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C’era una volta Hemingway a Stresa
Martini dry, sorprendenti amori e scommesse: questa è la storia che lega lo scrittore americano al Grand Hotel des Iles Borromees.
Sparse per tutta l’Italia ci sono numerose targhe che fiere riportano la storica presenza in quel dato luogo, in un dato periodo, di Ernest Hemingway. Il nostro Paese infatti è stato quasi interamente visitato dallo scrittore americano durante le sue molteplici avventure e alcuni luoghi, bar, ristoranti, hotel, al pari di cibi e bevande, sono stati da lui amati e perciò entrati nelle sue opere da protagonisti, consacrandosi come elementi di uno stile ben preciso riconducibile al bello e al sincero. Nel 1918, all’eta di 18 anni, il giornalista in erba Ernest Hemingway, dopo vani tentativi di arruolarsi come volontario per la Prima guerra mondiale nell’esercito statunitense, riesce a entrare nella Croce Rossa e a farsi assegnare al fronte italiano con l’incarico di autista di ambulanze e altre attività logistiche. Da questa esperienza di vita trarrà le emozioni e le informazioni per scrivere diversi racconti ma soprattutto il romanzo Addio alle armi. La trama ha molti punti di contatto con quanto vissuto dal suo autore e finisce per essere, in larga parte, una sorta di diario dal fronte del giovane Ernest ambientato nel nord Italia verso la fine del primo conflitto mondiale. Il parallelismo tra realtà e finzione, che ritroviamo in tutte le sue opere, è affascinante e svela molto del vero Hemingway. Milano, il caffè Cova, il ristorante Biffi, gli immancabili alcolici come il vino Capri bianco e il vermut sono spesso citati ma c’è un luogo che più di altri merita di essere conosciuto per la centralità che ha sia in Addio alle armi che nella vita dello scrittore stesso: il Grand Hotel des Iles Borromees di Stresa.
Nel libro il protagonista Frederic Henry, a seguito di una ferita alla gamba, viene portato all’ospedale della Croce Rossa di via Manzoni dove si innamora dell’infermiera inglese Catherine Barkley. Dopo un periodo di degenza, tra bevute e incontri clandestini con Catherine, fa ritorno al fronte. In seguito, dopo aver disertato ed essere sfuggito alla polizia militare gettandosi nel fiume Tagliamento, torna a Milano e apprende che l’amata Catherine si trova a Stresa. Decide così di andare da lei per fuggire insieme. Tolta la divisa e indossati gli scomodi abiti borghesi, una volta a Stresa Frederic Henry alloggia al Grand Hotel des Iles Borromees, luogo che aveva già visitato in passato e in cui ritrova una vecchia conoscenza, il barman Emilio, da cui si fa rinfrancare con una serie di Martini che gli danno una sensazione di “fresco e pulito” e lo restituiscono alla civiltà. I tempi del vino di fortuna e del formaggio al fronte erano finiti e un nuovo radioso futuro pareva stagliarsi all’orizzonte. Il protagonista è impressionato dalla bellezza dell’albergo e una volta ritrovata Catherine dormono insieme nella lussuosa camera. I problemi bussano presto alla loro porta e i due innamorati sono costretti a partire in tutta fretta per evitare l’arresto a causa della diserzione. Ma il giovane ex tenente Frederic Henry fa anche un altro importante incontro al Grand Hotel des Iles Borromees. Si tratta del conte Greffi, un aristocratico italiano di novantaquattro anni con cui gioca a biliardo, beve champagne e parla di vita e morte, saggezza e illusioni. Dopodiché il romanzo prosegue con la fuga per le gelide acque del Lago Maggiore fino alla Svizzera e al triste epilogo. Stresa e il Grand Hotel des Iles Borromees sono così uno spartiacque nella storia di Addio alle armi e nell’impiego del famoso coraggio hemingwayano: dalla volontà di assistere al conflitto in prima persona al cambio di priorità, con l’amore per Catherine e il futuro insieme a lei.
Passiamo ora a ciò che è successo davvero a Hemingway. Dopo essere stato ferito a una gamba per aver salvato un soldato italiano viene ricoverato a Milano all’ospedale della Croce Rossa americana di via Cesare Cantù – oggi, nella strada adiacente all’edificio, in via Armorari, c’è una targa che lo ricorda – e non in via Manzoni. Come nel libro, qui si innamora di un’infermiera (americana), Agnes Hannah von Kurowsky, un amore doloroso che lo segnerà per il resto della vita. Nel settembre del 1918 prende alcuni giorni di permesso per visitare la vicina Stresa e si reca al Grand Hotel des Iles Borromees, alloggiando nella camera 106 al primo piano (il caso vuole che la sua stanza all’ospedale di Milano fosse proprio la 106). Una suite molto ampia, con un grande terrazzo che si affaccia sul Lago Maggiore, come quella descritta nel libro. Non è difficile pensare a Hemingway in quei giorni mentre scrive su quel terrazzo una prima bozza del romanzo Addio alle armi, attingendo a quanto capitato e a quanto stava capitando intorno a lui. Conosce effettivamente due aristocratici italiani: il conte Greppi, con cui beve champagne e gioca a biliardo, e il conte Bèllia di Torino. In particolare viene colpito dalla minore delle tre figlie di quest’ultimo, Bianca Maria. A Stresa si instaura un bellissimo rapporto tra i Bèllia e il giovane americano, tanto che viene da lui definita come la sua famiglia italiana e viene invitato a passare il Natale da loro. Ernest si innamora di Bianca Maria, dimenticandosi per un momento di Agnes e spingendosi fino a una proposta di matrimonio, rispedita al mittente a causa dell’età della ragazza, allora diciassettenne. Il conte Greffi del libro trova quindi evidente riscontro per modi, luogo d’incontro e censo nei due nobili ma ciò che è ancora più curioso, almeno per noi italiani, è l’infatuazione di Hemingway per Bianca Maria, sentimento confermato dal nipote della stessa: il conduttore televisivo Massimo Giletti. Le giornate scorrono in ottima compagnia per il convalescente Ernest, scandite dai Martini del bar del Gran Hotel e dalle escursioni in barca nel Lago Maggiore, oltre l’Isola Bella fino all’Isola dei Pescatori che, forse in un eccesso di ammirazione, viene definita come “la più bella d’Italia”.
A trent’anni precisi da quella visita, nel settembre del 1948, Ernest Hemingway fa un romantico ritorno a Stresa e al Grand Hotel des Iles Borromees. Sono passati trent’anni ma il portiere quando lo vede entrare lo saluta come se non lo vedesse da un anno o poco più: «Bentornato signor Hemingway». Alloggia di nuovo nella suite 106 e accompagna la firma sul registro dei clienti con un nostalgico “An old client”. Anche questo secondo soggiorno è degno di nota e porta con sé un aneddoto che, come ogni volta che si parla di Hemingway, è più che “semplicemente” interessante. Dopo alcune bevute al bar si dirige alla sala da biliardo dove conosce altri due ospiti, Arnaldo Zamperetti e sua sorella Ornella, in città per partecipare al concorso di Miss Italia, presieduto da Totò. Hemingway sembra apprezzare molto la bellezza di Ornella e dice ad Arnaldo che senza dubbio sarà lei a vincere. Il fratello è più scettico, dice che a vincere sarà la triestina Fulvia Franco per motivi politici. Lo scrittore però è così certo del suo pronostico che decide di scommettere la sua personale stecca da biliardo con tanto di scatola e targa con nome inciso, a fronte del pagamento del conto al bar che, a quanto pare, causa le bevute fino al mattino, era particolarmente importante. A vincere sarà Fulvia e non Ornella, che invece arriverà seconda tra molte polemiche da parte di chi invece la vedeva come la più bella d’Italia. Ernest onora a malincuore la scommessa, non tanto per la stecca quanto per la sconfitta di Ornella, a cui fa recapitare comunque un mazzo di rose. Lo scrittore consegna il suo kit da biliardo e certifica il tutto con una cartolina che raffigura il Grand Hotel des Iles Borromees su cui dietro viene scritto: «La mia stecca va al mio giovane amico Arnaldo, in onore della sua bellissima sorella Ornella. Ho perso la mia scommessa e… ho pagato». Questa preziosa vincita è stata poi messa all’asta dal figlio di Arnaldo lo scorso dicembre.
Il Grand Hotel des Iles Borromees, aperto nel 1863, è un luogo d’altri tempi dove il relax regna sovrano e in cui si percepisce il prestigio e la storicità, nonostante i numerosi clienti da tutto il mondo sembrino relegarlo solo a hotel di lusso. Nei suoi oltre 150 anni di storia la facciata in stile liberty ha visto transitare reali provenienti da ogni parte del mondo, oltre che illustri personaggi come Gabriele D’Annunzio, Clark Gable, Charlie Chaplin e altri ancora. Quando George Clooney tradisce l’amato Lago di Como con il Lago Maggiore alloggia proprio nella suite 106, che oggi si chiama Suite Hemingway. Al piano terra c’è ancora l’elegante bar con bancone e alti sgabelli dove ci si può accomodare per bere Martini, mangiare mandorle salate e qualche sandwich, guardando fuori verso il giardino e il lago, proprio come faceva Ernest Hemingway/Frederic Henry. Anche se la Suite Hemingway è difficile – se non impossibile – da riservare a causa dei prezzi e delle fitte prenotazioni, ci sono altre camere più accessibili che possono aiutare chi è in cerca di pace ma soprattutto delle orme di Ernest Hemingway e di quel sentimento di bello e sincero che ha contraddistinto la sua vita e quindi le sue opere.