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Il liberismo di destra è morto?

Gli intellettuali conservatori americani stanno intavolando un dibattito importante anche per l'Europa.

di Anna Momigliano

17 luglio 1987, Ronald Reagan e Margaret Thatcher posano per i fotografi fuori allo Studio Ovale, Washington,DC. (MIKE SARGENT/AFP/Getty Images)

C’è un dibattito, tra gli intellettuali conservatori americani, che merita di essere seguito, e che infatti stanno seguendo anche testate tutt’altro che di destra, dal New Yorker al New York Times. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non riguarda il sostenere o non sostenere Donald Trump, almeno non direttamente, ma qualcosa di più ampio: la fine del liberismo di destra. È un dibattito che nasce da un contesto prettamente americano, ma che tocca alcune questioni aperte anche in Europa.

I conservatori americani, che sono dotati di un solido apparato accademico ed ideologico, da think tank  come l’Heritage Foundation e l’American Enterprise Institute, a testate come la National Review e First Things, hanno sempre avuto al loro interno due anime: da un lato il conservatorismo sociale, la destra dei valori della famiglia, pro-life, e anti-femminista; dall’altro il liberalismo economico, favorevole al libero mercato e allo small government, contrario alla spesa per il sociale e ai dazi. Per decenni queste due anime sono convissute senza troppi ostacoli, a parte qualche screzio, e sia il Partito repubblicano che molti intellettuali schierati a destra hanno dato per assodato che i valori socialmente conservatori e il laissez-faire in economia fossero non soltanto compatibili ma addirittura reciprocamente benefici: questo orientamento è noto come fusionismo, perché fondeva in un’unica ideologia conservatorismo e liberismo. Poi l’elezione di Donald Trump, che ha sparigliato le carte.

Gli americani oggi hanno un presidente che è certamente di destra, ma non è liberista, e non è neppure propriamente un conservatore sociale, anche se è evidente che su alcune cose vorrebbe mettere la lancetta indietro. L’avvento di Trump ha creato una frattura tra i pensatori conservatori. Che non sono divisi tanto sul sostenerlo o meno, anche perché per il momento il presidente populista non ha un gruppo di veri e propri intellettuali che lo sostengono entusiasticamente (quelli che fanno il tifo per Trump sono più che altro pundit, o troll), seppure c’è qualcuno che sta diventando più morbido. Quello che sta dividendo gli intellettuali di destra è come rimettere insieme i cocci, come ricostruire il consenso conservatore che è stato spazzato via dall’ondata populista.

Tutto è partito qualche mese fa da First Things, un magazine che un tempo era stato il punto d’incontro tra i neocon e la destra religiosa e che ora è più che altro una testata nostalgica-ma-sofisticata (più Il Foglio di quando Ferrara faceva il teo-con che La Verità). Lì lo scorso marzo quindici intellettuali hanno firmato un appello intitolato “against the dead consensus” dove si dichiarava che «non si può tornare indietro al consenso della destra pre-2016» e che urge mettere la morale davanti al libero mercato. Recentemente First Things è tornata all’attacco, con un’invettiva contro David French, un commentatore evangelico che continua a credere nel fusionismo.  Visto che French è un nome conosciuto la cosa è rimbalzata su due column del New York Times e da lì sul New Yorker. Inoltre Vox ha pubblicato uno spiegone di Jane Coaston.

Su cosa verte, esattamente, il dibattito? Sul Nyt Ross Douthat riassume: «I conservatori sociali vogliono più spazio nella coalizione conservatrice» e «più interventismo economico a sostegno di fini socialmente conservatori». Sempre sul Nyt invece Bret Stephens l’ha liquidata come un caso di conservatori che stanno preparando il terreno per saltare sul carro di Trump. Abbiamo provato a chiederlo a uno dei firmatari dell’appello di First Things, Matthew Schmitz, che è anche senior editor della rivista: «La vittoria di Donald Trump ha dimostrato l’impotenza dell’establishment intellettuale conservatore», ci ha detto. Le elezioni del 2016 hanno dimostrato che molti americani sono «alla destra dei Democratici sui valori sociali e alla sinistra dei Repubblicani sull’economia». Il punto, dice, non è Trump, che peraltro molte promesse a favore della working class non le ha mantenute: «Il dibattito attuale riguarda qualcosa di più grande e più a lungo termine». Per i conservatori sociali, è «arrivato il momento di avanzare anziché ritirarsi» mentre conservatori liberisti «sono dei generali senza esercito». In tutto questo i conservatori liberisti sembrano trasparenti: la destra religiosa li attacca, la sinistra registra questo attacco, ma i conservatori reaganiani non riescono a fare sentire la loro voce. Del resto liberalismo classico di destra – qualcuno lo chiama “neoliberismo”, anche se il termine era nato per indicare l’altro – sembra passarsela male non solo in America: in Francia, Gran Bretagna e Italia le destre anti-globalizzazione hanno eclissato le destre favorevoli al libero scambio. Anzi, ormai il libero scambio sembra soltanto appannaggio di una parte della sinistra. Come dice Schmitz, «il liberalismo classico di destra non è morto, ma è un non-morto».

Quello che sta succedendo però non è una vittoria delle destre sociali a discapito del liberismo di destra. Perché se è vero che i sovranisti spesso si oppongono alle frontiere aperte, per persone e merci, non per questo sostengono necessariamente la spesa per il sociale. Trump ha alzato i dazi con la Cina, ma ha tagliato le tasse per i ricchi. Salvini sostiene le campagne “compra italiano” ma vuole la flat tax. In altre parole il classico asse “mercato aperto – mercato chiuso” non si applica in modo lineare. È quello che notava qualche giorno fa Yuval Noah Harari su Repubblica. Il liberalismo, ricorda, si basa su sei princìpi. In economia: economia di mercato e libero scambio. In politica: elezioni libere e cooperazione multilaterale. Nella società: libertà individuali e libertà di movimento. Per molti decenni la «narrazione liberale» era partita dal presupposto che «esistono legami solidi ed essenziali tra i sei elementi»: toccava prendere il pacchetto completo, seppure gli ingredienti potevano essere dosati in proporzioni variabili (cooperazione multilaterale e libertà individuali andavano molto più forte a sinistra, per dire). Adesso stiamo passando da un modello “menù fisso” a un “modello a buffet”: si sceglie solo un pezzettino. Non solo si può essere liberisti in economia senza essere liberali sui temi etici (questo, aggiungeremmo noi anche se Harari non lo dice, succedeva anche prima) ma si può essere liberisti sul mercato interno e non su quello internazionale. Resta da chiedersi, prosegue Harari, quanto è sostenibile alla lunga questo liberalismo à la carte. Per quanto si potranno tenere aperti i mercati nazionali anche quando gli accordi internazionali di libero scambio sono revocati? Forse Schmitz ha ragione e quel poco che resta del liberalismo di destra è un morto che cammina.