Cultura | Dal numero

Trust di Hernan Diaz, vincere un Pulitzer scrivendo di soldi

Intervista allo scrittore che ha fatto di una storia di Wall Street del Novecento uno dei candidati al titolo di Grande romanzo americano.

di Francesco Gerardi

Con Trust, Hernan Diaz ha violato un tabù antico quanto la modernità: non si parla di soldi, né dei propri né soprattutto di quelli degli altri. Perché è volgare e perché è sconveniente. Con Trust ha vinto anche un Pulitzer, ma la cosa che lo soddisfa di più è la sensazione di aver cominciato a riempire un vuoto nella letteratura americana. A lui non interessava parlare di ricchezza, di lusso, di sfarzo: «Mi interessava soltanto parlare di soldi». Non di cosa i ricchi se ne fanno, dei soldi. Ma di come i ricchi li fanno, i soldi. Per farlo è tornato indietro nel tempo, fino al 1929, anno in cui comincia la fortuna del finanziere Andrew Bevel. Da lì in poi, Diaz ha usato la lettera, il diario, il memoir, il flashback, la detective fiction per raccontare la storia più vecchia del mondo. Quella di una famiglia. E dei suoi soldi.  

Trust è stato definito il manifesto del “realismo del capitale”. È una definizione nella quale ti ritrovi?
La trovo una definizione esilarante. Trovo esilarante che il mio romanzo venga considerato il manifesto di un movimento letterario che non esiste. E anche se esistesse, questo movimento, io di certo non ne farei parte. Perché non ha più senso scrivere in forma realista. La nostra esperienza del mondo, dalla Rivoluzione industriale in poi, è diventata frammentaria. O meglio: si è infranta, è stata frantumata, abbiamo perso la percezione e la consapevolezza dell’unità sociale che aveva caratterizzato l’umanità fino a quel momento. Il romanzo contemporaneo nasce da qui, dalla divisione della realtà seguita alla divisione della società operata dal capitalismo. Ritornare a parlare di “realismo” mentre raccontiamo l’era del tardo capitalismo è, come dicevo all’inizio, un esilarante esercizio di anacronismo.

Quindi non ritieni Trust un romanzo realista?
No, non penso affatto che lo sia. Al suo interno ci sono troppi movimenti tra forme diversi e stili differenti e voci distanti. Ci sono tanti vuoti tra un capitolo e l’altro. C’è una sostanziale mancanza di coesione e di completezza che lo rende irreale. Non può essere un romanzo realista in nessun modo e in nessun senso. Chiunque lo abbia definito così non ha il mio endorsement [ride, nda].

E cosa pensi invece di chi definisce il tuo romanzo come una delle prove che il capitalismo e la ricchezza sono argomenti divisivi anche negli Usa, ormai?
Penso che il capitalismo e la ricchezza siano sempre stati argomenti divisivi negli Stati Uniti. Chi pensa il contrario lo fa perché separa il capitalismo americano dalla sua stessa origine e premessa, vale a dire la schiavitù. E non riesco a pensare a niente di più violentemente, crudelmente, ontologicamente divisivo. Ma pensa anche alla cosiddetta età dell’oro del capitalismo americano, che va dal 1880 all’inizio del Novecento. La disuguaglianza era tale che davvero possiamo immaginare che non fosse un argomento divisivo? Che la ricchezza non fosse un muro che separava la società all’interno? È in quegli anni che alcune, pochissime persone iniziano a godere di lussi sconosciuti fino a quel momento della storia umana. Altre, moltissime persone continuano invece a vivere nello stesso squallore premoderno di sempre. 

Forse la nostra percezione è falsata perché è mancato un vero e proprio racconto letterario del capitalismo?
Ma esiste una tradizione letteraria che racconta tutto questo. Pensa ai classici della letteratura sociale americana. Pensa a Erskine Caldwell. Pensa a Upton Sinclair. Pensa a Theodore Dreiser. Questi autori scrivevano già all’epoca con una perfetta consapevolezza della disomogeneità sociale che caratterizzava, e caratterizza, gli Stati Uniti. Che d’altronde sono il Paese della Grande Depressione. Ancora una volta, davvero possiamo pensare che per chi ha vissuto, ed è sopravvissuto, alla Grande depressione, il capitalismo, la ricchezza, la povertà non fossero argomenti divisivi? Il fatto stesso che io abbia potuto ambientare il mio libro negli Stati Uniti della prima metà del Novecento e risultare comunque attuale dimostra proprio questo: la discussione che stiamo portando avanti in questi anni sul capitalismo, la ricchezza, la povertà, la disuguaglianza, la redistribuzione non è nulla di nuovo.

Non credi quindi ci sia un nuovo anticapitalismo in Usa e nel mondo?
No, non credo. Almeno, io non lo vedo come nuovo. Penso si tratti sempre, si sia sempre trattato, e forse si tratterà sempre di una minoranza. In Trust ho infuso questa mia convinzione nel personaggio di Ida Partenza, la protagonista della terza parte del romanzo. È un’anarchica italiana che insiste nel combattere una guerra, nel lottare per una causa che già all’epoca sono entrambe perse.

Come mai hai scelto proprio un’anarchica italiana per incarnare questa tua convinzione?
Perché storicamente il coinvolgimento degli italo-americani nei sindacati dei lavoratori e nelle organizzazioni sociali è sempre stato notevolissimo, sia per quantità che per qualità dell’impegno. Un impegno politico che, ma qui so di dire una banalità, penso che a livello collettivo e mondiale fosse assai più evidente e influente di quanto sia oggi. Penso che quello sia stato un momento storico in cui la contestazione del modello socio-economico capitalista fosse molto più evidente di qualsiasi cosa stiamo pensando, dicendo, vedendo e facendo adesso.

In tanti hanno detto anche che con il tuo romanzo hai violato uno dei pochi tabù che ancora esistono: quello che circonda i soldi. Come si fanno, come se ne fanno di più.
Lo capisco. D’altronde, se ora ti chiedessi quanti soldi hai nel conto in banca, ti sentiresti piuttosto a disagio, no? È un tabù condiviso da tutta l’umanità. C’entra la vergogna, ovviamente: si guadagna sempre troppo oppure troppo poco, tutti noi percepiamo il fatto che qualsiasi risposta alla domanda “quanto guadagni” sarà sempre quella sbagliata. Dall’altro lato, credo che il nostro imbarazzo nel parlare di soldi venga dal fatto che il discorso attorno agli stessi tende verso una presunta oggettività. Che ovviamente esiste: ci sono aspetti del denaro, del guadagnarlo, del conservarlo, dell’aumentarlo, che sono estremamente complicati e quindi richiedono di essere discussi con un rigore semiscientifico inaccessibile alla maggior parte delle persone. Ma è anche vero che non tutto ciò che riguarda il denaro è così complicato. Nel dibattito pubblico contemporaneo c’è questa spinta a far sembrare il denaro un questione arcana, esoterica. Tutto questo poi si traduce ovviamente in reticenza: quasi tutti, quasi sempre, ci sentiamo degli idioti quando parliamo di soldi, perché il dibattito pubblico sui soldi ci porta a sentirci così. Da questo punto di vista, credo esista in effetti una specificità americana. 

Quale?
Da un lato, c’è questo imperativo semireligioso del guadagno. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Weber non è diventato un classico per caso. Quindi abbiamo, da una parte, questo “dittico” in cui si ha l’ardore di accostare il profitto e la divinità. O, quantomeno, si ha il coraggio di affermare che una cosa non esclude l’altra. Ma dall’altro lato abbiamo anche questo sentimento puritano, che insegna che l’orgoglio è il peggiore dei peccati: è quello che precede la caduta. Tutto questo crea una distorsione, che possiamo vedere anche nella storia della narrativa e, in generale, della cultura americana. Una distorsione generata dall’impossibilità di conciliare la  spinta accumulatrice e l’introiettato divieto di esporre in maniera ostentata i segni della ricchezza. Se dovessi dare una definizione di “old money” in America, darei questa. 

Non pensi sia emersa in questi anni una nuova rappresentazione della ricchezza, soprattutto in America? Penso a film come Il petroliere, serie tv come Succession, White Lotus, Billions.
Innanzitutto: Il petroliere è uno dei miei film preferiti, ma dobbiamo pure ricordarci che è basato su un romanzo di Upton Sinclair intitolato Oil!, pubblicato negli anni Venti. Come dicevamo prima: non stiamo raccontando niente di nuovo, queste cose non stanno succedendo adesso e a noi, succedono da due secoli a tutti. Per quanto riguarda gli altri esempi che hai fatto, Succession, White Lotus: penso che sì, mostrano la ricchezza, ma questa non è certo una cosa nuova. Mi vengono in mente quasi tutti i romanzi di Edith Wharton, per esempio. Ma potremmo parlare anche dei romanzi di Henry James o di quelli di Francis Scott Fitzgerald o di quelli di Bret Easton Ellis. La ricchezza è sempre stato un tema presentissimo nella storia della letteratura americana. Ma c’è differenza tra raccontare l’essere ricchi e raccontare il fare soldi. 

E qual è?
Ti faccio un esempio: pensa alle soap opera. A qualsiasi soap opera: americana, messicana, venezuelana. Sono tutti racconti di ricchezza, di disparità tra classi. Cosa voglio dire con questo: la ricchezza è pop, lo è sempre stata, lo sarà sempre. Il vuoto che io avvertivo e che mi ha spinto a scrivere Trust riguardava altro. Sentivo, vedevo una ritrosia a entrare nel labirinto del capitalismo, dell’arricchimento, del fare i soldi. Quando ho iniziato a scrivere, le domande che mi facevo non erano quelle che di solito si fa una scrittore: chi sono questi personaggi, cosa sono le loro storie. Mi chiedevo, invece, chi fossero gli operatori, cosa fossero le transazioni all’origine della ricchezza per come la intendiamo oggi e che effetto hanno sulla sul “racconto pubblico”. Queste, credo, sono cose che rimangono ancora inesplorate. E non credo che Il petroliere, Succession o White Lotus o i tanti altri esempi che potremmo fare esplorino questa terra incognita. Anzi, da un certo punto di vista fanno il contrario di quello che volevo fare io con Trust

Cioè?
Sono racconti basati anche sulla fascinazione. Sulla curiosità. Sul sapere com’è l’interno di un jet privato, com’è arredato l’appartamentone, come si fa la manutenzione di un’isola privata. Alla critica delle cose che mostrano si affianca anche un’amplificazione delle stesse. La ricchezza viene raccontata con libido, con desiderio. Finiamo a desiderare ciò che guardiamo, anche se le intenzioni iniziali di chi racconta erano altre. Tra coloro che desiderano mi ci metto anche io: sono un fan sia di Succession che di White Lotus. Desideriamo uno scorcio di quel mondo. Che è esattamente quello che io non volevo fare con Trust.

È una fascinazione che pensi esisterà sempre?
Certo che esisterà sempre. È una fascinazione che precede la contemporaneità, non ha a che fare solo con il tardo capitalismo. Tu vivi in Europa e sei europeo. Tutti i grandi monumenti che vedi attorno a te quando cammini per la strada, tutti quanti, cristiani e precristiani, sono monumenti all’estrazione del plusvalore. Parliamo di civiltà fiorenti che espongono la loro ricchezza, usando il divertimento – pensa al Colosseo – o la religione – pensa alle cattedrali – come pretesto. Ma in entrambi i casi si tratta di una raffinatissima forma di consumo ostentativo. Io parlo essendo uno scrittore americano, ovviamente. Ma credo che ci sia una certa ansia, nel mondo, di fare di questo consumo ostentativo una peculiarità americana: il grattacielo pacchiano, capisci? Ma ogni volta che qualcuno mette sul tavolo della discussione questo argomento, io gli consiglio sempre di andare a visitare il Vaticano. Dimmi che quella che si vede lì non è un esagerato sfoggio di ricchezza per il gusto dello sfoggio di ricchezza.

Mi vuoi dire che il Vaticano è stata una delle tue ispirazioni per Trust?
Sono state tante, le ispirazioni. Le più grandi le avrai già intuite da quello che ti ho detto prima: scrittori e scrittrici che hanno vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, Henry James e Edith Wharton soprattutto. E poi moltissime donne, soprattutto dell’alto modernismo, che sono state fondamentali nella costruzione di Mildred, il personaggio per me centrale del romanzo. Parlo di Jean Rhys, Gertrude Stein, Virginia Woolf, Sylvia Townsend Warner. Ho riletto Adorno e Wittgenstein, perché li ritenevo necessari per comprendere quel mondo e quell’epoca. Ma devo ammettere che la musica esercita su di me un’influenza quasi pari a quella della letteratura. Sono un amante di quella avanguardistica degli anni Venti e Trenta del Novecento. Sono un appassionato della Seconda scuola di Vienna, soprattutto. E poi i film. Mia moglie è una regista, sa più lei di cinema di chiunque altro io conosca. Mentre scrivevo Trust abbiamo guardato assieme tante screwball comedy, e “vedere” quegli anni mi ha aiutato ad acquisire consapevolezza degli interni dal punto di vista del design: delle case, degli uffici, etc. E poi c’è stata ovviamente una parte di ricerca sul campo: sono stato a casa di tycoon, ho visto come e dove vivono, cosa e perché consumano.

Avendo scritto un libro sul vecchio capitalismo, pensi ci stiamo avvicinando alla fine di questo modello? O alla nascita di uno nuovo?
No, a entrambe le domande. Il profitto resta l’imperativo, il resto sono aggiustamenti minori. Credo che la sopravvivenza del capitalismo stia in una delle sue tantissime versioni emerse nel Novecento. Prendi la Svezia o la Germania o l’Italia: sono Paesi capitalisti? Certo. Ma hanno servizi sanitari nazionali, scuole pubbliche, stato sociale. Sono convinto che per sopravvivere dovrà per forza di cose emergere un capitalismo dal volto umano. Perché c’è un altro imperativo che resta sempre, oltre quello del profitto: quello di creare e vivere in una società meno dolorosa.

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