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Per la prima volta è stata pubblicata la colonna sonora di Una mamma per amica In occasione del 25esimo anniversario della serie, su tutte le piattaforme è arrivata una playlist contenente i migliori 18 brani della serie.
Jeff Bezos ha appena lanciato Project Prometheus, la sua startup AI che vale già 6 miliardi di dollari Si occuperà di costruire una AI capace poi di costruire a sua volta, tutta da sola, computer, automobili e veicoli spaziali.
Le gemelle Kessler avevano detto di voler morire insieme ed è esattamente quello che hanno fatto Alice ed Ellen Kessler avevano 89 anni, sono state ritrovate nella loro casa di Grünwald, nei pressi di Monaco di Baviera. La polizia ha aperto un'indagine per accertare le circostanze della morte.
Vine sta per tornare e sarà il primo social apertamente anti AI Jack Dorsey, il fondatore di Twitter, ha deciso di resuscitarlo. A una condizione: sarà vietato qualsiasi contenuto generato con l'intelligenza artificiale.
C’è una app che permette di parlare con avatar AI dei propri amici e parenti morti, e ovviamente non piace a nessuno Se vi ricorda un episodio di Black Mirror è perché c'è un episodio di Black Mirror in cui si racconta una storia quasi identica. Non andava a finire bene.
In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.
Rosalía ha condiviso su Instagram un meme buongiornissimo in cui ci sono lei e Valeria Marini  Cielo azzurro, nuvole, candele, tazza di caffè, Rosalia suora e Valeria Marini estasiata: «Non sono una santa, però sono blessed», si legge nel meme.

Il mafioso elegante di Marco Bellocchio

In concorso a Cannes tra molti applausi e adesso nelle sale, Il Traditore è forse il primo esempio di cinema italiano di mafia borghese.

27 Maggio 2019

La mafia è il nostro romanzo popolare, sempre lo è stato e sempre lo sarà. Passano le epoche cinematografiche (e televisive) ma lì torniamo tutte le volte, ai camorristi che sono orribili ma telegenici, e da spettatori la seconda qualità ha ovviamente la meglio. A ciascun paese, del resto, le sue storie: i francesi, per dire, hanno il cinema borghese, noi le saghe di Cosa Nostra. Però, ecco, Il traditore di Marco Bellocchio, in concorso a Cannes tra molti applausi e adesso nelle sale, è forse il primo esempio di cinema italiano di mafia borghese anche lui. Fin dalla prima scena: quella festa palermitana anni Ottanta sicuramente volgarotta ma con picciotti assai urbanizzati, che fanno caso ai bei vestiti e ai cristalli buoni sul tavolo. I trenini di Sorrentino raccontano anni, non mafiosi e recentissimi, ben più beceri di quelli, malavitosi e lontani.

Bellocchio ha intitolato il suo bel film Il traditore perché alla base c’è un tradimento, certamente. Bisogna solo capire quale. Tommaso Buscetta è il più famoso pentito di mafia della storia patria, dunque il voltafaccia, se inteso alla lettera, va rintracciato nella sua scelta di collaborare con i magistrati. Ma il tradimento, all’epoca, è stato anche all’idea che tutta la nazione s’era fatta del mafioso classico. Don Masino s’era smarcato dall’educazione criminale: ci teneva a esibire il suo buon italiano, specie quand’era accanto a compagni di strada fermi al siciliano stretto, e parlava pure il portoghese, che alle professoresse democratiche dà sempre quel brivido Saramago. Buscetta conosceva il mondo anzi due, perché appunto era fuggito in Brasile a farsi un’altra delle sue molte vite, gorgheggiava su brani spagnoli alla maniera dello chansonnier, vestiva solo abiti su misura (dal sarto, immagina il film, incrociava Giulio Andreotti con le braghe calate).

Il tradimento di Buscetta è stato soprattutto in questo: nell’inventarsi un’immagine di mafioso uguale ma diversa, di impronta forse craxiana visti gli anni, il mafioso da bere che piaceva pure ai continentali, ai colti, ai giusti. Il film, difatti, dà grande spazio alla chiacchierata relazione con Giovanni Falcone, il suo confessore che però ne subì, pure lui, lo charme. Tra loro, sullo schermo, è tutt’un annusarsi tra gentiluomini e uno scambiarsi strette di mano, in attesa della verità che entrambi sanno: uno dei due morirà prima dell’altro, resta solo da capire chi. La strage di Capaci, il cui anniversario cadeva il 23 maggio mentre il film usciva nelle sale (segue polemica), è raccontata per la prima volta dall’interno dell’auto: oggi si può, Bellocchio può.

La mafia è il nostro romanzo popolare, appunto, e il suo grande teatro è il tribunale del maxiprocesso, che noi guardavamo da piccoli, con i nostri genitori che provavano a spiegarci i buoni e i cattivi: è stata un’altra delle nostre favole della buonanotte, per gli adulti era lo sceneggiato della sera. È sul palcoscenico dell’aula bunker che avviene il gioco delle parti, le moine dei mafiosi, quelli che giocano a carte dietro le sbarre e quello che storta la lingua a piacimento, e poi l’amico di una vita che finge d’incontrare il pentito lì per la prima volta, e i giudici come noi irretiti dalla recita dei colpevoli.

Bellocchio sapeva di avere in mano un grande romanzo popolare, e allora a fare Buscetta ha chiamato Pierfrancesco Favino, bravissimo, non più l’attore che voleva scomparire dentro i film d’autore (o quel che ne resta, nel nostro cinema) ma il divo ormai formato Sanremo, dunque oggi anche lui popolarissimo, tra Walter Chiari e Gian Maria Volonté, a giocare d’azzardo. E Bellocchio, il fu autore sovversivo della nostra Nouvelle Vague, adesso si fa produrre da Beppe Caschetto, l’agente tv “di sinistra”, già finanziatore del precedente (e poco riuscito) Fai bei sogni, tratto da Gramellini. Questa è la cosa più bella di tutte: «Beppe Caschetto presenta» in testa alla locandina di un regista venerato dai cinéphile festivalieri. Splendido lo scambio a Che tempo che fa di due domeniche fa con Bellocchio ospite di Fazio. Il primo cita «il mio produttore Beppe Caschetto», il secondo si lascia scappare «che poi è il mio agente». Solo la tv ha potuto salvare il nostro cinema d’autore.

Bellocchio, con una mano da ragazzino a dispetto degli ottant’anni (quasi), strafà nel gangster-romanzone, molto lungo e pieno di parentesi, magnifiche le scene di tortura in elicottero sopra Rio de Janeiro e lungo le sue curve fotografate all’alba, bellissima appunto la festa iniziale coi fuochi e la droga, dilatatissime le sequenze del tribunale con i verbali riprodotti quasi integralmente, psicanalitici (aggettivo che il povero autore sempre si porterà dietro, per via dei suoi trascorsi accanto a Massimo Fagioli) gli inserti da National Geographic con gli animali feroci in gabbia.

Negli ultimi vent’anni, Bellocchio ha cercato, pure più di prima, di raccontare le strutture su cui si regge questo disastrato paese. L’ora di religione era l’eterna ingerenza clericale, Buongiorno, notte il buio della politica, Vincere i fascismi mai domati, Bella addormentata l’etica conformista e strumentalizzata. Gli mancava solo la mafia, il mito sbagliato più appassionante di tutti.

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