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Hate Watch

Dedicare tempo ed energia a tenere acceso il tuo odio per una serie TV: non è cullarsi nel brutto, ma aggrapparsi a desideri e fissazioni inesplorate.

15 Ottobre 2012

Un paio di episodi fa, all’interno di Glee, uno dei protagonisti lamentava la scarsa intimità col suo ragazzo appena trasferitosi in un’altra città, e lo diceva in questi termini: «l’unico momento in cui siamo in sintonia è quando guardiamo insieme Treme». Stacco sulla coppia che chiacchiera via Skype, ciascuno a casa propria, lagnandosi in tempo reale dell’ultima puntata di Treme. («I numeri musicali non finiscono mai!» «Sì, e c’è troppo poco zydeco!») Una rapida strizzata d’occhio a quelli che da casa guardano Glee nello stesso modo, mettendo un prodotto alto e sofisticato al centro delle critiche, al posto di una serie dove uomini adulti si fingono adolescenti mentre cantano e ballano.

Nell’episodio successivo di Glee quella coppia sarebbe stata distrutta in un modo peggiore e più pretestuoso che se fosse arrivato un Suv dal nulla e avesse seccato quello che tra i due stava dicendo «cosa devo fare perché tu capisca che ti amo?». Sui social network, questo ha significato la fine di Glee per come l’abbiamo conosciuto fino a lì, e la mia dashboard è stata rallegrata da fotografie di fazzoletti appallottolati e scorte di cibo grasso, con elevatissima ricorrenza di questa Gif animata. (E anche questa.) Ora sto ascoltando una tra le migliaia di break up playlist spuntate nell’arco di pochi giorni, dove tra Amy Winehouse e Damien Rice è stata messa “Bring it On Home To Me“. Il solito caso di iper-investimento collettivo nella storia creata da qualcun altro, che qualcuno considererà eccessivo, qualcuno normale.

La battuta originale della serie però non era proprio «… quando noi guardiamo insieme Treme». Era «… when we’re hate-watching Treme».

Hate-watch significa guardare con/per odio. Prima dell’estate la critica Emily Nussbaum usava il termine per definire il rapporto personale tra se stessa e il dramma musicale Smash, con cui era passata dal sincero affetto al nero detestare entro poche puntate, forse due (io non sono andata oltre l’episodio pilota, e le canzoni facevano schifo, tutte). La formula è piaciuta, e in giro hanno cominciato a vedersi liste dei 10 programmi più hate-watched; poi Louis C.K. si è unito al coro, raccontando la sua esperienza da consumatore e devoto hate watcher di Studio 60 on the Sunset Strip. Eccetera.

Se vogliamo restare su un piano di realtà, dobbiamo sapere che non è una novità né un fenomeno passeggero – gli annali della brutta televisione sono costellati di gruppi di ascolto dedicati a prenderla in giro, e poi di piattaforme come Television Without Pity; interi format televisivi a loro volta sono stati costruiti intorno all’accoppiata prodotto scadente / commenti sagaci, primo su tutti Mystery Science Theater 3000, anno 1988. La novità, qui, deriva dal livello di emozione nel procedimento.

L’odio nasce dal genuino (ma frustrato) desiderio di qualcosa di positivo. Un’aspettativa legata a un argomento che lo spettatore considera “buono”, “promettente”, alla presenza di nomi prestigiosi nel cast o nel gruppo di produzione. Alcuni oggetti di hate-watching – per rivolgersi solo al passato recente, agli ultimi mesi – sono stati The Newsroom (mezzo episodio pilota, poi ho spento e ho pensato a The Social Network), Girls (non è per me, restiamo amici), The Killing (alla fine la morta era figlia di chi?). Se The Newsroom ha pagato il prestigio dei realizzatori e un tono medio evidente dal terzo scambio di battute, e The Killing ha pagato un’assenza di soluzioni puntuali o precise, Girls ha pagato… non lo so, un eccesso di buone critiche preventive, forse? Un problemino di rappresentazione, unito all’astio verso la classe sociale delle giovani donne portate in scena. Un po’ come la conclusione di Entourage dopo otto stagioni aveva lasciato in lacrime chi si era abituato alla cazzonaggine raramente punita dei protagonisti, ma puntava in un payoff spettacolare, e sperava che l’ultimo episodio li vedesse tutti e cinque avvolti nelle fiamme. (E invece? Erano tutti felici, mi hanno detto.)

Se accetti che la TV sia un catalogo di minuscoli desideri e fissazioni inesplorate, accetti almeno ogni tanto il caldo abbraccio del brutto riconosciuto come tale ma capace di appagare un bisogno, o una serie di bisogni collegati tra loro (ti fa sentire più intelligente, ti permette di deridere gli stili di vita altrui attraverso la loro rappresentazione rigida e dall’esterno, soddisfa il desiderio fino a quel punto latente di sentire le Destiny’s Child cantate da maschi). Ma l’hate watching non ha nulla a che fare con la dimensione del piacere colpevole, con il più familiare tra i lo so, lo so, è brutto, lasciamene guardare un altro po’. Nessuno si è messo davanti a Dallas convinto di stare per assistere a un ragionamento equilibrato e di buon gusto sul futuro dell’energia alternativa.

L’hate watching nasce dalla delusione. È un confronto impari con qualcosa che esiste, su cui tu non puoi intervenire in alcun modo, salvo dire «tutto questo è orribile». Significa essere sempre arrabbiati marci con un prodotto che è destinato a deluderti, perché ti ha deluso dal primo, dal secondo momento in cui ci hai posato gli occhi addosso. Significa dedicare energia e tempo a tenere accesa la luce del tuo odio.

Il tempo reale aggiunge una dimensione precisa al processo. Esiste l’hate watching solitario, ma molto più spesso esiste l’hate watching sui social media (hashtag #hatewatching ), per cui l’orrore e lo sdegno diventano un appuntamento regolare, condiviso con estranei. In Italia pochi mesi fa c’era la serie Una Grande Famiglia, la cui esistenza ho scoperto quasi solo grazie al numero di persone che lo commentavano su Twitter, in tempo reale. (Hashtag #ungrandecanile ) E tutti a dire quanto fosse imbarazzante, quanto male fosse recitato, scritto, tutto. Qualcuno avrà accettato una relazione stabile con un prodotto che l’avrebbe fatto soffrire comunque, perché lui/lei non era lo spettatore giusto per quel prodotto; qualcuno avrà provato gusto nell’impadronirsi di quel ruolo, come, per dire, il recapper italiano che guardava Smallville perché sapeva che ne sarebbe uscito un riassunto divertente. Qualcuno avrà accettato di andare avanti a odio, perché mancano le alternative.

Torniamo un attimo a Glee, e al suo showrunner Ryan Murphy, creatore – solo nell’ultima manciata di anni – di Nip/TuckAmerican Horror StoryThe New Normal, nonché autore dell’adattamento di Mangia Prega Ama: se volessi esprimere quello che provo con le parole di qualcun altro, direi «Ryan Murphy è un gigantesco robot blocca-cazzo costruito in un laboratorio segreto del governo americano». Se volessi farmi capire un po’ di più, e fare uno sforzo maggiore in termini di autenticità, di quello che penso veramente, io direi «Ryan Murphy è stato mandato qui da un futuro catastrofico per strizzarti fuori dagli occhi ogni traccia della minima felicità tu possa aver mai provato in vita tua, e poi spingerti tutto il braccio nello stomaco e prenderti a calci mentre cadi a terra». Ecco, Murphy, che si considera hate watched da almeno una parte del suo pubblico, è arrivato a inserire nel testo battutine sul tema dell’hate-watching; è arrivato a dire «vi conosco, lo so che siete lì fuori», ma non per questo ha corretto il tiro su nulla. Lui sa bene che l’hate-watching può toccare soltanto le cose che passano in Tv, perché solo una storia televisiva da prima serata permette di dilatare il tempo del tuo odio, senza farti sentire il peso di tutto quello che stai investendo nella coltivazione di quell’odio. E i fenomeni simili nel campo delle storie di carta sono trascurabili – di nuovo, esiste chi s’è letto tutta Stephenie Meyer solo per parlarne male con cognizione di causa (lei), ma i numeri sono minimi rispetto a chi certi libri li ha letti perché gli piacevano, o perché almeno stimolavano l’istinto a fare di meglio.

Ecco, il limite – per me – dello sguardo di odio è che genera battute affilate, l’illusione della condivisione emotiva a volte; non genera nessuna forma di contenuto rielaborato dagli utenti, dalle breakup playlist ai tentativi di scrivere e disegnare altro, e, va da sé, ho la sensazione che resti tutto in superficie, ma che possa lo stesso, come nel caso di Smash, diventare massa critica. (Letteralmente: lo guardano solo quelli che lo odiano.)

Sarebbe bene, in un altro momento, parlare delle storie che implodono quando il loro creatore asseconda troppo i desideri dei consumatori più forti o più ossessivi. A un certo punto non è difficile immaginare che una storia imploda perché quel creatore decide di ascoltare gli hate watchers.

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