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La “tata” che fece la rivoluzione a Hollywood

È stata una delle attrici più famose degli anni '90, autrice di una sitcom di enorme successo, ora è la donna che potrebbe cambiare per sempre l'industria dell'intrattenimento americana: storia di Fran Drescher, da celebrity a rivoluzionaria.

di Francesco Gerardi

La prima volta che Fran Drescher ha aperto bocca davanti a una cinepresa stava girando una scena assieme a John Travolta. Gli chiedeva se fosse tanto bravo a scopare quanto lo era a ballare. Il film era La febbre del sabato sera, Travolta interpretava Tony Manero e Drescher era Connie. Passò buona parte dei quindici anni successivi all’uscita del film – siamo nel 1978 – a spiegare ai fan che la riconoscevano e fermavano per la strada che era contentissima di firmare autografi, felicissima di posare insieme a loro per le fotografie, ma che comunque lei non era Connie. Niente da fare: la sua fama la precedeva, nonostante tutta la sua fama potesse essere racchiusa in una frase e raccontata in una scena (di cui non era nemmeno la protagonista). Connie era e Connie rimaneva, non importava che raccontasse alle persone che aveva lavorato anche con Wes Craven in Summer of Fear, con Rob Reiner a This is Spinal Tap e con Francis Ford Coppola su Jack. Forse è per questo che decise che il suo prossimo personaggio sarebbe stato uno che avrebbe impedito, o quanto meno limitato, la confusione: la protagonista della Tata si chiamava Francine Joy “Fran” Fine. In questo modo, non avrebbe più dovuto perdere tempo a spiegare ai fan che lei era Fran.

Sono passati quasi quarant’anni e ora Drescher si trova ad affrontare un’altra volta lo stesso problema. È la presidente di Sag-Aftra, il sindacato degli attori di Hollywood. In questo momento è la sindacalista più conosciuta e importante del mondo, ha indetto uno sciopero che potrebbe cambiare per sempre l’industria dell’intrattenimento e infliggere il colpo di grazia al già moribondo mito dell’onnipotenza degli studios hollywoodiani (e delle piattaforme streaming). Ma le persone continuano a chiamarla “la tata”. «Non sono la tata, sono un’attivista impegnata a combattere per i diritti dei lavoratori», ha ripetuto più e più volte in questi giorni. Almeno ricordatevi le cose della Tata che sono rilevanti per lo sciopero, per la causa, si lamenta Drescher. Bisognerebbe ricordare che è stato grazie alle sue già all’epoca spiccate doti di contrattazione che riuscì ad ottenere, per l’ultima stagione della serie, un accordo che per lei prevedeva un ingaggio da un milione e mezzo di dollari a episodio. Bisognerebbe ricordare che Drescher non era soltanto la tata, ma della Tata era la creatrice, produttrice, sceneggiatrice, erede di una tradizione di autrici televisive americane che comincia con Lucy Ball, prosegue con Mary Tyler Moore, passa appunto per Fran Drescher, arriva a Shonda Rhimes fino a Phoebe Waller-Bridge e coeve. Bisognerebbe ricordare che è grazie all’immenso successo riscosso dalla Tata che oggi Drescher può dedicarsi all’attività sindacale senza assilli né distrazioni: quel successo le permette di avere, a quasi quarant’anni dalla fine della serie, un patrimonio personale di trenta milioni di dollari. Bisognerebbe ricordare che è stata una delle prime sceneggiatrici a fare dei vestiti un segno portatore di significato: i Versace, i Thierry Mugler, i Dolce & Gabbana di Fran sono poi stati esposti in museo. La collaborazione con Dolce & Gabbana è proseguita fino a oggi e le è costata una delle pochissime critiche di questi giorni: cosa ci facevi in Italia assieme a Kim Kardashian a un evento D&G, le hanno chiesto. La privilegiata, ha risposto lei.

Ma a Drescher in questi giorni basterebbe si ricordasse quell’episodio e quella battuta della Tata che spiegavano tutto, sia di una Fran che dell’altra, sia di quella finta che di quella vera. Seconda stagione, tredicesimo episodio. Titolo: “Lo sciopero”. Ci sono Fran, quella finta, e il marito Maxwell “Max” Beverly Sheffield, produttore di Broadway. I due devono andare a teatro per la prima dell’ultima produzione Sheffield, ma il tragitto è bloccato da un picchetto di dipendenti di un hotel che protestano per ottenere salario più alto e migliori condizioni lavorative. Max è inorridito dal pessimo tempismo e dalle cattive maniere della lotta di classe, vuole superare il picchetto e andare a godersi il suo – letteralmente suo – spettacolo teatrale. Fran, donna proletaria nata nel Queens (questo vale sia per la Fran finta che per quella vera: Drescher è del Queens, famiglia working class, figlia di un immigrato polacco e di una rumena), lo cazzia in malo modo anche solo per averci pensato: «Fines don’t cross picket lines!», urla in faccia al marito. Curiosità: lo spettacolo teatrale che Max e Fran dovevano andare a vedere era un adattamento del film Norma Rae, parole, opere e missioni di un’operaia del tessile che trova la salvezza nel sindacato. Karen Heller del Washington Post ha recentemente soprannominato Drescher “Norma Fran”.

«Fines don’t cross picket lines!» è uno degli slogan che in questi giorni vengono ripetuti ovunque ci sia un picchetto di attori in sciopero. Un gruppo di questi si è messo a cantare la sigla della Tata davanti alla sede di Netflix, il più grosso di quei giganti dell’intrattenimento contro i quali Drescher si è scagliata nel discorso – diventato ovviamente virale – che ha dato ufficiosamente il via al più grande sciopero che Hollywood abbia mai visto. Piangete miseria e poi seppellite i vostri Ceo sotto miliardi di dollari, urlava in quel discorso. Stanno venendo fuori studiosi di Drescher, ossessionati dalle sue parole e dai suoi scritti come un tempo i sindacalisti rivoluzionari erano ossessionati da quelle di Marx (la sinistra riparta da Fran Drescher, non sarebbe nemmeno il più assurdo dei propositi espressi in questi anni in quel che resta dell’internazionalismo). Ci sono gli esegeti accademici, che nei rimandi di Drescher a «fermare la macchina» vedono citazioni del leggendario discorso di Mario Savio, “Bodies upon gears”, pronunciato nel 1964 sulla scalinata della Sproul Hall dell’Università di Berkley. Ci sono i citazionisti pop alla caccia di tutti i rimandi alla Tata presenti nei suoi discorsi: li chiamano “Franism” e il loro preferito è «Wake up and smell the coffee!». Ci sono i social media analyst che stanno percorrendo a ritroso la storia della radicalizzazione marxista di Drescher attraverso la cronologia del suo profilo Twitter. E, in effetti, i social di Drescher sono una grande abbuffata per chi ama l’anticapitalismo a grana grossa: «Il capitalismo è diventato solo un sinonimo di dominio delle élite. Quando il profitto arriva alle spese di tutto ciò che vale davvero, abbiamo un problema», scriveva nel 2020, ribadendo una coscienza di classe scoperta già nel 2017 in un’intervista concessa a Vulture in cui spiegava “How To Be More Fabulously Radical”.

La fama però non si impara mai davvero a gestirla, nemmeno quando non è una novità. In questi giorni Drescher si è fatta evidentemente prendere la mano: ha parlato dell’inizio di un «movimento globale» e del primo passo in quello che ritiene essere il suo personalissimo «viaggio dell’eroe». Difficile biasimarla, però: con i tappeti rossi arrotolati fino a data da destinarsi, le uniche passerelle di Hollywood ormai sono quelle sulle quali cammina lei, che riceve le ovazioni che di solito spettano ai capi rivoluzionari. C’è chi pensa già a una candidatura alle presidenziali americane del 2028: Bernie Sanders il suo endorsement già lo ha espresso, invitando Drescher a una “Special Discussion” diffusa a canali social unificati.

Lei, Drescher, ogni tanto si costringe a ricordare che tutto questo le è già successo in passato: la fama va e viene, quello che l’inizio dello sciopero dà, la fine dello sciopero toglie. Nei momenti in cui non si racconta come la nuova protagonista del viaggio dell’eroe né come il remake americano del professor Sinigallia dei Compagni di Monicelli, Drescher ripete a tutti che sta facendo adesso la stessa cosa che ha fatto tante volte in passato: trarre il meglio dalle circostanze date. Quando il suo ex marito, Peter Marc Jacobson, le confessò di essere gay, lei lo convinse a scrivere con lei una serie per la quale aveva già pensato il titolo perfetto: Happily Divorced. Nel 1985 due uomini fecero irruzione nella casa di Malibu in cui viveva assieme a Jacobson e la violentarono, mentre costringevano il marito a guardare, minacciandolo con una pistola. Undici anni dopo, nel 1996, fu una delle prima star di Hollywood a raccontare di essere sopravvissuta a uno stupro nella sua autobiografia Enter Whining. Aiutò la polizia nelle indagini e grazia all’identikit da lei fornito, l’uomo che l’aveva stuprata fu arrestato e condannato a 150 anni di carcere. Quando le diagnosticarono un cancro all’utero, nel 1995, la prima cosa che fece fu fondare un’associazione, Cancer Schmancer, per sensibilizzare il pubblico, aiutare i malati e finanziare la ricerca. Quando vinse le elezioni per la presidenza di Sag-Aftra, il suo avversario la accusò di brogli e della futura distruzione del sindacato. Lei promise che avrebbe posto fine alle lotte intestine e ai complotti correntizi (la battuta sul Partito Democratico italiano viene troppo facile, quindi evito): la decisione di indire lo sciopero ha incontrato il favore del 97 per cento degli iscritti. Alla fine, lei stessa ammette che il suo manifesto politico è questo: «Certe volte i regali più belli arrivano con gli incarti più brutti».