Cultura | Fumetti

Francesco Artibani e l’arte del fumetto popolare

Dialogo con il fumettista, sceneggiatore e scrittore di W.I.T.C.H., in occasione dei 20 anni della serie.

di Gianmaria Tammaro

Dal n. 12, Per sempre sia, Francesco Artibani

Quando parla di fumetti, di storie e di scrittura, Francesco Artibani – classe 1968, nato a Roma – dice: «Non dobbiamo dare al pubblico quello che si aspetta. Dobbiamo sorprendere chi ci legge». Nel corso degli anni, ha lavorato a storie di Topolino e ha firmato grandi successi editoriali come Monster Allergy. Si è diviso tra editoria e animazione. Ha fatto da sceneggiatore per la serie animata di Lupo Alberto, ha lavorato alle Winx e a Pikappa, ed è stato uno degli scrittori di W.I.T.C.H..

In questi giorni, Giunti ha pubblicato un volume speciale per festeggiare i vent’anni della serie. «Quello che ha funzionato è stata l’universalità dei temi e dei contenuti della storia», racconta Artibani. «Non stavamo inseguendo nessuna moda; il nostro non era un racconto generazionale, fatto per un target specifico. W.I.T.C.H. parlava a tutti. Si affrontavano la crescita, le difficoltà di ogni giorno e la sfida di trovare il proprio posto nel mondo; e si discuteva di relazioni, di famiglia, di amicizia».

ⓢ Qual è stata la più grande lezione di questo esperimento?
È un errore anteporre il marketing alle storie. W.I.T.C.H. è particolarmente significativa sotto questo punto di vista. Il fumetto funzionava, non faceva nessuna distinzione. L’adattamento animato, invece, era sbilanciato tutto da una parte. Il pubblico, anche quello più distratto, capisce quando una cosa è costruita, artificiale e farlocca.

ⓢ Con questa serie avete violato uno dei grandi tabù dei fumetti Disney: affrontare la morte.
Volevamo proporre qualcosa di più ardito, sì, ma non era niente di così nuovo. Molti dei film Disney parlavano o accennavano già alla morte. Quando ho avanzato la mia proposta, è stata immediatamente accolta. In parte, avevamo fatto una cosa simile anche in Pikappa. E lì c’era stata una resistenza maggiore.

ⓢ Perché?
Perché toccavamo la mitologia disneyana, con i personaggi classici già conosciuti al grande pubblico.

ⓢ W.I.T.C.H. però è andata oltre.
Abbiamo messo in scena anche tematiche familiari particolari. Abbiamo raccontato la storia di una mamma separata, una cosa che all’epoca rappresentava una novità. Prendevamo in giro certi cliché e certi luoghi comuni. I personaggi affascinanti e carismatici non erano per forza buoni, e i personaggi più strani e più oscuri non erano per forza quelli cattivi. La narrazione si muoveva in una zona grigia, sempre a metà.

ⓢ In un primo momento la storia doveva essere ambientata a Paperopoli.
E le cinque protagoniste, queste cinque adolescenti dotate di poteri magici, erano affiancate da Paperina. Ma i disegni di Alessandro Barbucci erano così potenti, così nuovi, da funzionare tranquillamente da soli. Anzi, mettevano in secondo piano Paperina, che addirittura rischiava di indebolire la storia.

ⓢ Secondo lei, oggi perché un esperimento del genere non viene replicato?
Nell’editoria italiana pensiamo sempre a successi generazionali, con una collocazione precisa nel tempo. Viviamo di periodi ed è una cosa abbastanza paradossale. C’è paura, ecco cosa. Non si prova a rilanciare e a reinvestire. Ma si cerca di gestire il successo ottenuto, di amministrarlo senza esagerare. Non c’è il coraggio di lanciarsi in altre imprese. L’editoria a fumetti è profondamente insicura, soprattutto in Italia.

ⓢ In che senso?
Siamo dei dinosauri consapevoli: conosciamo la nostra condizione e sappiamo che, prima o poi, un asteroide ci colpirà. E nonostante questo facciamo pochissimo. Vedo un grande sconforto in questo settore. Non riusciamo a liberarci di certe dinamiche e di certi meccanismi. Penso al marketing e alla comunicazione. Le medaglie di metallo dei personaggi bonelliani sono belle, per carità: ma sono le stesse di quarant’anni fa. Guardiamo il futuro con gli strumenti del passato.

ⓢ Lei ha altre storie in mente?
Certo, ma non per cose – diciamo così – nuove, attuali. A me interessa raccontare qualcosa di appassionante e di universale. Non ho storie ambientate nell’immediato presente, nel 2021. I fumetti devono fare i fumetti. Non devono imitare la tv, il cinema o altri linguaggi. Si perde in partenza, in quel modo.

ⓢ Che cosa devono fare i fumetti?
Devono intrattenere. E intrattenere, attenzione, non significa far ridere. Significa riuscire a coinvolgere il lettore, ad appassionarlo. Non tutti i grandi fumetti sono fumetti divertenti, pensiamo a Maus di Art Spiegelman.

ⓢ Da dove bisogna partire?
Dobbiamo essere consapevoli dei nostri limiti; i fumetti non possono e non devono raccontare tutto. Dobbiamo scriverli conservando la nostra coscienza. E lo so che questo è il mio lavoro, ma non riesco a parlarne bene: abbiamo perso quella scintilla di creatività che una volta avevamo. C’è un’artificiosità, oggi, che non mi piace.

ⓢ In questi anni ha avuto molta fortuna un certo autobiografismo.
Sì, ma quando scrivi un’autobiografia devi avere qualcosa di particolare da dire. Una storia d’amore, di per sé, non basta. Personalmente non ho mai rotto i coglioni con le mie storie d’amore. Ho sempre usato le mie esperienze per i miei fumetti, per renderli credibili, ma senza mai mettermi in primo piano.

ⓢ Perché?
Perché ho rispetto per il lettore. Spende dei soldi e deve avere un fumetto che vale la pena leggere.

ⓢ Di cosa c’è bisogno?
Di editor e soprattutto di editor onesti. Un editor non può essere un fan degli autori che segue; deve essere pronto a intervenire, deve essere pronto a correggere. E poi sempre più spesso si cade nell’errore di far coincidere i follower di, non so, Instagram con i lettori: non è così.

ⓢ Il problema qual è?
Sono i danni collaterali dei social. Non voglio fare nessun discorso da vecchio, ma oggi tutti vogliono essere protagonisti, tutti vogliono parlare solo di sé.

ⓢ Rispetto ad altri mercati, in Italia non si riesce a portare il fumetto al cinema o in televisione con successo.
E abbiamo un potenziale incredibile. Abbiamo ore e ore di fiction e di serie animate pronte, ma stiamo ancora scontando il peccato originale del fumetto: non ci crediamo; lo consideriamo come un linguaggio di serie B. Il settore dell’animazione dipende quasi esclusivamente dalla Rai. Ed è una cosa folle, se ci pensiamo. Ora Netflix sta sviluppando la serie di Zerocalcare, ma è un’eccezione.

ⓢ Un’altra eccezione sono le Winx, di cui lei è sceneggiatore.
Ho appena finito di scrivere il soggetto della nona stagione. Le Winx dimostrano che lavorare in un determinato modo funziona. La storia è stata ripresa e riadattata in una serie live action da Netflix. La crescita di Rainbow è un caso abbastanza unico. Iginio Straffi ha investito tutto in questa idea. E la sua più grande fortuna è stata la sfortuna più grande della Rai, che non ha voluto comprare i diritti delle Winx.

ⓢ Perché non riusciamo a costruire un’offerta valida?
Perché i tentativi che sono stati fatti in questi anni, fino a questo momento, hanno attinto a storie poco popolari o di nicchia. Una cosa che va benissimo, per carità. Ma dobbiamo anche ragionare in un quadro più ampio come fanno in Giappone e negli Stati Uniti.

ⓢ La Bonelli ci sta provando.
Un’azienda come la Bonelli non può vivere di soli annunci. Sono anni che si parla del suo universo cinematografico. E non abbiamo ancora visto niente. Quattro anni fa, ho lavorato alla sceneggiatura della serie animata di “Dragonero”: l’abbiamo corretta, in parte riscritta, e ancora non siamo andati avanti.

ⓢ Qual è la verità?
Siamo i reucci del nostro condominio: i nostri vicini ci rispettano e ci salutano quando ci vedono. Ma se usciamo in strada, nessuno ci riconosce. Siamo ancora malati di provincialismo.