Cultura | Cinema

I vecchi musicisti sono i nuovi supereroi

Stufa dei cinecomic, Hollywood sembra aver già scelto la sua prossima ossessione: la vita, la morte e i miracoli dei musicisti.

di Lorenzo Peroni

In arrivo un film su Patty Pravo, Minaccia bionda, interpretato da Sydney Sweeney, dirige Alba Rohrwacher. Sarà invece Nanni Moretti a portare sul grande schermo, con Elio Germano, la vita e la musica di Franco Battiato, una storia d’amore piena di belle canzoni italiane. E ancora, in mano a Pedro Almodovar l’ambizioso biopic sull’amatissima Mina, protagonista Tilda Swinton. Certo, non è vero niente, ma ci stupiremmo del contrario? Viviamo anni in cui sembra di essere rinchiusi in un maxi generatore automatico di biopic musicali e la saturazione è, quantomeno, prossima. 

Stati Uniti, 1927 (sì, la prendiamo larga): la Warner Bros è sull’orlo del fallimento, l’unica star dello studio che brilla al box office è quella di Rin Tin Tin. Ecco allora tentare il tutto per tutto, l’azzardo, o vittoria o morte certa: un film sonoro, il primo della storia. Il 6 ottobre di quell’anno al Warner’s Theatre di New York viene proiettato Il cantante jazz, che diventa il più grande successo dell’anno, rivoluzionando completamente la storia del cinema. Il primo film non muto della storia racconta, non a caso, la storia di un cantante, un artista che si ribella all’ambiente che lo circonda (la famiglia, la sua comunità ebraica) e fugge per raggiungere il suo sogno (il jazz: la musica nuova, libera e innovativa che rompe gli schemi della tradizione).

Se oggi i musical al cinema hanno vita dura (ma il successo di Wonka e l’imminente arrivo di Wicked potrebbero cambiare le cose), il successo incredibile e inspiegabile, coronato con quattro Oscar, di un film come Bohemian Rhapsody ha spostato irrimediabilmente l’asse dei trend verso i biopic dedicati a cantanti e musicisti. Hanno fatto seguito Rocketman, su Elton John, di Dexter Fletcher (che aveva messo lo zampino già in Bohemian Rhapsody, nonostante non sia poi stato accreditato), il bislacco Aline su Celine Dion, il macchiettistico Judy su Judy Garland, Ma Rainey’s Black Bottom con Viola Davis sulla pioniera delle pioniere del blues, The United States vs. Billie Holiday di Lee Daniels, Weird: The Al Yankovic Story con Daniel Radcliffe, I Wanna Dance with Somebody su Whitney Houston, Elvis di Baz Luhrmann (8 nomination agli Oscar), Maestro di e con Bradley Cooper, un bell’affresco sull’ego dell’artista all’opera (quello di Leonard Bernstein, certo, ma ancora di più quello del suo regista e interprete), fino al recentissimo Bob Marley: One Love. Per Aretha Franklin si registra un bel caso di folie à deux: un film per il cinema con Jennifer Hudson, Respect, e miniserie per National Geographic, Genius, con Cynthia Erivo. 

Dal 12 aprile è uscito nelle sale italiane Back to Black, il film su Amy Winehouse firmato da Sam Taylor-Johnson, che aveva debuttato come regista con Nowhere Boy, sull’adolescenza di John Lennon. Quelli in arrivo sono ancora di più… Un film biografico su Michael Jackson diretto da Antoine Fuqua e interpretato dal nipote del defunto (tutto suona già un po’ morbosetto), Deliver Me From Nowhere vedrà Jeremy Allen White impiegare gli addominali per raccontare il Bruce Springsteen di Nebraska (album scritto durante la depressione), Selena Gomez invece presterà corpo, anima e voce per dare nuovo lustro a Linda Ronstadt: «If she’s going to sing, good luck», come disse Joni Mitchell all’idea di un suo biopic interpretato da Taylor Swift. Angelina Jolie, poi, sarà Maria Callas nel nuovo film del premiato biografo Larraín, autore che però gioca un campionato tutto suo, dopo un Pinochet vampiro non mi stupirebbe ritrovare una Callas magica sirena che ha rinunciato alle pinne per amore.

Iniziano pure a circolare clip del set di A Complete Unknown con Timothée Chalamet giovane Bob Dylan (all’apparenza qualcosa di ancora più fantascientifico di Dune), per la regia di James Mangold. Intanto, altrove si parla di una serie Netflix sugli U2 targata J.J. Abrams, dalle parti di Paramount stanno mettendo assieme un biopic sui Bee Gees. Madonna stava lavorando alacremente sul suo stesso biopic, ma pare si sia tutto arenato e lei dopo aver rischiato di diventare una delle care estinte dei film di cui sopra è partita per un tour. Sui Beatles dovremo sorbirci ben quattro film, uno per Beatles, tutti diretti da Sam Mendes. 

I biopic musicali sono quasi sempre bruttarelli, ben prodotti, sfarzosi ma insapori. Per l’industria hanno però due pregi fondamentali: in media, vanno molto bene al botteghino e portano agli attori i tanto agognati premi (Golden Globe, Oscar, Grammy, Telegatti, tutto). Sissy Spacek ha vinto un Oscar come miglior attrice protagonista nei panni di Loretta Lynn in La ragazza di Nashville, a Marion Cotillard invece ne hanno consegnato uno per la sua Edith Piaf in La Vie En Rose, idem a Renée Zellweger per la sua parodia di Judy Garland, Jamie Foxx è stato premiato per la sua trasformazione in Ray Charles, Jessica Lange nominata per l’interpretazione di Patsy Cline in Sweet Dreams, Joaquin Phoenix per Johnny Cash in Walk the Line… Perfino Andra Day, anche per un film stroncato come quello su Billie Holiday, almeno una nomination agli Oscar se l’è beccata. Se non le daranno l’Oscar come Migliore attrice protagonista per la fidanzata di Joker, Lady Gaga si butterà sicuramente, prontamente su un biopic a colpo sicuro: Barbra Streisand? Lene Lovich? Diana Ross? Sento che lei è pronta a tutto.

Nei biopic musicali c’è questa idea, insalubre, per cui la recitazione debba essere legata a un’operazione di mimesi, di possessione perfino. Guarda che brava, le trema il labbro proprio come a Edith Piaf sull’orlo di una crisi di nervi, biascica proprio come Judy Garland, poverina, ubriaca sul palco. Ed allora ecco che le star della musica, conosciute, amate, oggetto di devozione, diventano terreno fertile per giudicare gli attori, pronti a sminuirsi (forsanche disunirsi) gioiosamente in questo gioco di smorfie, tic e protesi e parrucche, per un applauso, per una statuetta. Il cinema diventa così una puntata lussuosa di Tale e quale show. Vincono sempre poi, salvo rare occasioni, i toni melodrammatici, in una ricognizione sulle infanzie di stenti, sugli abusi e sui soprusi, sulle sofferenze, per un maggiore coinvolgimento del pubblico, per offrire il lato “umano” delle star. C’è sempre l’idea che questa categoria filmica debba celare in sé una missione educativa, “vi spieghiamo le fragilità di Judy Garland”, “vi raccontiamo i traumi di Elton John”, “vi sveliamo il segreto del successo di Aretha”.

Ci sono ovviamente esempi illustri che rifuggono queste semplificazioni, ma sono pochi. Todd Haynes, prima del suo ritratto caleidoscopico di Bob Dylan in Io non sono qui (sghembo, frenetico, meditabondo, libero da agiografie e “scritture sacre”), nel 1987 gira Superstar: The Karen Carpenter Story, breve biopic sperimentale sugli ultimi anni di Karen Carpenter in lotta contro l’anoressia girato con le barbie al posto degli attori. Richard, l’altra metà dei Carpenters (il Finneas della situazione), denuncia il regista per violazione del copyright e il film viene ritirato nel 1990, diventando così uno dei mitici presunti capolavori censiti nel Dizionario snob del cinema di David Kamp e Lawrance Levi. Ma anche l’Elvis di Luhrmann (smisurato e barocco) o Cantando dietro i candelabri di Soderbergh (intimo e camp), senza spingerci oltre il crinale pericolosissimo dello sperimentalismo, danno un’idea di possibili narrazioni non omologate. Oltre ai diritti legali per l’utilizzo e l’esecuzione dei brani – cosa ovvia, certo, ma spesso complicata – questi film devono ottenere il beneplacito dei loro protagonisti se ancora in vita, altrimenti dei parenti, degli eredi, delle fondazioni, etc. Diventano quindi spesso delle “collab”, dei trattati diplomatici, come nel caso di Rocketman (ma a Elton John va comunque riconosciuto il pregio di non essere uno che si nasconde dietro un dito) o Bohemian Rhapsody (che invece spazza tutta la polvere sotto al tappeto). 

Per il pubblico quello delle biografie musicali è campo di larghe intese, trasversale, per fan e per spettatori occasionali, con storie arcinote ma con qualche lato oscuro da scoprire, non troppi però, non si può: è necessario edulcorare, celebrare, infiocchettare un po’ il pacco, si tratta di personaggi venerati che ci hanno regalato canzoni che non siamo mai stufi di ascoltare. Vince l’idea di essere portati dietro le quinte della storia, dritti filati nei tinelli delle rockstar, nelle camere da letto delle dive, in cerca di un filo logico che ci aiuti ad amare ancora di più queste persone che spesso sono orrende, megalomani quando va bene, tossiche, psicotiche e sì, a volte, peggio ancora (il peccato più imperdonabile per una stella della musica) addirittura noiose.