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Francesco Piccolo e il maschio interiore

Abbiamo letto il libro che, molto probabilmente, entrerà con prepotenza nelle discussioni sul nuovo femminismo.

di Arnaldo Greco

Un gruppo di uomini si prepara a lanciare in aria una donna a West Beach, Michigan City, Indiana, 1955 circa (Foto di Three Lions/Getty Images)

Da quando ha vinto il Premio, la vita di Francesco Piccolo (il protagonista del nuovo romanzo di Francesco Piccolo, L’animale che mi porto dentro) va a gonfie vele. Piace alle donne, vende bene i suoi libri, è popolare e affascinante. È l’ospite atteso alle feste, quello che tutti si girano a guardare quando fa finalmente il suo ingresso. A una di queste feste, in Finlandia, fino a lì è arrivata la sua fama, una ragazza gli manda a dire che scapperebbe all’istante volentieri con lui. E per lui la cosa non è più stupefacente, chi non scapperebbe con lui d’altra parte? Ma forse ha esagerato stavolta, si è così abituato a piacere che la moglie lo accusa di sentirsi oramai “stocazzo”. E anche lui ha qualche dubbio. Perché non è già scappato – non per sempre, non lontano, ma almeno in un albergo – con quella ragazza? Non si ricorda che, in realtà, lui non è l’autore che ha vinto il premio, che piace, vende, fa ridere, è brillante? Lui è il ragazzino coi brufoli e la fimosi, quello disprezzato. È lui quello.

L’animale che mi porto dentro comincia pressappoco così per poi dirci che non è possibile emendarsi davvero da quello che siamo stati da ragazzini. Il nostro ambiente, come siamo cresciuti, gli uomini della nostra famiglia, la nostra provincia del Sud, i compagni dell’adolescenza – i peggiori soprattutto – saranno sempre lì, addosso, dentro, e ci diranno come fare, ci inviteranno a osare, sempre, anche per il solo gusto del gioco, provarci, provare a capire, se ci sta, se ci starebbe, anche solo per sfizio, per tenersi in allenamento, guardare, divertirsi, perché poi potremo raccontarlo. E anche se non lo raccontiamo a nessuno e lo teniamo per noi stessi è comunque come se lo stessimo raccontando a un ascoltatore interno, come se ce ne stessimo vantando davanti a una folla di ascoltatori, perché gli altri maschi ci sentono. Sono con noi, ci guidano e ci istigano. Ci rimproverano se non facciamo una cosa e ci giudicano. Dentro di me c’è la legge morale, chissà, forse, dentro di me c’è un daimon, probabile, dentro di me c’è l’animale e, per quanti libri possa leggere e studi fare, ci sarà sempre e troverà sempre un modo per essere nutrito, per fare capolino inaspettato: dirgli continuamente di non farsi più vedere è comunque ammettere che la sua forza è superiore alla nostra.

In ogni caso il nostro animale avvertirà sempre il richiamo degli animali che si portano dentro gli altri. E reagirà al loro appello. Anche quando sembrerà sopito, anche quando il protagonista si crederà diverso dagli altri maschi, sereno e risolto, l’animale sarà lì, anche quando penserà di essere ormai civile, desidererà diventare uno scrittore e avrà l’occasione di mostrare il proprio lavoro a Maria Corti, per un attimo l’animale gli farà balenare l’idea che piacere come maschio a Maria Corti, portarla a letto, sia più bello e importante che piacerle come scrittore. O – cosa ancora più assurda, terribile e inaccettabile – siano dopotutto la stessa cosa.

Si ride come in molti libri di Piccolo, ma qui anche la comicità lascia trasparire un segreto: che il riso è un’altra soluzione del gallismo per imporre un dominio sulle cose. E piacere. Essere finalmente attraente e desiderabile come non lo eravamo prima, e proprio perché non lo siamo stati. E ci dobbiamo vendicare. Di tutti e di tutte. Facciamo ridere perché siamo ancora i tredicenni che fanno ridere gli amici e le ragazze della compagnia sul muretto. E se una traduttrice finlandese ci manda a dire che scapperebbe volentieri con noi dobbiamo considerarla un’ipotesi plausibile. A patto di apparire stocazzo.

L’animale che portiamo dentro è addirittura la stessa energia vitale: quando il padre del protagonista regredisce, per causa di una malattia, a uno stato di demenza, ormai incapace di riconoscere perfino i parenti più prossimi, l’unico spirito che lo terrà in vita sarà quello del sesso. Un sesso idealizzato, senza forze, senza la capacità reale di concupire chicchessia, come quello di un bambino che scimmiotta i grandi per aver visto una scena che l’ha turbato. E che per qualche ragione a lui ignota non l’abbandona.

L’animale che portava dentro Battiato voleva te e voleva il caffè, l’animale che porta dentro Piccolo vuole sesso e dominio, o forse solo dominio perché anche il sesso è, in fondo, per lui solo una forma di dominio. Vent’anni fa andava in onda il primo episodio dei Sopranos (10 gennaio 1999) e anche un maschio per eccellenza, Tony Soprano, un padrino (quanto sarebbe comodo se i boss si facessero chiamare patriarchi), doveva accettare di non poter essere più sicuro di sé come Gary Cooper. Gary Cooper non doveva parlare di emozioni, non doveva ammetterne neanche l’esistenza, non finiva come Tony a confrontarsi con una psicanalista (di Caserta, chissà per quale caso bizzarro proprio come Francesco Piccolo).

Primo Carnera mostra i suoi muscoli (Keystone/Getty Images)

In uno dei momenti più emblematici di un libro fatto di momenti emblematici si gioca una partita di basket. Il protagonista, da mesi, ha una relazione clandestina con la ragazza di uno dei giocatori della squadra avversaria. Crede che nessuno dei suoi compagni lo sappia, che il ragazzo di lei non lo sappia, che nessuno al mondo lo sappia. Pensano che il bello di quella storia risieda anche nella sua segretezza. Lui rischia di farsi male di brutto durante la partita e teme non per la sua salute, ma perché il loro segreto potrebbe essere messo a repentaglio dall’eccessiva partecipazione di lei. Si è spaventata troppo, fossero in un romanzo l’avversario scoprirebbe così che lei è innamorata di un altro. Ma fortuna vuole che a Caserta non sono così svegli come nei libri. Poi la squadra di Piccolo vince la partita, tornano negli spogliatoi, e nell’euforia della vittoria qualcuno urla che quella gioia va raddoppiata perché non solo hanno vinto, ma vanno anche a letto con le donne degli avversari. Urla di giubilo ed entusiasmo. Il protagonista avverte la brutalità della scena, ma il suo moto per chiamarsene fuori è impercettibile, come se non gli appartenesse già più, vittima di ciò che ha innescato, ingranaggio di un meccanismo in cui una squadra sconfigge un’altra squadra in competizioni non solo sportive. Sesso e sport si danno forza e si sublimano l’un l’altro. Gli altri maschi sono sempre con noi. E sanno che anche quando parli di sentimenti, sono scuse, in fondo vuoi altro.

Non si può vincere sull’animale, al massimo si può sperare di comprenderlo. Si può perfino provare a integrarlo, coinvolgerlo quando è il caso, ma quello è il massimo. Sapere che è lì, che è normale, che potrebbe uscire e fare danni, ma che tanto poi tutto si aggiusta. Come dice l’unica donna che non viene conquistata nel libro cioè la moglie. Perché è lei che davvero tiene unito il protagonista, quello di prima che si sentisse stocazzo con quello che adesso si sente stocazzo. Può ricordargli senza neanche doverlo fare apertamente che per quante arie possa darsi sarà sempre quello che aveva i brufoli. È lei che opera la sintesi tra l’animale e i libri che, fin dall’adolescenza e lungo tutto il corso del libro, per Piccolo rappresentano l’unico modo per affrancarsi dall’animale.

L’animale che mi porto dentro entrerà con prepotenza nelle discussioni sul nuovo femminismo degli ultimi mesi. Non spetta di sicuro a chi scrive dire come debba essere accolto, ma quel che, invece, è certo è che siamo talmente abituati a sentir dire e parlare di libri, idee e pensieri controcorrente, patenti per giornalisti con la schiena dritta, bastian contrari di professione, persone che nascondono la propria vanità o il proprio (legittimo, ci mancherebbe) desiderio di potere dietro battaglie sacrosante che poi perdiamo totalmente di vista l’argomento di cui dibattiamo. L’animale che mi porto dentro è un libro di una libertà rara, feroce, a tratti quasi insostenibile – siamo davvero questa roba qui? Siamo davvero irredimibili? – che ci ricorda che scavare dentro se stessi non è lo scherzetto vanitoso a cui ci ha abituati l’abbondanza di confessioni private e pubbliche virtù degli ultimi tempi. Non ci sono banalizzazioni, ma neppure provocazioni. Non c’è paternalismo, né tentativi di edulcorare niente. Non c’è neppure il desiderio sempre più comune di imporre comunque il proprio dominio, ma attraverso la tenerezza, la sfiga quasi: amatemi perché sono goffo, non sono macho, sono goffo, ma intanto amate me comunque, fatemi essere ancora il protagonista.