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Il fantasma Del Giudice

Scrittore poco celebrato, prima schivo poi reso invisibile da una malattia che si fa fatica a nominare: ora in libreria i suoi racconti.

05 Maggio 2016

«Anche se è stato un sonno breve, come questo di mezz’ora, dopo bisogna ricominciare tutto da capo», è un incipit che vale doppio perché è la prima riga del primo romanzo di Daniele Del Giudice. Del Giudice è uno scrittore la cui potenza è indirettamente proporzionale alla sua fama e che è tornato da poco in libreria con I racconti, raccolta che esce per Einaudi con un titolo che sembra azzardato, visto che i racconti sono percepiti come veleno per le vendite. I suoi primi due libri, Lo stadio di Wimbledon e Atlante occidentale, furono successi di critica e pubblico e il corpo di opere, pur limitato (sei su carta e una teatrale nell’arco di ventisei anni, anche se c’è molto inedito), ha mantenuto una qualità costante fino alla fine. Eppure non è un nome conosciuto, i materiali su di lui non abbondano. Se compare nelle antologie scolastiche lo fa in funzione di critico, relegato alle sezioni di approfondimento.

«Il fatto è che sfugge alle categorie», dice Roberto Ferrucci, scrittore e amico di Del Giudice da lungo tempo. I due si sono conosciuti a metà degli anni Ottanta in una libreria di Mestre, Ferrucci gli aveva dedicato un capitolo della sua tesi e da lì sono diventati amici. «Come lo incaselli? Sì certo, puoi dire “calviniano”, ma Calvino è il meno incasellabile di tutti. Lo spiega Del Giudice stesso in un suo saggio: per Calvino ogni libro era un nuovo progetto, un nuovo esperimento avulso dal precedente».

Italo Calvino è stato un punto di partenza con cui Del Giudice ha dovuto immediatamente misurarsi perché, oltre a rappresentare una pietra di paragone nel contesto nazionale, era stato proprio lui, in veste di consulente editoriale per Einaudi, a scoprire il manoscritto di Lo stadio di Wimbledon (1983), il primo romanzo di Del Giudice. Del Giudice e Calvino costituiscono le facce ambivalenti della letteratura italiana del Novecento: li accomuna una duplice componente fantastico-matematica – si pensi alla fantascienza umoristica di Ti con Zero e alla commistione tra il rigore geografico e la divertita descrizione del comportamento dei pinguini in Orizzonte mobile – la tecnicità, lo sguardo (l’occhio, grande fulcro in Calvino, diventa soggetto ne Il museo del Reims di Del Giudice, in cui il protagonista si reca a vedere i dipinti in un museo prima di diventare cieco, o nel continuo «vedere» scientifico di Atlante occidentale) e gli identici obiettivi: la ricerca dell’oggetto “racconto”, come esso si strutturi e influisca nella vita del narratore e, in ultima analisi, del lettore stesso.

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Non abbastanza dirompente da fare capitolo a sé, non abbastanza rappresentativo dell’angst adolescenziale di Tondelli, Busi, De Carlo e Palandri (men che meno del “cannibalismo” degli anni Novanta) da essere inserito in una tendenza. O, nella maniera più semplice, il suo essersi sottratto ai radar mediatici lo ha reso invisibile agli sguardi altrui. A pensarci bene, nessuno decennio era pronto per Del Giudice, la cui poetica pare fatta su misura per questi anni Dieci, composta com’è da oggetti e feticci. La nostra modernità ha smaterializzato i saperi e poi, con una consequenzialità abbastanza banale, li ha rifusi tutti insieme nell’oggetto che ognuno tiene in tasca. Ecco allora che nei suoi racconti la fiducia tra i personaggi passa sempre attraverso una confidenza non intima ma relativa a un oggetto, gli sguardi devono convergere su «una cosa messa a fuoco in comune», come scrive Tiziano Scarpa nell’introduzione a I racconti.

Dagli oggetti scaturiscono le storie, confluiscono, vengono sfiorate; spesso non sono l’elemento centrale del racconto, ma ne sono testimoni: una macchina fotografica (Lo stadio di Wimbledon), gli aerei (Staccando l’ombra da terra, Atlante occidentale) o le opere d’arte (Nel museo di Reims). Avvicinati, assecondati, rispettati. Oggetti, non cose, perché Del Giudice ha bisogno di una precisione che evoca e fa sentire (o almeno fa sembrare) che dietro alla scrittura c’è competenza: in Atlante occidentale, gli aerei non sono generici mezzi di trasporto con le ali, ma Piper, Cessna, Dornier, Lyncoming, e le persone sono rappresentate attraverso le macchine che usano: il LEP, l’acceleratore di 27 chilometri di diametro, una Fiat 131 blu. Lavori pratici e conoscenze tecniche diventano canoni stilistici, tanto da far scrivere a Del Giudice come «I manuali [siano] libri di formazioni, raccontavano che cosa bisognava fare e come andava fatto. Che libro trova Marlow in Cuore di tenebra risalendo il fiume Congo? Non la Bibbia né Shakespeare, ma un libretto dal titolo Indagine su alcuni aspetti dell’arte marinaresca».

Uno dei personaggi dei suoi libri rivela così l’origine delle proprie storie: «Lei forse pensa che un visionario sia qualcuno che vede mostri, che vede un ponte tendersi ad arco e scoppiare, non uno che sente la porosità del suo cemento senza toccarlo: io sono un visionario di ciò che esiste». Il personaggio in questione è Ira Epstein, il protagonista di Atlante occidentale. Nel libro Epstein, scrittore vicino al Nobel che sembra essere pago di vita, stringe amicizia con Pietro Brahe, fisico impegnato nei laboratori Cern di Ginevra. Uscito nel 1985, Atlante occidentale racconta fatti che sono successi solo due anni fa e che Del Giudice aveva previsto – o quantomeno intuito – vedendo i disegni del progetto dell’acceleratore di particelle.

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È un romanzo di rottura nel panorama della letteratura italiana anche per l’inedito contesto in cui cala l’oggetto e per le sue tematiche proiettate in un futuro «quale momento di grande unificazione che produce la nascita di nuovi oggetti», come la fisica delle particelle, che sottintende, alla base delle proprie teorie, non solo un diverso uso dell’oggetto, ma anche una sua ridefinizione da parte dell’uomo. Il mondo subatomico non ha immagine, solo formalizzazione numerica. Pierpaolo Antonello nel saggio La verità degli oggetti afferma che i nuovi oggetti della società descritta da Del Giudice non siano fatti d’altro che di luce – comunicazioni, commerci – e questa configurazione pretende dalla società una diversa percezione degli oggetti: vanno guardati con occhio nuovo e nuova deve essere la prospettiva sui sentimenti umani. Il romanzo è un esperimento del «vedere ai margini dell’invisibile», si situa in realtà nel sentire, nel provare questi nuovi sentimenti: «Alla fine dovrebbe lasciare al lettore l’impressione di un assoluto allargamento della percezione: una disponibilità a percepire un’epoca dove le cose non saranno più come prima», dice in un’intervista con Angelo Mainardi.

Raccontare per Del Giudice significa guardare nel «cono d’ombra delle cose», come scrive Teresa Sbarra, nell’articolo “Daniele Del Giudice. Dove sono le storie?“. Il reale significato di una parola è in ciò che la parola tace, che la parola nasconde, lì lavora il narratore, facendo emergere l’invisibile dal visibile. Non è diverso dalle monomanie che dipinse Thèodore Géricault tra il 1818 e il 1822: dieci ritratti di alienati monomaniacali, figure umane segnate da una dipendenza, da una malattia o da una psicosi che non viene mostrata nei dipinti. I quadri ritraggono i malati intenti a scrutare un punto imprecisato dell’orizzonte. Non si da dove vengano, dove vadano, né dove siano, essendo circondati da uno spazio buio, solo immaginabile.

Nei libri di Del Giudice è presente questo grande paradosso di qualcosa che non può essere visto ma può essere raccontato o, al contrario, di una storia che si può solo guardare senza poter dire. Bobi Bazlen, figura storica attorno alla quale si sviluppa Lo stadio di Wimbledon, è uno scrittore che non ha mai scritto, che non ha mai raccontato, eppure nella sua non-storia si sviluppa la letteratura italiana dei primi del Novecento, e nel suo silenzio è da ricercarsi la radice più coriacea del romanzo. Allo stesso modo, lo scrittore Ira Epstein, «visionario di ciò che c’è» di Atlante occidentale, non crea, non inventa dal nulla, le storie che narra esistono indipendentemente dalla sua volontà e il flusso spontaneo di narrazione sembra addirittura impedire qualsiasi tipo di contemplazione disinteressata («Prima vedevo le storie raccontando, le vedevo nel momento in cui le scrivevo, adesso le vedo guardando, vedo una storia compiutamente dall’inizio alla fine semplicemente guardando»).

E se i lettori di lui avranno l’impressione di un tipo terso e distaccato, per i conoscenti era un «vero amico» – come lo definisce Ferrucci – uno che era solito fare scherzi come introdurre Antonio Tabucchi spacciandolo per un amico postino. O, quand’era giovane leva del Paese Sera, scrivere una recensione al falso romanzo del mitteleuropeo Anton Ganzfalsch (“Ganz Falsch” in tedesco significa “tutto falso”), suscitando perfino l’interesse di un critico che lo contattò perché non riusciva a trovare il libro da nessuna parte.

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Diviso tra Roma e Venezia – nella seconda ha insegnato letteratura italiana e teatrale allo Iuav (per il teatro ha anche scritto: I-TIGI Canto per Ustica con Marco Paolini); per la prima ha scelto, in giura con altri nomi illustri, il progetto di Zaha Hadid per il museo MAXXI – Del Giudice è sempre stato sulla soglia dell’invisibile, come le sue opere. Invisibile lo è anche adesso che non scrive più, perché affetto dal morbo di Alzheimer. Le sue condizioni sono sempre state celate dal riserbo. Michele Farina ne ha parlato nel suo libro, Quando andiamo a casa?, in cui racconta le testimonianze di personalità più o meno famose affette dalla malattia. Una malattia che ha bisogno di essere raccontata perché è anche una malattia sociale. Anche Stefano Bartezzaghi, che di recente gli ha dedicato un pezzo su Doppiozero parlando dell’impegno di Del Giudice come organizzatore culturale, la tocca piano. Così come fanno tutte le recensioni o gli articoli, procedendo per eufemismi anche di difficile scioglimento («è andato a vivere nella città di Isidora» scriveva su Repubblica Paolo Mauri). C’è il rispetto verso l’intimità della persona, c’è la volontà di non scadere in facili pruderie. Ma c’è anche un silenzio doloroso.

Nel libro Farina tenta di fare luce ma riceve solo il rifiuto della moglie e del fu Cesare Segre, la cui testimonianza evoca «qualcosa che non può essere né esibito né addolcito». Non restano che cinque pagine in cui ogni frammento di informazione è ingigantito fino alla sgranatura. Ed è evidente che ora non ci sia più nulla da dire, forse qualcosa sarebbe potuto trapelare prima, per non dover lasciare come ultimo ricordo un pallido video di premiazione. Sarebbe stato utile raccontare, come fa Farina per tanti personaggi del libro, l’esperienza della malattia come forma di esorcizzazione. Ma la vita di Del Giudice resta chiusa tra le mura della sua Venezia.

Cercando e parlando di lui non riesco a togliermi di dosso il rimando a Richard Yates, anche lui scrittore per scrittori, autore che veniva idolatrato da Raymond Carver e David Foster Wallace e che ha trovato nuova fama dopo la morte, la grande indulgenza plenaria, vidimatrice di ogni interesse. Si spera che I racconti sia il primo segnale di un’apertura verso Del Giudice e i suoi lavori. Per ora nessuno sembra interessato a voler celebrare il suo nome. Sembra che la gente smetta di interessarsi al discorso appena lo si nomina. Sembra il ripetersi di un cerchio, Del Giudice che cercava le risposte alla ritrosia di Bazler, che poteva scrivere ma non ha voluto, noi che cerchiamo Del Giudice, che voleva scrivere ma non ha potuto.

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