Cultura | Società
Gioventù scollegata
Il tempo libero di tutti ma soprattutto delle nuove generazioni è stato monopolizzato dai telefoni. Iniziano però a spuntare delle iniziative per provare a disconnetterci. Rappresentano il futuro o è il passato che esala l’ultimo respiro?
«Quando sono arrivata alla Casa Cafausica – la dimora d’epoca in provincia di Lecce che la scorsa estate ha ospitato la residenza artistica internet-free Knock knock – mi faceva male il pollice per l’intenso scrolling dei giorni precedenti», racconta Giulia Lineette, giovane illustratrice che, assieme a una quindicina di altri artisti emergenti, ha aderito alla proposta di Riccardo Rudi di passare dodici giorni senza smartphone nell’ambito di un esperimento che è diventato performance artistica.
«Durante la residenza, abbiamo concordato nel dire che sentivamo la mancanza del telefono in tre situazioni: nei momenti vuoti, come aspettare di fare la doccia; quando volevamo andare da qualche parte e non potevamo usare né le mappe né le recensioni dei posti. E quando non potevamo verificare chi aveva ragione su qualcosa durante le conversazioni, perché non potevamo googlarlo. Sono tutti aspetti rivelatori: i momenti di pausa dimostravano come tendiamo a ricercare il telefono per un meccanismo di gestione dell’ansia; gli smarrimenti ci hanno dato l’occasione di constatare la voglia delle persone di essere ospitali e di raccontare i luoghi a voce; e soprattutto, l’impossibilità di fare fact-checking rendeva meno importante l’informazione, spostando il focus sul dialogo e il confronto aperti». Gli spazi di relazione e gli abissi di solitudine spalancati in quei giorni non hanno lasciato effetti troppo duraturi, almeno su Giulia. «Per un mese non ho guardato Storie Instagram, perdendo temporaneamente interesse anche per il social. Per il resto, le sollecitazioni giornaliere provenienti da Internet sono tornate subito normali in modo inquietante». Un’altra cosa inquietante è che a metà residenza, molti partecipanti hanno sognato di usare il telefono. «Io ho proprio visto l’interfaccia di Whatsapp, lo stavo usando per scrivere a mia mamma».
Sono numerose le iniziative di astinenza da Internet, in campo artistico, ma ancora di più educativo, rivolte a giovani che – a differenza di noi quarantenni – coi telefonini ci sono nati, e non possono neanche appellarsi al tempo d’oro degli stradari stropicciati e delle cabine Sip. Peccato che molte di queste iniziative («Abbiamo provato a stare una settimana senza smarthpone») presentino le classiche caratteristiche della challenge social, più che di una presa di coscienza politica e generazionale. Non è così per i giovani luddisti newyorchesi, una trentina di adolescenti che ha spontaneamente appeso il telefono al chiodo per incontrarsi la domenica a Central Park e dedicarsi a lettura, scrittura, discussioni e al sottovalutatissimo guardarsi attorno.
In Italia, l’istituto superiore Checchi in provincia di Firenze, da tre anni seleziona 8 studenti disposti a rinunciare al telefono per una settimana e li porta a vivere in un ostello fuoriporta tra escursioni dai monaci, nei boschi, o nei paesini ad attaccar bottone; quasi che, per poter affrontare questa privazione eccezionale, ci sia bisogno di altrettanto eccezionali condizioni, o di una esplicita metafora di scioglimento nella natura. Il liceo Malpighi di Bologna è stato forse più efficace – ma anche totalitario – e ha vietato l’uso di telefoni sia agli studenti che ai professori, con l’effetto di vedere per la prima volta in cortile uno strano paesaggio umano di corpi eretti: non ricurvi sugli schermi. A conferma che qui da noi la totalità delle esperienze di astinenza organizzate, salvo coinvolgere giovani consenzienti, sia frutto dell’iniziativa di insegnanti, presidi o genitori illuminati.
La rete dei Patti Digitali, che unisce il Centro di Ricerca Benessere Digitale dell’Università Bicocca con altre associazioni attive nell’educazione ai media, lavora dal 2022 per diffondere sul territorio nazionale regole sottoscrivibili da tutti per un uso diverso della tecnologia da parte di bambini e ragazzi. Ad oggi, oltre 200 realtà -–associazioni di genitori, comitati locali, comunità scolastiche – hanno aderito ai patti. Tra le pratiche incoraggiate, disincentivare i videogiochi nella fascia 0-6 e rinviare la consegna dello smartphone alla terza media.
Stefano Boati, padre di quattro bambini e promotore a Milano del patto Aspettando lo smartphone, mi spiega che il movimento nasce da una sfida educativa inedita: è la prima volta nella storia che dei genitori si trovano a dover decidere come comportarsi con figli connessi, perché quando erano bambini loro questi strumenti non esistevano. Alla base dei patti c’è il ribaltamento della retorica dell’accesso generalizzato a internet come momento di democratizzazione: se durante la pandemia, infatti, l’idea di avere un dispositivo per non restare esclusi reggeva, dato che istruzione scolastica e relazioni scorrevano solo su canali virtuali, oggi sono i ragazzi delle famiglie educativamente più povere a ricevere il telefono per primi, e ad esservi poi abbandonati senza sorveglianza. Sono invece le famiglie più sensibili di 12 regioni italiane a mobilitarsi per un ritardo collettivo nell’accesso allo smartphone. Molti mollano a metà strada. «Mia figlia rifiutava il Nokia. Non voleva essere rintracciata senza il beneficio di scattare foto e chattare! Il mio telefonino vibrava continuamente con le varie chat “girlpower”, “BFF”, ma almeno le avevo sotto controllo. Poi però era diventato complicato accordarsi per andarla a prendere o stare calmi quando era in ritardo, così gliel’abbiamo regalato. Non mostrava di desiderarlo, invece quando lo ha ricevuto è impazzita di gioia». Nonostante i giovani prima di aderire al patto partecipino a incontri formativi a cura di Bicocca, ci sono anche casi estremi di ragazzi che si trovano soli in una classe connessa, e non dormono di notte per la Fomo, la paura di essere tagliati fuori.
Boati non volta le spalle a chi rinuncia, e sconsiglia categoricamente di togliere il telefono a chi ormai lo ha già avuto, ma è molto convinto: «Quando eravamo piccoli noi, andavamo in vacanza in macchina senza cintura e i nostri genitori inzuppavano il ciuccio nello zucchero. Poi tutti hanno capito l’importanza dei dispositivi di sicurezza e i pediatri hanno scoperto che zucchero e miele prima di una certa età fanno male. Coi telefoni è la stessa cosa: già da anni i pediatri parlano dei rischi sanitari dei dispositivi sui giovani. E la legge è concorde: legalmente, nessun bambino dovrebbe iscriversi a un social prima dei 13 anni, Whatsapp compreso. Il telefonino dunque serve a fare cose che alla loro età non si possono fare».
«La prima media è un anno molto importante per la nascita delle relazioni tra i ragazzi», mi racconta la prof di lettere di una scuola media milanese che ha aderito ai patti. «Quest’anno per la prima volta, mi è capitata una prima quasi totalmente smartphone-free. Da un lato, abbiamo dovuto rinunciare a usare il telefono per video legati alla didattica. Dall’altra, ho assistito a una socializzazione molto più sana: ogni anno, nella chat di classe scoppiavano incomprensioni e litigi, legati all’uso improprio del mezzo da parte dei ragazzi, che su Whatsapp portavano avanti prese in giro e cattiverie, bloccando alcuni compagni o escludendoli dai gruppi». La prossima mossa dell’ente è quella di lavorare sui patentini digitali, e cioè sull’educazione all’uso dei telefoni già dalla quinta elementare. Per ora, tuttavia, anche quando le prime medie partono compatte, dopo pochi mesi i genitori cedono a domino. «L’amichetta lo ha ricevuto perché i suoi si sono separati»… «Non può cambiare niente finché siamo persone isolate a farne a meno».
Non tutti i ragazzi hanno questa mentalità di gregge. Certo, sono complicatissimi da trovare, dato che non hanno il telefono o lo tengono spento. Quando però finalmente riesco a parlare con Giacomo, 14 anni, resistente al telefonino nonostante le suppliche dei genitori che perdevano sempre le sue tracce, lui mi racconta che si ricorda benissimo il momento in cui aveva 10 anni ed è arrivato TikTok. «Le persone intorno a me hanno cominciato a cambiare. Non so dire in che modo. Si sentivano importanti perché qualcuno le guardava nel telefono. A me già piacevano gli anime. E io una vita così non la volevo. Col tempo, ho trovato ragazzi simili a me che il telefono lo usano solo per chiamarsi il pomeriggio e ascoltare musica. Ho accettato da poco di avere uno smartphone perché volevo essere libero di uscire, ma lo uso solo per seguire i miei interessi su YouTube. Lo so che usare YouTube fa tanto 2018, ma non me ne importa. Ho perfino provato a iscrivermi a qualche social, cercare di capire cosa piace tanto a tutti, ma niente da fare. Mi sa che semplicemente non mi attira il modo in cui raccontano le cose. Forse è un limite mio. Per il resto, mi sono impostato da solo il limite di un’ora al giorno, e quando faccio i compiti vado in modalità aerea».
Molto comuni ai diversi tipi di soggetti disconnessi sono anche i risvolti e le strategie di risposta all’assenza di Internet, come quella di notare cose mai viste o parlare con gli estranei. Rudi, l’organizzatore della residenza Knock knock, che nella vita fabbrica libri di carta ma programma anche siti, mi ha spiegato che, proprio perché Internet oggi pervade la ricerca artistica sostituendosi alle fonti tradizionali, la sua idea era che le 17 persone coinvolte fossero una mini-Wikipedia, una banca dati vivente per lo sviluppo dei progetti dei singoli. «In realtà, dalla residenza ho eliminato anche l’obbligo di produrre, ma alla fine tutti hanno fatto qualcosa. Solo opere di cui si fruiva sul posto: improvvisazioni, freestyle, azioni non documentate che aumentavano la libertà e il senso di mistero. (Tutto questo in realtà mi ha fatto pensare a Snapchat, ma non glielo dico). Gli dico invece che, da nativa non digitale, io ho sempre avuto la presunzione mai verificata di poter tornare indietro in qualsiasi momento al mio cervello novecentesco e alla mia vita contemplativa, e che invece compiango i giovani perché penso che per loro sia impossibile, come per noi vivere senza corrente elettrica. Lui mi smentisce. «È stato più facile del previsto, perché lo spirito era quello del rehab. E poi c’era la natura attorno (le dicotomie non sono scemenze) che ci spingeva a rinunciare alla tecnica». A dirla tutta, un piccolo antidoto contro la Foto ce l’avevano: un Nokia 3310 su una mensola per avvisi urgenti, come “la nonna sta male” o “è nato tuo nipote”. «La sera salivamo tutti insieme sul tetto a guardare le stelle. Io mi sono accorto che non alzavo gli occhi al cielo da almeno un anno. Sì, ogni tanto pensavamo: sarebbe bello che i miei amici vedessero tutto questo, ma sticazzi». «Al momento di andare via, riaccendere i telefoni metteva tutti in uno stato di leggera angoscia. L’ultima idea di performance è stata quella di accenderli tutti insieme e farsi piovere addosso migliaia di notifiche». Anche se poi non lo hanno più fatto, l’immagine mi ha ricordato i finali di stagione de Il collegio, il reality dove un gruppo di teenager viene chiuso in un istituto all’antica, dove il set è ricreato di volta in volta come se ci trovassimo in un decennio diverso del secolo scorso. Ogni edizione si chiude con i ragazzi che, strappate di dosso le uniformi, corrono verso un banco dove sono appoggiati i loro smartphone luccicanti e decorati come appendici umane. Urlano, li prendono in mano, li baciano e saltano felici. Loro no che non hanno paura di riaccenderli dopo un mese.
In definitiva, citando l’ultima newsletter zio di Vincenzo Marino sui consumi dei giovani, quella che sui media è spacciata per una tendenza della Gen Z ad abbandonare le distrazioni social per abbracciare la rivoluzione purificatrice di dumbphone o featurephone (telefoni con poche funzioni essenziali), più che una tendenza è un wishful thinking di noi adulti alla ricerca della “notizia perfetta”. Questo novembre, il Light Phone II lanciato da un’agenzia riconducibile al rapper Kendrick Lamar è stato descritto dai media come «subito sold out», ma i modelli in vendita erano appena 250.
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