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Fortuna è molto più che una storia triste

Intervista a Nicolangelo Gelormini, regista del film ispirato a un caso di cronaca del 2014 che verrà presentato a Fuoricinema, nel Giardino di Triennale Milano.

di Corinne Corci

Una scena da Fortuna, di Nicolangelo Gelormini

Il 24 giugno del 2014, una bambina di sei anni cade dall’ottavo piano di un palazzo nel Parco verde di Caivano, alla periferia di Napoli. Si chiama Fortuna, e dovrà passare del tempo prima che di quella caduta se ne conoscano i retroscena. La sua storia ora, a distanza di otto anni, ha ispirato Nicolangelo Gelormini, regista napoletano e aiuto regia di Paolo Sorrentino, per il suo primo lungometraggio, Fortuna, con cui ha raccontato il senso di spaesamento di una bambina per cui è ancora difficile capire cosa sia giusto e cosa sia sbagliando, evitando di mostrarne la morte (avvenuta in realtà per mano di un uomo dello stesso rione che da anni abusava sessualmente di lei, condannato all’ergastolo nel 2017) e anzi astraendo dal fatto di cronaca per farne una storia universale. Candidato a due Nastri d’Argento e in arrivo a Fuoricinema domenica 19 settembre, nel Giardino di Triennale Milano, Fortuna è infatti molto più che una storia triste, una favola delicata in cui i personaggi si sdoppiano: in cui Fortuna diventa Nancy, una bambina che crede di essere una principessa in attesa di tornare nello spazio, e che da qualche tempo si è chiusa in un silenzio profondo che i genitori e la psicologa non riescono a comprendere.

ⓢ Fortuna è il tuo primo lungometraggio. Come mai questo progetto, come ti sei avvicinato alla storia?
Mi sono avvicinato a questa storia non volendo fare questa storia. Quando il produttore mi sottopose la possibilità di girare un film su Fortuna ho risposto “no”, secco, d’istinto. Era una storia oscena anche dal punto di vista della rappresentazione. Però poi proprio questa negazione mi ha portato a comprendere che il cinema poteva essere lo strumento giusto e l’unico per affrontare la storia, perché permette “il fuori campo”, ti fa escludere dal cono di visivo quello che non vuoi mostrare, eliminando il materiale più pruriginoso, scabroso. È un po’ come il non detto in letteratura, scegliere le parole da non dire è più importante delle parole da dire.

ⓢ Motivo per cui in Fortuna ci sono così tanti momenti di silenzio?
Sì, ma ci sono anche tante scene di vuoto. Io ho agito in maniera istintiva anche se, finito il film, mi sono reso conto che tantissime riprese rispondevano a idee narrative precise. Questi silenzi, questi campi vuoti, le inquadrature spaccate in due, le cose che si contraddicono.

ⓢ Abbiamo parlato di quello che non viene mostrato, come gli abusi, la morte di Fortuna. Ma scegliendo di “non farci vedere”, quindi, cosa volevi mostrare?
Il film è dal punto di vista di Fortuna/Nancy. Mi sono calato sin dalla fase della scrittura negli occhi della vittima. E da lì è venuto fuori che io e Massimiliano Virgilio, con cui ho scritto il film, stavamo scrivendo qualcosa sul tradimento, sul desiderio dei bambini di essere amati e sulla realtà di essere traditi dagli adulti. E proprio il fatto di cronaca mi ha portato a realizzare un film di finzione, ma nel pieno rispetto di una verità.

ⓢ Come si fa a lavorare su un materiale che, non solo è reale, ma è drammatico e delicato, considerando che tratta il tema della violenza sui minori?
Secondo me c’è una delicatezza di base, non so parlarti di metodo, ma serve un approccio di sensibilità, e anche di paura. Paura di essere ricattatori nei confronti del pubblico che è una cosa che io da spettatore non sopporto, cioè quando un film cerca in ogni modo di scatenarti la commozione per farti sentire in colpa. Sapevo che con Fortuna questo cadere del voyeurismo morboso sarebbe stato in agguato, forse sarebbe stata la cosa più facile da fare. Quando racconti queste vicende devi sospendere il giudizio e adottare un punto di vista. Io ho scelto quello dell’infanzia, e più che raccontare una storia ho voluto tramettere un’emozione.

ⓢ Quale?
Quella sensazione atroce dell’abuso. Poi sai, ci sono tantissimi tipi di abusi. Io stesso sono stato vittima di abusi che non sono stati fisici ma emotivi e psicologici, come probabilmente è capitato a tutti. Ovviamente cambia la gravità del fatto e nel caso di Fortuna è una tragedia pura. Ma in qualche modo astraendo da lei puoi rendere questa storia universale, puoi far provare allo spettatore quel suo stesso spaesamento. Succede anche nelle relazioni sentimentali, quando arrivi al punto di fidarti così tanto di una persona e questa si rivela essere completamente diversa. E se succede a noi, che siamo adulti, prova a immaginare cosa ne può capire un bambino a cui magari non viene data la possibilità di sapere dove sia il male e dove sia il bene. Succede che la vita diventa un sogno, da bambino te la devi ricreare per salvarti.

ⓢ E sul set ti sei ritrovato a spiegare tutto questo proprio a dei bambini. Difficile?
Ero terrorizzato. Il mondo dell’infanzia mi spaventa, ho sempre paura di manomettere il processo di crescita di un bimbo, quindi per me fare un film con dei piccoli attori era un incubo, ora come gliela dico sta cosa, li rovinerò per sempre. Innanzitutto mi sono circondato di donne sul set, credevo che potesse in qualche modo tranquillizzarli, non ho capito perché ancora affidi alla donna questa idea di protezione considerando che spesso non è così. Per esempio, io provengo da una famiglia in cui mio padre è stato una mamma e mia madre è stata un papà. Ai bambini ho scelto inoltre di raccontare scena per scena e mai l’insieme, perché di fatto è solo unendo tutto che ci vedi il nero nel film, altrimenti restano solo quadri. Pensavo che così per loro sarebbe stato più facile, “non capire”. Ovviamente erano intelligentissimi, capivano tutto.

ⓢ Per il tuo film si è parlato di fiaba nera e di elementi fantastici. C’è il tema del doppio, un po’ lynchano. È una cosa che ti appartiene, questa dimensione onirica che c’è anche nei film di Sorrentino con cui hai lavorato?
Se affronti il tema del doppio devi per forza fare i conti con Mulholland Drive. Io ho fatto i conti con Lynch, con la Donna che visse due volte, forse mi ha contaminato anche Sorrentino, sicuramente queste persone sono entrate nel mio Dna, ma credo sia un processo naturale: assorbiamo tutto senza domandarcelo. Da Sorrentino, con cui ho lavorato per L’uomo in più, ho imparato tantissimo, ma non a livello di stile, mi ha insegnato a muovermi sul set. Però non voglio fare autoanalisi, mi conosco, poi inizio a pensare e comprendermi troppo, e secondo me comprendersi troppo è un po’ pericoloso.

ⓢ Tu sei laureato in architettura ed è un aspetto che in Fortuna si nota in ogni scena. C’è una grande attenzione alla simmetria, agli scorci prospettici con il punto di vista dal basso.
Io non mi ispiro tanto ai registi, mi ispiro agli architetti. L’architettura è un personaggio vivo, ha il potere di muovere le persone e permettere loro di stare al mondo. Per una storia di tradimento l’architettura doveva essere labirintica e brutalista, che raccontasse il sud del mondo. Napoli è la città in cui è ambientata la storia, ma le case e gli edifici che vedi li puoi trovare nel sud della Francia, nel sud America. Anche perché Napoli stessa è uno spettro pieno di possibilità. Io conosco quella Napoli lì di Fortuna ma ne conosco anche altre 500 e non ne conosco 500 che sicuramente esistono.

ⓢ Proprio con Fortuna sei stato l’ultimo regista ad aver lavorato con Libero De Rienzo.
Sul set di Fortuna c’era anche la compagna di Libero perché questo era il suo primo film come scenografa. C’erano lei, Libero, uno dei due figli. Non lo so, vorrei dirti che mi sento onorato di ricordarlo così, mentre accetta questo ruolo marginale, che è quello del padre di Nancy, che si vede poco. E lui era “il padre” davvero, lo vedevo con suo figlio mentre giocava sul set. Amava il mondo dell’infanzia, a Fortuna ha dato un contributo immenso.

ⓢ In Fortuna fai una cosa che ha fatto anche Tarantino con C’era una volta a… Hollywood: riscrivere la storia, in questo caso sdoppiando Fortuna in Nancy. Come entra l’etica in questo discorso, se ci entra.
Credo che il cinema sia uno strumento incredibile di revisione della storia. E certo, c’è un problema etico enorme. Il cinema americano per esempio ha riscritto col western la storia del Paese riuscendo per decenni a cancellare addirittura il genocidio degli indiani. Dobbiamo ricordarcelo, è bello poter usare il cinema per riscrivere la realtà, è catartico, ma pone una questione etica. Ma noi con Fortuna abbiamo solo restituito una seconda possibilità a una bambina, senza lasciare che il suo nome rimanesse nel cassetto di un tribunale. Non volevo riscrivere la storia, volevo costruirle una stella e portarla lì.