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Da quando è entrato in vigore il cessate il fuoco, le donazioni per Gaza si sono quasi azzerate Diverse organizzazioni umanitarie, sia molto piccole che le più grandi, riportano cali del 30 per cento, anche del 50, in alcuni casi interruzioni totali.
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Frida Kahlo è davvero un’artista?

Ha inaugurato l'1 febbraio al Mudec di Milano la mostra dedicata alla pittrice che è diventata un marchio, simbolo di un'arte che piace a tutti.

02 Febbraio 2018

Al Mudec di Milano ha appena inaugurato una grande retrospettiva di Frida Kahlo. Si chiama Frida. Oltre il mito e rimarrà aperta fino al 3 giugno. Una parte della mostra sarà accompagnata dal brano “Diego e io” di Brunori SAS che racconta la storia d’amore tra la pittrice e il muralista messicano Diego Rivera. A mio parere si tratta di una canzone mostruosa: è così brutta che la considero un’offesa personale. Frida Kahlo, invece, non si offende: ormai è abituata a questo tipo di trattamento. Dagli assorbenti ai calzini, la sua faccia è finita ovunque (per verificare: un articolo con tanti esempi). La sua testa è diventata la versione artsy, terzomondista e di sinistra (ma no, ha perso anche ogni connotazione politica) di Hello Kitty. Ha ispirato perfino un progetto editoriale italiano: Freeda Media. E mi dicono che quest’anno a Sanremo ci sarà una canzone dei The Kolors che si chiama “Frida (mai, mai mai)”.

Insomma: Frida Kahlo ha veramente rotto. Quasi arrivo a capire chi la odia e non la considera nemmeno un’artista. E se fosse immensamente sopravvalutata? «Frida Kahlo sta all’arte come Il Piccolo Principe e Il gabbiano Jonathan Livingston stanno alla letteratura» dice chi la detesta. E poi: «La sua pittura è piatta, didascalica. Tutto è facile e comprensibile: non lascia spazio all’enigma». Quadri facili + biografia travagliata + stile riconoscibile e fotogenico = il kit ideale da regalare a ogni ignorante che si approcci all’arte: la donna forte che ha sofferto, lo spirito indomito, l’artista femmina per eccellenza. «Messicana, bisessuale, comunista e sessualmente focosa fa la felicità di chiunque voglia di dimostrarsi politically correct e open minded. E i suoi dipinti? Esotici, colorati, piacevoli, pieni di animali, lacrime e cuori». E ancora: «A entusiasmarsi per l’ennesima retrospettiva di Frida Kahlo sono quelli che fanno la fila per vedere le mostre interattive di Van Gogh, con le stelle e i cipressi che ti vorticano intorno».

Tutto giusto. Ma l’istinto mi spinge a cercare di difenderla. È colpa sua se le sue opere si prestano a una lettura così semplicistica? Se i film che raccontano la sua vita fanno schifo? (Frida, Naturaleza Viva, del 1986, è lentissimo e soporifero,  quello del 2002 con Salma Hayek è piatto e superficiale). Poniamo che Frida Kahlo non sia una grande artista, ma un’illustratrice straordinaria. E allora? Resta una grandissima pop star. La sua biografia è oggettivamente affascinante. La spina bifida, gli studi per diventare medico, l’incidente a 18 anni (32 operazioni chirurgiche). La lunga convalescenza che la spinge verso la pittura.

L’autoritratto è figlio della solitudine, della noia e dell’insicurezza, come dimostrava un progetto su Instagram dell’artista Amalia Ulman (anche lei lo cominciò in ospedale, ricoverata dopo un incidente). E a proposito di selfie: cosa sono gli autoritratti se non i selfie prima dei selfie? Frida Kahlo anticipa Kim Kardashian: entrambe ossessionate dall’auto-rappresentazione, entrambe mogli di uno degli artisti più influenti del periodo storico in cui vivono. Diego Rivera come Kanye West. Oggi svalutato, in vita Rivera è stato molto più famoso di Frida. Grasso e brutto ma carismatico, la tradì perfino con Cristina Kahlo: sua sorella. I due divorziarono, ma si risposano dopo un anno. Come restare indifferenti di fronte a una storia d’amore del genere?

Certo, la commistione tra arte e impegno politico non entusiasma neanche me, anzi. Ma nonostante Kahlo sia stata, come suo marito, un attivissimo membro del Partito comunista messicano, a differenza di lui non ha mai intinto il pennello nella militanza politica. Ha adottato gli stilemi del muralismo, ma si è liberata della retorica dei suoi soggetti. Ha usato la semplicità di quello stile per decifrare se stessa, trasformando la sua personalità e la sua storia in un insieme di simboli. La sua pittura è un memoir. Guardare le sue opere, per me, è come guardare su Google Immagini le foto delle varie fasi della vita di Lindsay Lohan: non riuscirò mai a trovarle noiose.

Kahlo è stata una degli artisti e intellettuali che firmarono la richiesta di grazia per i coniugi Rosenberg, poi giustiziati per presunto spionaggio. I Rosenberg compaiono anche nell’incipit di La campana di vetro di Sylvia Plath («It was a queer, sultry summer, the summer they executed the Rosenbergs»). Un’altra artista inflazionata, consumata dall’uso, come la superficie di marmo di una statua che tutti, fedeli e turisti, strofinano con la mano. Un gesto leggero e frettoloso (una citazione qui, un post là, un travestimento per Halloween: fiori in testa, monociglio, smalto rosso), che però, a lungo andare, smussa gli spigoli e appiattisce tutto.

Sylvia Plath e Frida incarnano lo stesso stereotipo dell’artista tormentata, ambiziosa, tenace, sessualizzata. («Out of the ash I rise with my red hair / And I eat men like air», Plath in Lady Lazarus). Entrambe ispirano illustrazioni a tema floreale e imitazioni della capigliatura. Entrambe hanno amato uomini di merda: il poeta Ted Huges (almeno lui era un bell’uomo) è famoso per averne fatte suicidare ben due (la seconda è stata l’amante con cui ha tradito Sylvia per anni, Assia Wevill). Ma forse era soltanto uno a cui piacevano le donne fragili. Anche Huges era decisamente più famoso di Plath quando si conobbero. È morto nel 1998 e oggi, rispetto alla moglie, non è nessuno.

A differenza di Frida, Plath era frivola: a parte rari momenti di empatia, come quello coi Rosemberg, l’attualità e la politica non la appassionavano più di tanto. Si vestiva in modo abbastanza sobrio: uno stile difficilmente riproducibile. La riconoscibilità dello stile di Frida invece l’ha trasformata in una maschera carnevalesca. Se per travestirsi da Picasso basta una maglietta a righe e una testa calva e per fare Anna Wintour ci vogliono occhiali da sole firmati e caschetto liscio (basta togliere la frangia e si può riciclare per Joan Didion), per impersonare Frida servono gli attributi che sappiamo (anche un cane può riuscire a somigliarle). Non occorre certo rileggere L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica per capire cos’è successo: la sua immagine si è spogliata della sua sacralità, è diventata una Gioconda, un brand globale.

L’influenza sulla moda, i bar a tema, le emoticon ispirate ai 55 autoritratti realizzati durante la sua vita, l’appropriazione da parte di quello psudo-femminsimo pop che l’ha trasformata in una pin-up variopinta, i tatuaggi, le decine e decine di documentari su di lei, le centinaia di articoli. Basta. Avrei potuto renderle giustizia e parlare della sua pittura, ma non voglio rubare spazio al modo più sano per pensare a lei: la mostra. Con le cuffie nelle orecchie per non sentire la canzone di Brunori SAS, sarebbe bello provare a guardare veramente i suoi quadri (o le sue illustrazioni): per una volta lasciare che Frida Kahlo si racconti da sola.

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