Cultura | Letteratura

L’ultimo baule di Hemingway

È stato ritrovato allo Sloppy Joe's di Key West, Florida, bar tra i preferiti dello scrittore e ora meta turistica per gli appassionati: un baule pieno di lettere, appunti e cimeli che aggiungono nuovi dettagli alla sua già raccontatissima vita.

di Giulio Silvano

Nell’autunno del 1956 il direttore dell’hotel Ritz di Parigi contattò Ernest Hemingway e lo convinse a riprendersi due bauli da marinaio che aveva lasciato lì negli anni Venti. Dentro, tra le altre cose, c’erano pagine e appunti sui suoi anni francesi, sugli incontri con Ezra Pound e Picasso, sui pomeriggi da Gertrude Stein e sui viaggi con Zelda e Scott Fitzgerald. Hemingway lavorò fino alla morte a questi appunti che chiamava Paris sketches, pubblicati poi postumi dalla vedova Mary col titolo di Festa mobile. A questo libro si deve il nostro immaginario di quegli anni parigini e il film Midnight in Paris di Woody Allen.

La vita errabonda di perenne expat ha fatto sì che di Hemingway restino ancora sparsi per i suoi bar e alberghi preferiti valige e scatoloni piene di cimeli, manoscritti e documenti, tra il Floridita e Place Vendôme, tra Stresa e il Sobrino de Botin. L’ultimo baule di questa caccia al tesoro è spuntato fuori in Florida, nel magazzino di Sloppy Joe’s, l’abbeveratoio dove passava le sue serate tra la scrittura di Avere e non avere e le spedizioni per pescare i marlin nel golfo del Messico. Nel 1939, con la fine del matrimonio con Pauline Pfeiffer, Hemingway lasciò lì dei bauli che non riprese mai. Lo Sloppy Joe’s è diventata una delle location chiave del turismo hemingwayano. Qui, da oltre quarant’anni, si ritrovano i sosia dello scrittore, che cercano di vincere il premio di look-alike, con barba bianca e camicia da safari. A luglio è stato premiato l’avvocato Jon Auvil, che si è presentato con un maglione chiaro da pescatore, battendo gli altri 123 concorrenti. 

In realtà la scoperta dei bauli non è una sorpresa, alcuni sapevano della presenza dei materiali nel magazzino. Dopo la morte dell’autore, nel 1962, Mary si presentò per vedere se c’era qualcosa che le interessasse, e si portò via alcuni oggetti e alcune lettere per sé e per la famiglia. Il resto lo lasciò a Toby Bruce, amico di Hemingway, perché se ne liberasse. I bauli passarono poi negli anni Novanta al figlio, Benjamin “Dink” Bruce che aveva già iniziato a creare un inventario del materiale insieme alla studiosa di letteratura Sandra Spanier. Dink è morto nel 2020 e i nipoti hanno deciso di vendere tutto l’anno dopo alla Penn State University. Ci si chiede come mai Mary, in primo luogo, lasciò lì, nel retro di un bar, quello che oggi ha fatto diventare la biblioteca a Philadelphia uno degli archivi più ricchi sullo scrittore americano, insieme a quella di Princeton e alla John F. Kennedy Library di Boston, dove ci sono anche i manoscritti dei quarantaquattro finali alternativi di Addio alle armi. Dopotutto Hemingway, oltre al Nobel, aveva ottenuto già in vita una fama che pochi romanzieri hanno avuto e questi documenti, rimasti lì per ottant’anni, ora consultabili, contengono altri tasselli della già raccontatissima vita, pane per biografi, accademici e lettori curiosi. Nella montagna di carte – Hemingway non buttava via niente – è stato trovato: un dettagliatissimo giornale di pesca, i primi racconti scritti quando aveva dieci anni, biglietti delle corride, un’uniforme della Croce Rossa americana indossata in Italia, dattiloscritti incompleti di Morte nel pomeriggio, un assegno per il cofondatore di Esquire, Arnold Gingrich, per sistemare una scommessa di pugilato, e diversi racconti, inediti, non sempre finiti. In uno di questi troviamo il quasi amico e rivale Fitzgerald come personaggio, trasformato in un giovane pugile chiamato Kid Fitz, preso in giro per il suo fisico. E poi lettere – a familiari, a Dos Passos, a Mirò – e molte fotografie, tra cui alcune sul fronte, a Fossalta di Piave, con Hemingway giovanissimo, pochi giorni prima di rimanere ferito. Altre invece a Madrid, negli anni Trenta, dove lo scrittore andava dalla Florida per coprire la guerra civile e vedere i toreri in azione. Altre ancora durante i primi safari, mentre tiene su la testa di un leone. Della Tanzania e del Kenya ci sono anche fotografie scattate da Hemingway stesso, di elefanti e della seconda moglie nella savana. Una scatola, poi, conteneva alcuni oggetti dell’infanzia, tra cui una ciocca di capelli dell’autore raccolta dalla madre e la testa del suo giocattolo preferito, un cane di pezza con cui ha dormito fino ai sei anni. 

Hemingway si sparerà in testa nel 1961, in Idaho, dopo diversi tentativi di alleviare la depressione. Tra i ritrovamenti più interessanti ci sono alcune pagine sulla morte che anticipano di molto i pensieri sul suicidio. Questi appunti, scritti quando aveva 26 anni, pochi mesi prima che pubblicasse Fiesta, che gli diede un notevole successo, mostrano che l’angoscia per la morte e il pensiero del togliersi la vita erano già ben radicate in lui, prima dell’alcolismo e della Seconda guerra mondiale e dei divorzi. Tra l’altro dovranno ancora passare due anni prima che suo padre si suicidi, e questo è utile per i biografi, perché significa che non è stata la morte del padre a scatenare questi impulsi di autodistruzione, come spesso è stato scritto. Nei fogli Hemingway scrive a matita che cadere in mare da un transatlantico, di notte, è una morte perfetta, «a meno che non si riesca a organizzare un modo per morire mentre si dorme». Poi aggiunge: «Per così tanti anni avevo paura di morire ed è davvero piacevole essere senza quella paura. Certo, potrebbe tornare in un qualsiasi momento». 

Il fatto che Hemingway fosse un accumulatore seriale e che non buttasse nulla permette a distanza di tempo di scavare nella sua mente e di aggiungere episodi a un’aneddotica che continua ad affascinare e ad attirare il pubblico, così come facevano i suoi romanzi e le sue avventure quando era in vita, che fosse in Germania alla guida di un gruppo di partigiani francesi o nei viaggi, esemplare massimo del macho che caccia e pesca e tira a boxe, pur mantenendo quella tenerezza nostalgica che diventa midcult ne Il vecchio e il mare. Il documentario in tre parti di Ken Burns, uscito l’anno scorso per la Pbs, il film presentato a marzo e girato a Venezia con Liev Schreiber e Matilda de Angelis, trasposizione di Di là dal fiume e tra gli alberi, e la produzione appena iniziata di una serie biografica che sarà diretta da Robert Zemeckis mostrano che il mito di Hemingway non tramonta, anche se oggi, per via dello spirito del tempo, vengono messi più in luce gli elementi più psicologici, i lati dark, la sofferenza delle mogli e le questioni di genere. Non più celebrazione della mascolinità fisica o della nuova lingua modernista, quanto della complessità interiore. Il mito non tramonta, forse, anche perché non c’è più stato uno scrittore, da allora, che sembra aver vissuto la vita così appieno, con tutte le sue tragiche sfaccettature. Come scriveva nella prefazione di Addio alle armi: «Il fatto che il libro fosse tragico non mi rendeva infelice perché ero convinto che la vita è una tragedia e sapevo che può avere soltanto una fine».