Cultura | Architettura

Il Flatiron Building, il palazzo che ha fatto New York

Il 22 marzo andrà all'asta uno dei simboli newyorchesi, l'edificio che è stato l'inizio dello skyline della città come lo conosciamo oggi, una delle prime architetture americane diventate icone.

di Francesco Longo

Si può comprare un pezzo di storia, possedere il simbolo di una città e di un’epoca. Il 22 marzo va all’asta il Flatiron Building di New York, il grattacielo triangolare di ventuno piani all’incrocio tra la Fifth Avenue e Broadway, all’altezza della 23esima strada. Secondo Alfred Stieglitz, uno dei fotografi più celebri di inizio Novecento, «il Flatiron è per gli Stati Uniti d’America ciò che il Partenone è stato per la Grecia». I vecchi proprietari, cinque società immobiliari, non riescono ad accordarsi sul futuro dell’edificio e sono arrivati alla vendita. Tutti possono partecipare.

Prima che fosse terminato nel 1903, il grattacielo è già una celebrità, in città tutti lo attendono e ne parlano, nonostante il clima febbrile nessun altro edificio riceve la stessa attenzione. Diventa negli anni uno dei palazzi più fotografati al mondo, ammirato, stampato su migliaia di cartoline antiche e nuove, su magliette, scelto per copertine di libri, si intravede in tante scene di film. Diventa uno stimolo per la costruzione dei grattacieli successivi e sebbene non sia il primo grattacielo di New York, viene percepito come se lo fosse, come l’inizio di una nuova storia della città: forme e gloria degli altri edifici iconici sarebbero diverse senza la sua presenza monumentale, niente Woolworth Building (1913), niente Empire State Building (1929) né Chrysler Building (1929). Dal 1959 viene colonizzato dagli uffici dal marchio editoriale St. Martin’s Press, proprio l’editore che nel 2013 pubblica il volume The Flatiron: The New York Landmark and the Incomparable City That Arose With It, scritto da Alice Sparberg Alexiou, che ripercorre la storia dell’edificio anno per anno, anche attraverso le vite di personaggi legati all’industria immobiliare di New York, di solito figure ossessionate dai guadagni, spesso con sigari in bocca e grandi baffi. Nel 1966 diventa monumento cittadino, quando la metropoli scopre che deve preservare una sua storia architettonica. Dal 2004 tutti e ventuno i piani vengono occupati dalla sede della casa editrice Macmillan. Nelle foto recenti degli interni, infatti, pile di manoscritti affollano le scrivanie, i libri sono accatastati ovunque, i fogli invadono le sale con grandi finestre. Quando nel 2019 Mcmillian lascia la sede del Flatiron, il New York Times titola: “La fine di un’era per il Flatiron Building”. Da allora è disabitato. Tutti amavano varcare la porta dell’edificio a punta, agenti letterari per gli appuntamenti, scrittori per firmare contratti e sperare nel miracolo. È stato venerato anche da sceneggiatori del cinema e dei fumetti. Se l’Empire è associato all’abbraccio mortale di King Kong, il Flatiron è territorio di Godzilla: quando l’esercito invade le strade di New York per uccidere il mostro, nel buio, tra proiettili e torce, il grattacielo è distrutto a forza di esplosioni. La storia del palazzo, legata a editori, giornali, riviste e libri, ne fa il luogo ideale anche per la sede del giornale in cui lavora Spiderman, il Daily Bugle, dove Peter Parker fa il fotoreporter.

Il nome “ferro da stiro” viene dal lotto triangolare acquistato da Amos Eno nel 1857 per 25 mila dollari. L’edificio nasce per ospitare gli uffici della società di costruzioni George A. Fuller Company, tanto che in teoria il nome è Fuller Building. Un disegno di come sarà l’edificio viene pubblicato sul New York Herald già nel giugno 1901 e se ne parla come del flatiron building. Nessuno si adatterà a chiamarlo con il vero nome. La progettazione viene affidata a un architetto della cosiddetta Scuola di Chicago, Daniel Burnham, che costruisce però a New York il suo edificio più famoso. Burnham è una celebrità dall’Esposizione di Chicago del 1893, la sfida che ha davanti è tutta nella forma, nella spericolata pianta triangolare, edificare un grattacielo con il muso appuntito di soli due metri rivolto verso i quartieri alti della città. L’edificio monumentale, stile Beaux-Arts come la sede della vicina New York Public Library, richiama vagamente il Rinascimento italiano e francese, ed evoca le colonne della classicità greca. Arrivano architetti e ingegneri da tutto il mondo per studiare il miracolo di una costruzione che sembra sul punto di dover crollare: un gigante di pietra, sì, ma un gigante sottilissimo e dall’equilibrio incerto. All’inizio tutti scommettono che il vento, notoriamente sferzante proprio in quella parte della città, lo colpirà con tale violenza alla base che lo farà ribaltare. Per anni i poliziotti mandano via uomini appostati lì, sapendo che in quell’incrocio il vento scopre le gambe delle donne.

Uno dei primi inquilini è l’editore di giornali Frank Andrew Munsey, che avrebbe cambiato per sempre il mondo delle riviste, nelle sue memorie si vanta di essere arrivato a New York con 40 dollari in tasca e aver creato un impero. All’inizio ogni piano è diviso in piccoli uffici, tutti con finestre, tutti assolati, uno alla volta gli spazi vengono affittati. Gli inquilini nei primi tempi sono un misto di imprese di New York, etichette discografiche – camminando nei corridoi si sentono pianisti proporre note per accedere all’industria musicale – biglietterie per ferrovie, compagnie di navi a vapore, agenzie di assicurazioni, il consolato russo, ditte farmaceutiche. Tra tutte le attività spicca il grande ristorante, aperto dalla colazione alle cene del dopo teatro, con orchestra fissa e cucina internazionale, serve diverse qualità di caviale, decine di tipi di ostriche, grande varietà di vini, birre tedesche, trentacinque marche di whisky, per dessert offre il “Flat Iron Souvenir Ice Cream”, ovviamente con la forma dell’edificio. Dentro le facciate in pietra calcarea e terracotta, dietro le oltre 700 finestre, tra fregi che ospitano piastrelle con disegni stravaganti (medaglioni, covoni di grano, raggi di sole, donne con capelli come serpenti), all’interno dello scheletro di acciaio fanno su e giù sei ascensori ad acqua: fino agli anni Settanta e Ottanta ci si lamenta che l’ascensore sobbalzi arrivando al piano, saranno sostituiti nel 1999.

Tutti amano il Flatiron, ma molti anche, da subito, detestano quella forma bizzarra. Il New York Tribune lo definisce «una misera fetta di torta». Per altri detrattori è «una vergogna per la città», un «oltraggio al senso artistico». Ma esercita un fascino irresistibile nei fotografi e forse sta qui la sua fortuna. Sono anni in cui la fotografia ha un impatto nuovo nella conformazione della città. Sono gli anni in cui per la prima volta si «esplora la città con un evidente interesse estetico», come si legge nel libro New York: le origini di un mito di William R. Taylor (pubblicato da Marsilio, con il Flatiron in copertina). La fotografia legittima costruzioni audaci, dice Taylor, invita ad apprezzare gli edifici come puri profili, ne facilita l’accettazione. Alcune tra le foto più celebri sono di Alfred Stieglitz, che dopo essersi rifiutato di scattare foto durante la costruzione, cambia idea un giorno del 1902 incantato da una tempesta di neve e immortala l’edificio avvolto dai fiocchi bianchi. Anche il padre di Stieglitz trova il Flatiron Building “orrendo”, ma basta una fotografia per farlo ricredere. La fotografia diventa l’arbitro che decide cosa può essere considerato bello e cosa no. A forza di foto, lo skyline di New York diventa agli occhi di tutto il mondo il profilo del miraggio metropolitano, un sogno con mille luci accese, un paradiso romantico, straziante, sublime.

Alice Sparberg Alexiou, nel libro Flatiron, scrive che osservandolo bene, il grattacielo «assomiglia a una gigantesca nave appena arrivata dall’Europa, piena di immigrati, attraccata al porto, e subito pronta a proseguire il suo viaggio sulla terraferma, diretta verso il nord della città». Quando i grattacieli mitici di New York vengono venduti è sempre la fine di un’epoca. È successo nel 1989 con la messa sul mercato del Rockfeller Center, acquistato allora dal colosso giapponese Mitsubishi, e con l’Empire State Building nel 1991, e di recente con il Chrysler Building nel 2019. Tutti vagheggiano di essere proprietari almeno di un mattone di New York, come si desidera possedere una pietra lunare. Chi non parteciperà all’asta potrà comunque assemblarlo, mattone per mattone, rivivendo così la sua storia, che coincide con la storia della città, acquistando la confezione Lego con i 471 pezzi del Flatiron Building. Le mani su un colosso, in miniatura.