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Il cuore oltre l’ostacolo

Andrea Lussardi, ventitre anni, è una giovane promessa del calcio italiano che ha dovuto fare i conti col più aggressivo e inatteso degli imprevisti: un malanno al cuore che ora gli impedisce di giocare. Ma non oscura la voglia di potercela fare.

13 Febbraio 2015

Andrea Lussardi voleva solo giocare a calcio. Quelli così li chiamano promesse: già due anni di Lega Pro a vent’anni, Piacenza e poi Pavia arrivando dalla Primavera dell’Inter, l’azzurro Under 18 e Under 19, la Reggina che lo aveva messo sotto contratto. Un “novantadue”, nel duemiladodici. Tutto in fretta. Anche il ritiro, che comincia a maturare all’alba del suo terzo campionato nella vecchia C. Aveva vissuto davvero, la stagione precedente: spesso titolare nel Pavia, era pronto a prendersi ancora spazio e ancora attenzioni. Non sapeva che in quell’agosto del duemilatredici avrebbe sbattuto contro il difensore più aggressivo, inatteso, impalpabile. Lui, esterno da corsa, cade all’improvviso, privo di coscienza. Sul campo, durante Mantova-Pavia di Coppa Italia, notte d’estate e di terrore, di minuti lunghissimi e di un’ambulanza che entra in campo perché quel ragazzo che ha provato a rimettersi in piedi non si regge e tutti hanno paura.

«Ho visto tutto nero, frazioni di secondo. Non ricordo altro». Lo portano in ospedale a Mantova, ci resta qualche giorno. «Aritmia. Però sembra che tutto possa risolversi, gli esami non evidenziano nessuna anomalia significativa». È la prima volta, non se lo aspettava. Ce ne  sarà invece una seconda, a ottobre, e devono dirgli tutto in una frase: la sua galoppata deve fermarsi, il campo non è più cosa sua. Ha una cicatrice sul cuore: «Volevo tornare a giocare, di tanto in tanto mi sottoponevo ad accertamenti, ma lentamente mi allenavo. Ero in palestra, ho capito che stavo svenendo, mi sono poggiato al muro e ho perso i sensi». Stop: ancora ospedale, ancora accertamenti, la cicatrice. Non c’è un nesso diretto, ma è l’unica anomalia, è il rischio. Non si sa se è un problema congenito, non si sa se gli svenimenti dipendono da quello («Ancora oggi non lo so»), l’unica certezza è che Andrea deve smettere di giocare, che il Lussardi di cui tutti parlano bene, quello che può dire di aver vinto un Viareggio, di essere già titolare a vent’anni, deve tirare una riga al curriculum e non sognare nulla di più.

L’unica certezza è che Andrea deve smettere di giocare, che il Lussardi di cui tutti parlano bene, quello che può dire di aver vinto un Viareggio, di essere già titolare a vent’anni, deve tirare una riga al curriculum e non sognare nulla di più.

Si ritira, a gennaio di un anno fa, quando rescinde il contratto con Pavia e Reggina (che detenevano la comproprietà) e anche dal punto di vista formale smette di essere un calciatore: «Senza sapere cosa mi stesse accadendo, non c’era nessuna possibilità. Per capirne di più mi avevano messo una chiavetta vicino al cuore per registrare il battito, mi avevano detto che potevo fare sforzi piccoli, ma che l’attività agonistica era finita. Poi lo scorso aprile mentre giocavo a calcetto con amici, un altro attacco: la chiavetta registra l’aritmia. Più di trecento battiti. Da quel momento vivo con un defibrillatore impiantato, come fosse il mio salvavita».

La storia di una carriera interrotta è fatta di sensazioni e crolli: «Ho visto il video del malore a Mantova quando ero ancora in ospedale. Mi ha fatto impressione: sembrava di rivedere quello che era accaduto a Morosini. Mi sono sentito fortunato perché mi  stavo guardando. È stata peggiore la seconda volta: ho avuto il tempo di capire che stavo svenendo di nuovo, mentre pensavo di poter ricominciare pian piano. Si è sommata la paura per ciò che mi stava accadendo e la doccia fredda per quella guarigione che tale non era, invece». Voleva solo giocare a calcio, Andrea. Lo faceva bene: esterno capace di puntare l’uomo e andare sul fondo, giocatore da assist e un po’ meno da gol: «Lavoravo per gli attaccanti, mi ispiravo a Figo. Solo che lui sapeva anche segnare, per me era un punto debole». Aveva già il suo spazio e i suoi obiettivi: «Pensavo alla serie A, sentivo di potercela fare e di giocare le mie carte. Lavoravo tanto sul campo, cercavo di migliorare ogni giorno».

È il momento delle scelte: arrendersi o restare. Andrea resta nel calcio: dal Pavia e il sogno di giocare a pallone con i grandi, all’idea di addestrare eventuali promesse. Il Fanfulla, che è la squadra del suo paese (Lodi) gli propone di allenare gli Allievi, l’anno scorso, e di diventare il secondo allenatore della prima squadra, quest’anno, in Eccellenza. Accetta in entrambi i casi: «Sono grato al Fanfulla, molto. Mi ha dato l’opportunità di ripartire, da un’altra posizione ma sempre da un campo di calcio. Vado in panchina come dirigente, perché potrò prendere il patentino da allenatore solo a venticinque anni e ne ho ancora ventitré. Non è come giocare, ma è la cosa più vicina che possa esserci».

«Vado in panchina come dirigente, perché potrò prendere il patentino da allenatore solo a venticinque anni e ne ho ancora ventitré. Non è come giocare, ma è la cosa più vicina che possa esserci».

Il punto è che anche un cuore bizzoso deve fare i conti con la carica di un ragazzo che si era messo sulla pista di decollo così presto. Molto prima di quanto si possa immaginare, ricostruendo la sua carriera: «Il Piacenza mi ha preso quando avevo solo nove anni: lì ho fatto le giovanili». Un investimento a lungo termine di un club che a un certo punto fallisce e quindi perde il suo giocatore, che si trova svincolato a finisce alla Reggina ed è già nel giro di chi potrà sfondare nel mondo del pallone. Fino a quell’agosto, che lo ha portato a fermarsi, ma che non l’ha battuto: perché adesso Andrea si è messo in testa di potercela fare ancora. Ha insistito, ha deciso di andare fino in fondo perché di quella cicatrice sul cuore non si sa nulla di più e lui invece vuole sapere tutto. Non si sa se c’è un premio per tanta ostinazione, ma intanto c’è uno spiraglio e se l’è trovato da solo: «Ho scelto di capire, a ottobre sono andato al San Raffaele e mi hanno fatto una biopsia al cuore. Si è scoperto che non è un problema genetico, di quelli che non ti lasciano nessuna speranza. È un virus, invece. Devo stare sei mesi a riposo assoluto, tornare ad aprile e vedere se sono guarito o se devo passare per le cure antivirali». Quasi all’improvviso la possibilità di rimettersi in discussione: senza illudersi, perché di crolli ne ha già visti e non è il caso di esagerare con l’ottimismo. Però confidare nella svolta è possibile: «Giocare a calcio da professionista è il sogno di ogni ragazzo che comincia. Io ci stavo riuscendo, stavo realizzando quello che avevo sognato e mi sono dovuto fermare. Vorrei tanto riprendere l’inseguimento. Non so cosa accadrà, ma almeno posso provarci».

Da questo momento è tutto un punto di domanda: c’è un curriculum fermo, un allenatore in erba e una promessa che ha smesso di esserlo troppo presto e non per colpa sua. Che ha vissuto la paura e ora punta sul coraggio. Questi giorni appartengono al gigantesco conto alla rovescia che, dovesse andar bene, lo porterebbe a una seconda fase della carriera, incerta, sì, ma seconda fase: «Paradossalmente sono più coperto dai rischi di altri calciatori, avendo un defibrillatore che entra in azione dovesse esserci qualche problema. Ma se un giorno dovesse arrivarmi di nuovo l’idoneità per andare in campo, dovrei andare all’estero, perché in Italia con quello non si può giocare. In Germania sì, in Olanda pure, in Inghilterra mi pare di sì, ma mi sto informando su tutto». Vale ogni tentativo fatto fino in fondo, perché Andrea Lussardi voleva solo giocare a calcio, e vuole farlo ancora.
 

Nell’immagine in evidenza: Lussardi in azione con la maglia della Reggina.

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