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La passione per le inezie di Yasmina Reza

In Italia per Serge, nuovo romanzo in uscita il 17 marzo, la scrittrice ci ha raccontato dell'umorismo che ha imparato in famiglia, degli scrittori italiani che le piacciono di più, di Milano, di Napoli e del perché nei suoi libri viene sempre citata Céline Dion.

di Lorenzo Camerini

Foto di Pablo Cuadra/Getty Images

È il momento di Serge, il nuovo libro di Yasmina Reza, al solito pubblicato da Adelphi, nella traduzione di Daniela Salomoni. Come tutte le opere precedenti della scrittrice parigina, anche Serge ci ricorda che siamo un ammasso di idrogeno, ossigeno e carbonio scaraventato su un pianeta che gira a circa centomila chilometri all’ora intorno al sole senza nessun motivo in particolare, che la nostra unica certezza è, presto o tardi, la morte ma che nonostante tutto, alla fine, non siamo poi così soli in questo universo. È anche la storia di tre fratelli che, un mese dopo la morte della madre, partono per un fine settimana in gita ad Auschwitz. Abbiamo incontrato l’autrice nel pomeriggio di un giorno feriale di fine inverno, al tavolo d’angolo del bar di un noto albergo in centro a Milano. Reza arriva in anticipo di un paio di minuti, elegantissima, è di ottimo umore, indossa occhiali da sole piuttosto chic. Durante l’intervista gesticola moltissimo, beviamo acqua naturale da una bottiglia di vetro.

Prima volta a Milano?
No, sono già venuta tre o quattro volte, ma solo per periodi molto brevi.

Le piace?
Non l’ho ancora capita, ogni volta vedo quartieri e pezzettini diversi di città.

A nome della cittadinanza, le do il benvenuto. Come le avranno detto spesso, i suoi dialoghi sono speciali. I suoi personaggi parlano una lingua vera, quella che si sente nelle conversazioni al bar o al ristorante. Mi chiedevo, le persone a volte sono un po’ in soggezione a parlare con lei? Le capita di sentire una bella frase in giro e aggiungerla a dialoghi che ha già scritto, solo per la musicalità delle parole?
No, no, nessuno è in soggezione, che io sappia. La gente lo sa da anni che io rubo le frasi. Mio padre, quando mi sentiva ridere per qualcosa che aveva detto, tirava fuori una penna stilografica dal taschino interno della sua giacca e me la porgeva.

Mi piacerebbe parlare del suo nuovo libro, Serge. Come le è venuta l’idea per questo romanzo?
Quando si scrive un libro, o almeno è così per me, non ci si sveglia una mattina con l’idea di come sarà il prodotto finito. È un’evoluzione sottile, con argomenti che si vanno via via ad aggiungere, e che danno spesso un risultato diverso dall’idea di partenza. La mia idea, in questo caso, era di scrivere qualcosa sul turismo di massa, un tema piuttosto vago che non sapevo bene come affrontare inizialmente. E poi volevo anche scrivere di un rapporto tra fratelli. Quindi avevo questi due temi, il rapporto tra fratelli e il turismo. Ho iniziato immaginando tre fratelli cresciuti in una famiglia ebraica, un argomento che conosco molto bene. Tutto questo poi ha dato, a poco a poco, forma a Serge.

Nella sua scrittura c’è molto umorismo ebraico: questo secondo lei deriva da un’educazione ebraica, se ne ha avuta una, o dalla lettura di autori ebrei?
Il mio modo di scrivere viene dalla mia famiglia. Io non ho avuto un’educazione religiosa, i miei genitori non erano religiosi ma avevano moltissimi amici ebrei che venivano dall’Austria, dalla Polonia, dalla Russia, da Israele e dall’Ungheria, e tutti avevano un determinato modo di parlare, un certo tipo di umorismo tipico, e questo ha prodotto una certa forma verbale, una musica, e da lì nasce la mia scrittura. Ho ritrovato più tardi, quando sono cresciuta, questo spirito nei libri di autori ebrei che ho letto.

Un’altra grande forza dei suoi libri è la capacità di descrivere piccoli universi, situazioni dove è molto facile riconoscersi, e lei è molto abile a farci empatizzare con le debolezze umane dei suoi personaggi. È una cosa che lei ricerca, farci empatizzare, o le viene naturale?
Provo empatia nei confronti dei miei personaggi, penso sia questo il motivo. Ho un’attenzione specifica per le piccole cose, è vero, perché la nostra giornata è fatta di cose molto piccole, direi l’80% della nostra vita: ci alziamo, ci laviamo i denti, controlliamo il telefono, cerchiamo gli occhiali. Poi ci sono gli screzi nelle relazioni, le parole dette in modo un po’ infelice… Piccole cose che sono insignificanti, ma anche immense. È questa la cosa che mi interessa di più.

Qual è la sua routine di scrittura?
Niente di speciale. Se ho un libro in lavorazione, cerco di scrivere tutti i giorni. Cerco (ride).

Non le serve una stanza, un drink in particolare?
No, no.

È un buona la prima, o riscrive parecchie volte i suoi libri?
Ho degli amici che scrivono il romanzo fino alla fine, poi si rileggono e correggono. Io invece non vado avanti finché non penso che la pagina che sto scrivendo sia buona, deve già andare bene prima di passare alla successiva.

In Serge ritorna quello che, secondo me, è uno dei suoi temi più classici: lo scetticismo verso chi sostiene che un libro, un film, un viaggio, un nuovo lavoro gli abbiano cambiato la vita. A me pare che nei suoi libri l’unica forza che può cambiare la vita delle persone è il legame con altri esseri umani. È così?
A lei sembra che i miei personaggi in Serge cambino?

Be’, Nana non viene cambiata dal suo lavoro, ma dal matrimonio con il signor Ochoa.
Ma quella è la visione di suo fratello! Magari poi non è la verità (ride).

In effetti… Cambiamo argomento. Le piace la letteratura italiana?
Amo molto la letteratura italiana. Fino a poco fa la leggevo in francese, e ci sono alcuni autori che ancora non riesco a leggere in italiano, come Pavese o Svevo. In compenso ho scoperto Natalia Ginzburg in lingua originale. Grande gioia. E ho riletto tutti i racconti di Buzzati, che adoro, in italiano.

Conosce qualche contemporaneo?
Poco, non perché non mi interessi. Non sono tanti i libri italiani tradotti in Francia. Mi piacciono molto alcuni testi di Erri De Luca, ma è troppo difficile da leggere in lingua originale.

Certo che lei parla proprio bene l’italiano.
Ma no, no, non lo parlo affatto bene. Ho imparato l’italiano perché ho un piccolo appartamento a Venezia e ho deciso di imparare la lingua. Ho preso lezioni, come una vera scolara.

Lei è amatissima qua da noi. Si è data una spiegazione?
Ma non lo so! È un regalo meraviglioso, ma non capisco bene il perché (ride).

Torniamo alla sua scrittura. È molto raro nei suoi libri leggere il background dei protagonisti, raramente conosciamo dettagli sulla loro infanzia. Durante la scrittura lei conosce il passato dei suoi protagonisti?
No. Non ne ho bisogno.

Come mai?
Quando incontri qualcuno dal vivo non hai bisogno di sapere dettagli sulla sua infanzia, le persone ti piacciono o non ti piacciono a prescindere da quello che sai del loro vissuto.

Nelle sue opere si dà molta importanza alle cose poco importanti, e pochissima alle cose più importanti. È solo uno stile di scrittura, o anche di vita?
Dipende dalle cose più importanti. Comunque sì, di solito mi interesso più alle inezie.

Lei non ha social network. Pensa che siano una perdita di tempo, o non le piace lo strumento?
Non ne colgo l’interesse, per quanto mi riguarda. Mi sembra in effetti una grande perdita di tempo. Troppi rumori, troppe opinioni: penso però che le opinioni siano la cosa meno interessante delle persone.

Spesso si chiede agli scrittori di dare opinioni sull’attualità. A lei succede?
Continuamente, ma io rifiuto sempre. Non ho nessuna competenza per parlare d’attualità. Quando si scrive, si mettono in scena istanze molto diverse. C’è la malafede, ci sono le contraddizioni. Se poi un autore sviluppa un discorso parallelo a questo, un discorso oggettivo, dal mio punto di vista distrugge tutte quello che ha fatto nelle sue opere.

Sta lavorando a qualche nuovo progetto?
Ho appena scritto una pièce, il seguito di una storia di Felici i felici, dove torneranno alcuni protagonisti del romanzo. Adesso sono in vacanza.

Lei è qua per una settimana, in un tour promozionale. C’è qualcosa in particolare che pregusta di questo viaggetto?
Tornare a Napoli. C’è una certa magia a Napoli.

È molto diversa da Milano.
Vero. Per me Milano non è completamente in Italia, non so perché.

Chiacchieriamo un po’, infilo qualche banalità del tipo “Milano è una città molto internazionale”, Reza mi chiede informazioni sul mio accento, io le chiedo una dedica e un autografo sulla mia copia di Felici i felici. È quasi ora di salutarci.

Lei ha raggiunto quasi tutti gli obiettivi di uno scrittore, soldi, successo, premi, traduzioni internazionali. C’è qualcosa che non ha ancora ottenuto e le piacerebbe ottenere un domani?
Non è proprio qualcosa da ottenere, più da conservare: spero di poter continuare a mantenere l’ispirazione. Ho spesso paura che finisca, che un giorno non avrò più niente da dire o che non sarò più in grado di scrivere. Ecco, questo mi darebbe proprio fastidio.

Avrei un’ultima curiosità. Questa faccenda che Céline Dion ricorre spesso nei suoi romanzi è allegoria di qualcosa, o semplicemente le piace la musica di Céline Dion?
È buffo che lei lo chieda, perché nella pièce che ho appena scritto − la continuazione di Felici i felici, di cui le parlavo poco fa – ritorna ancora Céline Dion.

Ma allora vede che è un’ossessione!
Sì, è vero (ride). Il motivo è che io ho due figli, un maschio e una femmina. Oggi il maschio fa il cantante rock, ma da piccolo era un fan sfegatato di Céline Dion. Quindi Céline Dion ha urlato in casa nostra per anni. Io non ne potevo più, mio marito non ne poteva più, e quindi ho pensato che dovevo esorcizzare questo supplizio e trasformarlo in qualcosa di utile.

Ci salutiamo (mentre cerco, inutilmente, la mia mascherina in tutte le tasche) con questa frase che, a pensarci bene, è una buona descrizione della letteratura di Yasmina Reza. Quante volte oggi sentiamo gridare al capolavoro a vanvera? Parecchie, ahimè. Per una volta che ne viene pubblicato uno autentico, io non mi farei sfuggire l’occasione di investire una piccola somma in libreria.