo gira intorno al fuoco camminando e si va a sedere un po’ in disparte su un muretto per guardare gli altri che ballano, poi la telecamera si sposta su un altro ragazzo, che invece sta ballando con le braccia aperte come un uccello che vola, l’oggetto dello sguardo del ragazzo seduto sul muretto. Ed è esattamente questo l’aspetto umanamente più forte di ogni festa: il fatto che ogni volta c’è qualcuno perfettamente dentro quella particolare situazione emotiva e qualcun altro che invece resta fuori e, guardando quelli dentro, si sente sempre più fuori. Questo, in fondo, succede sempre, persino a una festa di bambini in età pre-scolare. Quella persona seduta sul muretto non vuoi essere tu, così come non vuoi che sia tuo figlio.

 

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È finito il divertimento?

In un pezzo molto interessante uscito la scorsa estate sullo Style Magazine del New York Times si ipotizza la fine delle feste in casa, dichiarata già nel titolo: “The Death of the Party”. L’ipotesi, ricercata in varie cause – la confortevolezza dello schermo, la connessione perenne, la socialità digitale, ma anche la riduzione degli spazi abitativi nelle grandi città americane – viene corredata da una serie di dati abbastanza eloquenti: secondo il Bureau of Labor Statistics, la media ore giornaliera per la fascia d’età che va dai 15 ai 24 anni di partecipanti o organizzatori di eventi sociali durante i weekend o i periodi di vacanza è scesa da quindici minuti a nove dal 2003 al 2014, mentre la percentuale di partecipanti a queste attività nello stesso periodo dai 7,1 ai 4,1. Non solo quindi meno feste, ma anche meno gente alle feste. Secondo un’altra ricerca citata, che tocca gli stessi temi, fatta dalla University of California, il tempo dedicato da liceali agli ultimi anni alle feste è drasticamente sceso nel corso dei decenni e la percentuale di chi non ha mai partecipato a una festa di liceo è incredibilmente aumentato da 11,6 del 1987 al 41,3 del 2014.

 

A che età si smette di andare alle feste?

Potrebbe essere. Qui a Milano non sono mai stato invitato a una festa in casa, solo a qualche cena. Certo ho la scusante di essere in città da troppo poco tempo e quindi di conoscere troppe poche persone, e soprattutto quella di non essere più così giovane. Sono fuori la fascia della statistica e quindi, per curiosità, dopo aver letto il pezzo del New York Times, ho chiesto a un paio di venticinquenni se “i giovani” vanno ancora alle feste in casa, ottenendo risposte insoddisfacenti, perché, com’è ovvio, troppo personali. Fabrizio (25), studente di Lettere a Napoli, mi ha detto: «Mi capita di essere invitato a feste in casa ma molto di rado. L’impressione è che gran parte dei miei conoscenti non le preferiscano». Mentre Valeria (26), giornalista alle prime armi di Roma, mi ha detto: «Frequento feste, a periodi, principalmente in casa, le preferisco a quelle nei locali per innumerevoli motivi. Nei locali o bevi o ti annoi, o ascolti la musica sì, ma la ascolto più volentieri a casa mia, e sono astemia, in casa possono farmi una camomilla o un latte caldo con miele senza problemi e ho varie possibilità di fuga piacevoli».

C’è tempo per essere più calmi e tranquilli, vorrei dirle. Il tempo che di solito inizia intorno ai trenta con quell’improvviso bisogno di fare cose da grandi. Si è motivati a imparare i rudimenti della cucina creativa, si comprano piatti, posate, tovaglie esteticamente gradevoli, si prendono bottiglie di vino un po’ ricercate (no Negroamaro, sì Lagrein) e poi si interpreta a dovere la parte: le chiacchiere tra due o tre coppie, un po’ di musica ok, ma magari non troppo al centro della scena, solo in sottofondo: “noi ormai usciamo sempre meno/guardiamo solo serie tv”. Questo bisogno naturale e giusto di sentirsi grandi, di avere una vita sociale più simile a quella dei genitori rispetto a quella di un possibile fratello minore non esclude ma di fatto allontana, con una forma di consapevolezza segnata da uno strano orgoglio, l’epoca del divertimento vero. Il punto forse è che il divertimento stanca. Soprattutto per le generazioni che si sono divertite per anni (direi i nati dagli anni ’60 in poi). Salvo poi essere riconsiderata come età dell’oro. Con conseguenze “perverse” e “patetiche”.

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A casa o fuori casa?

È proprio a una cena non troppo dissimile da quella che ho descritto che ne ho parlato con Fabio, milanese, quarantenne, padre da poco, caporedattore di una rivista, che quando gli ho chiesto se frequentasse ancora feste, mi ha risposto: «Al momento no, di tanto in tanto qualcuno mi invita. Io vorrei andarci, anzi, decido che ci vado. Poi non ci vado. Con un bambino di otto mesi le incognite sono tante. Ma anche io sono un’incognita. Cambio umore velocemente. Mi stanco. Mi ammalo di influenza. Mi piacerebbe essere invitato a una festa nel pomeriggio, come  alle medie. Fare festa durante l’orario di lavoro e tornare a casa di sera in hangover. Mi piace andare alle feste in casa. Mi piace vedere un posto privato che si riempie di gente, magari qualche sconosciuto. Oppure lo sconosciuto sei tu. Trovo interessante come gli spazi intimi si comportano sotto stress. Ci sono più spunti e occasioni per uscire fuori dai propri schemi nelle feste in casa, secondo me».

Visto che ha la mia stessa età, ho chiesto a Fabio anche se, finita l’adolescenza, la post-adolescenza, con eventualmente una laurea, un lavoro e una situazione sentimentalmente stabile, sia lecito o naturale o che a un uomo o a una donna possa tornare la voglia di fare festa. Mi ha risposto che secondo lui «a 40 anni è più facile che frequenti una festa per lavoro che per divertimento. Il lancio di qualcosa, l’opening di qualcos’altro. Si mischia tutto, una festa non dovrebbe avere nulla che fare con il lavoro. Ma dipende dal lavoro che fai. A quanto tieni alla tua immagine pubblica e professionale nel caso decidessi di viverla davvero come un momento di sospensione. In una città come Milano, per quanto riguarda le occasioni che ti trovi per fare festa, più che l’età credo sia discriminante il temperamento che hai. Personalmente amo starmene un po’ in disparte. Specie adesso che ho moglie e un figlio. Ma se non fosse così, farei come ho sempre fatto: alternerei momenti di solitudine cercata a momenti di frenesia sociale».

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 Sono cambiate le feste?

Di quando avevo vent’anni ricordo serate in discoteche fighette così come rave in capannoni industriali, all’incirca con la stessa intensità. Non ricordo molte feste in casa, in effetti, e non perché non ne abbia fatte tante. Ricordo il tipo di musica, le droghe, talvolta le persone con cui ho passato la notte. Ma, pensandoci bene, e in uno sforzo superiore di onestà, non direi che andavo alle feste per divertirmi in senso stretto. Ci andavo più per esplorare i miei limiti, per sperimentare, non avevo tutta questa voglia di conoscere sconosciuti. Andavo alle feste anche per costruirmi un’identità estetica, soprattutto legata alla musica, che è una cosa a cui prestavo molta attenzione con il bisogno che corrispondesse esattamente ai miei gusti, o meglio al modo in cui desideravo essere visto.

A partire dalle mie più recenti esperienze notturne – un bloc party in un parcheggio sotterraneo, un’affollata e simpatica festa di compleanno nel sottoscala di uno scalcinato ma molto in voga bar in zona Porta Venezia, una serata in un karaoke cinese di Sarpi trasformato in una discoteca con tante microsale riempite all’inverosimile, una festa in un capannone di periferia per la fine delle riprese di un video di un dj francese con gente del mondo dell’arte – posso dire che a quindici anni di distanza soggettivamente cambia tutto, che la musica non è poi così importante: basta che faccia ballare; che rispetto alle droghe si può avere la saggezza per tenerle a una certa distanza e che, raggiunta questa saggezza, si può arrivare alla perversa patetica idea che a quaranta ci si diverte più che a venti. Cambia tutto, anche se tutto resta uguale. Perché invece oggettivamente quello delle feste è un mondo ibernato, imprigionato nei cristalli delle illuminazioni al neon, nelle nuvole di fumo, negli ultrasuoni elettronici, nei pezzi di bicchieri di plastica spaccati. Le feste sono sempre le stesse. I ventenni di oggi si divertono come i ventenni di vent’anni fa.

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 Qual è la festa più bella?

Allora alle persone con cui ho parlato ho chiesto anche di darmi una definizione della loro festa ideale o della festa più bella che ricordano. E mi hanno risposto così:

«Una festa riuscita per me è quando ti liberi da te stesso e fai cose che normalmente non faresti. Magari ti ritrovi alla fine della serata a braccetto con estranei a bere l’ultimo bicchiere e a dirti cose. In generale le feste che mi sono piaciute davvero sono quelle in cui i partecipanti avevano voglia di stare insieme agli altri. Niente gruppetti e simili. Dovrebbe essere alla base del concetto di festa ma mi è capitato raramente. Forse sono stato sfortunato. Forse frequentavo le persone sbagliate. Forse è un fatto generazionale. Forse è colpa mia» (Fabio).

«Ci dev’essere tanta gente. Deve essere imprevedibile, senza limiti. Mi piacciono le feste in casa ma giganti, quindi magari in ville o castelli sarebbe meglio: “c’è più privacy”, come dice la tizia in Gatsby. Una delle più belle era in un giardino fuori città, fontane, sculture, primavera, decadentismo, tantissime persone vestite da sera che piano piano sono impazzite – alcune si sono anche denudate – è andata avanti fino alla sera successiva. E ho fatto tante marachelle» (Valeria).

«Droga, alcol, ragazze carine potenzialmente disponibili o comunque aperte, e deve esserci una certa varietà. Droga non per forza se c’è molto alcol o molte ragazze. Le feste più belle a cui sono stato sono legate a contingenze, ragazze che mi piacevano particolarmente, ma cercando di essere oggettivo forse la più bella è stata in casa di certi amici ai Quartieri spagnoli, una di quelle case un po’ fricchettone ma tendenti al radical chic, con tre terrazzi, cucine piene di spezie orientali, arredamenti esuberanti. C’era un gruppo di francesi che non conoscevo, e poi tutta quella schiatta di Artisti/Lavoratori dello spettacolo/Architetti che ha fatto l’Umberto o il Sannazaro. Molto molto alcol. Aria aperta, fresco, luna, stelle, delle sdraio, conversazioni false su Marina Abramovic e Pierre Bourdieu per rimorchiare. Riassumendo: terrazzi, alcol, donne. Questo fa una bella festa» (Fabrizio).

Illustrazioni di Steven Millington
L’articolo è estratto dal numero 26 di Studio, in edicola