Cultura | Dal numero
Dacci oggi il nostro fandom quotidiano
Dai forum dedicati alle mobilitazioni sui social media, il fan è diventato una delle figure chiave dei nostri spazi digitali, al punto da modificare internet e renderla quella che conosciamo oggi.
Mentre scrivo, Pop Crave segnala su Twitter che Harry Styles si è appena fatto un selfie indossando una maglietta degli One Direction. Oltre al prevedibile spam di cuori e faccine sognanti, nei commenti c’è già chi ha provveduto a stampare il selfie su una maglietta da rivendere su Etsy, anche se la domanda ripetuta ossessivamente è solo una, seppure in diverse varianti e digressioni. Dai più generici “One Direction comeback when?” agli assertivi “1D reunion coming soon” fino agli stan dei solisti nonché spammatori professionali di hashtag “This is THE picture of the year! ♥ I’m voting for #HarryStyles for #FaveTourStyle at the #iHeartAwards”, non mancano poi i più riflessivi, cresciuti con la boyband più blanda della storia della musica, che diventando grandi hanno probabilmente riconosciuto come tale, ma per la quale mantengono un affetto che altro non è che affetto per sé stessi, e in particolare per i sé stessi giovani. “At some point, I hope they can really make one album that they can be truly proud of”, scrive con una certa nostalgia e rassegnazione @gerharn (avrà al massimo ventidue anni). Posso ammettere qui che gli One Direction sono stati un tantino blandi, fatta eccezione per Harry Styles e Zayn Malik che non a caso sono gli unici due usciti dal confine del loro fandom, ma forse dovrei pensare a come riformulare questa frase. Perché i fan, quelli veri, in realtà, ti raggiungono ovunque. E se lo so è perché anch’io sono stata fan, una Millennial che ha vissuto appieno il periodo indie (visto Directioners? Tutti abbiamo degli scheletri nell’armadio, mai vergognarsene!) e molte delle mie compagne e compagni con cui ho fatto concerti, festival e after party di sgangheratissime band che nemmeno il disastroso ritorno dell’indie sleaze è riuscito a resuscitare, li avevo conosciuti su internet. Facebook agli albori, Twitter agli albori, l’imprescindibile forum del fanclub, quello internazionale e quello italiano: è lì che la giovinezza di molti di noi s’è consumata, lì che abbiamo imparato l’inglese per davvero, lì che si sono formati il nostro gusto estetico e la nostra ironia digitale.
Ho scritto le mie prime recensioni di sfilate proprio sul forum di una band indie pop (non dirò quale, sennò questo pezzo è tutto da rieditare) ed era la prima volta che qualcosa che avevo sempre tenuto in una cartellina sul desktop, sul mio computer, approdava di fronte agli occhi di qualcun altro, spesso nascosto dietro a un avatar con la faccia di un frontman a cui voglio ancora molto bene, come se lo conoscessi e come @gerharn vuole bene agli album brutti degli One Direction e spera ne esca uno decente, prima o poi. Gli voglio bene, anche se gli sono rimasti solo i denti finti e ha compiuto quarant’anni, perché in ogni sua “era” – come i fan chiamano i cambi di look dei loro preferiti – la sua faccia mi ha sempre involontariamente rassicurato che ero brava a scrivere di moda, che forse avrei potuto farlo per lavoro, che almeno dovevo provarci. Un po’ gli ho creduto, perché nonostante fossi ovviamente consapevole che non era certo lui in persona a rispondermi, in italiano, nel forum dedicato alla sua band, mi ha sempre divertito – e consolato – potermi liberamente esprimere in un angolo di internet frequentato solo da gente con i miei stessi gusti. Abbiamo pianto insieme, ognuno di fronte al suo computer, quando Alexander McQueen è morto, mentre i miei compagni di università e le mie coinquiline non avevano idea di chi fosse. Di questo potentissimo attaccamento emozionale, vecchio almeno quanto lo è la musica pop, e dei suoi meccanismi, ne ha scritto la giornalista dell’Atlantic Kaitlyn Tiffany, nel suo adorabile Everything I Need I Get From You – How Fangirls Created the Internet as We Know It, e dico adorabile sia perché lo è la copertina del libro (uscito in America per MCD Books nel 2022, purtroppo non è ancora stato tradotto in italiano) con le emoji dei cuoricini e degli sparkle, sia perché anche Tiffany parte da una sua ossessione, proprio gli One Direction, per sostenere una tesi che sembrerà spericolata ad alcuni, ma non a una ex fan. E cioè che internet come la conosciamo oggi l’hanno creata i fan, come lei, come @gerharn, come me. Ma andiamo con ordine.
Come ammette la stessa Tiffany, gli One Direction non erano poi così interessanti da meritare un saggio di più di duecento pagine, ma nondimeno sono lo spunto perfetto per indagare quella particolare forma di sottocultura, partita dai più svariati fandom legati ad artisti o attori o personaggi pubblici più in generale, che nel 2023 possiamo considerare dominante. Non più angoli di internet nascosti in cui rifugiarsi con relativamente poche anime affini, che poche non sono mai state ma semmai erano sotto traccia, ma un movimento culturale i cui effetti e proporzioni sono paragonabili a quelli delle criptovalute o del populismo. Boom. Gli One Direction, come in qualche modo anche la mia modesta band di indie pop, ma soprattutto fenomeni come il super gruppo coreano BTS e il K-pop e anche il successo social di un giornalista a discapito del giornale per cui scrive oppure ancora quello di guru della mascolinità incel come lo sono Jordan Peterson o Andrew Tate, rappresentano infatti, ognuno secondo le sue dimensioni, qualcosa di cui milioni di persone nel mondo avevano e hanno bisogno in un determinato momento storico. I fandom, dice Tiffany, hanno svolto una funzione accentratrice nel plasmare il modo in cui parliamo e ridiamo su internet, ma anche in cui ci si mobilita e si organizzano eventi nella vita reale, definendo i parametri in cui le persone si aggregano online e decidono l’ascesa o la caduta di qualcuno o qualcosa, sia essa un nuovo album o un video musicale, una performance dal vivo, un articolo/tweet/TikTok di opinione o, e qui succedono le cose più interessanti, il programma di un politico. Quando nel marzo del 2018 è scoppiato lo scandalo di Cambridge Analytica, l’azienda di consulenza e marketing online che aveva usato un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook per indirizzare la campagna delle elezioni americane a favore di Donald Trump, il “whistleblower” Christopher Wiley aveva già ampiamente spiegato come la politica guardasse sempre più ai metodi di promozione della moda e delle industrie creative, quali cinema e tv, per trasformare l’engagement social in intenzioni di voto prima e preferenza sulla scheda elettorale poi.
Quello non era che l’inizio. Sono bastati pochi anni a farci rendere conto di quanto quei meccanismi siano ormai ingranati nel modo in cui la collettività si esprime sui social media e ovunque ci sia la possibilità inebriante di lasciare un commento, meccanismi spinti ancora più in là dalla pandemia che dal 2020, per i due anni successivi, ci avrebbe rinchiuso in casa a periodi alterni, di fronte ai nostri schermi, spesso da soli. L’archetipo dell’adolescente, da solo nella sua cameretta con le cuffie in testa e i poster dei suoi artisti preferiti appesi al muro, è allora sempre più simile all’elettore e al consumatore medio. Il fan è fan sia che si tratti di presentarsi fuori dalla sfilata dove è ospite il leader dei BTS, RM – com’è successo lo scorso febbraio in occasione dello show di Bottega Veneta a Milano, con la città bloccata anche nei pressi del suo hotel e dell’aeroporto dove è atterrato – sia di esplicitare il proprio appoggio politico. Addirittura il microcosmo dell’internet italiano, di solito pateticamente indietro su tutto, ha saputo esprimere brevi, per quanto effimeri e non messi a sistema, profili e meme dedicati al politico di turno, come lo sono stati nel primo lockdown le “bimbe” di Antonio Conte, presto scomparse con lui, e quelle di Sergio Mattarella, che resistono stoiche come fa il Presidente della Repubblica, fino a fenomeni ben più resistenti come “la Bestia” di Matteo Salvini, ideata e bruciata da Luca Morisi a suon di selfie a petto nudo e pane e Nutella, e all’ancora più sgamata macchina propagandistica di Giorgia Meloni. Quest’ultima, partita in maniera tragicamente organica nella comunità queer italiana dove l’attuale premier è stata per la prima volta memificata con la sola intenzione di sbeffeggiarla ai tempi di “Io sono Giorgia!”, ha poi attraversato nientemeno che il fandom per eccellenza, quello del Signore degli Anelli, di cui Meloni e molta destra in Italia e nel mondo è da sempre appassionata fino ai TikTok true crime, dove tra un delitto e l’altro si parla anche di quanto sia cool la prima Presidente del Consiglio donna italiana.
Nello stesso brodo culturale esistono perciò spinte e direzioni parallele e opposte, i conservatori che piegano gli anime ai deliri sovranisti e i ragazzi del K-pop che invece hanno a cuore i diritti civili, la lotta al razzismo e l’ambientalismo, perché ciò che oggi definisce il fan, ora che anche l’utente medio ha scoperto la forza dell’avere una community online che gli copre le spalle, è la sua testardaggine mitologica nel seguire ed esprimere il suo amore incondizionato all’idol (come si chiamano le popstar coreane) di turno. Tutti oggi possono essere fan ma, soprattutto, tutti possono essere idol, a patto che siano in grado di ammassare una quantità considerevole di follower ai quali, in un futuro prossimo, potranno vendere qualcosa. Una crema, un ombretto, un programma politico o una canzone su cui collezionare ascolti su ascolti sulle piattaforme di streaming: internet ci ha dato la possibilità di emozionarci e tifare per qualsiasi cosa. Costruirsi un fandom online è d’altra parte utile per salvare le industrie in difficoltà e nessun esempio è calzante come quello della Hollywood che produce solo remake e film per supereroi: indimenticabile la lotta dei fan DC Comics per il rilascio della versione integrale di Justice League di Zack Snyder, progetto che il regista aveva dovuto abbandonare per motivi personali e che aveva mortalmente deluso il suo pubblico all’uscita nel 2017, diventato poi nel 2021 una speciale uscita Hbo, ma le polemiche scatenate dagli agguerritissimi weeb, nerd e fumettari online sarebbero troppo lunghe da elencare. Basterà ricordare che negli ultimi anni hanno criticato e di fatto cambiato il casting di personaggi fittizi perché non aderenti ai loro canoni, boicottato o spinto con entusiasmo una nuova uscita, esaltato o distrutto l’interpretazione di questo o quell’attore che avesse avuto la sciagura di essere il protagonista di un film tratto da un graphic novel.
In maniera certamente più ridotta, la stessa dinamica si può osservare anche nel mondo dei media, dove sempre più giornalisti, tramite i social, sono riusciti a costruirsi veri e propri brand personali che spesso si sono riversati in newsletter a pagamento, complice il successo di piattaforme come Substack, riaccendendo la speranza che potesse ancora esistere un modello di business che prevedesse di pagare per leggere notizie e approfondimenti. Da Platformer di Casey Newton, ex reporter di The Verge esperto di tech che nel 2020 ha lanciato la sua newsletter personale, a Blackbird Spyplane, newsletter dedicata allo stile fondata da Jonah Weiner e Erin Wylie e che vanta in portfolio interviste eccellenti con Jerry Seinfeld, André 3000, Ezra Koenig e Tyler, The Creator tra gli altri, oggi le grandi testate si trovano nella spinosa situazione di dover regolamentare gli account personali dei propri giornalisti, come fanno il New York Magazine e il New York Times, perché siano allo stesso tempo sì famosi abbastanza da amplificare i contenuti presso la loro community di riferimento, ma non troppo famosi da eclissare o peggio mettere in imbarazzo il giornale che li stipendia. E poi ci sarebbero TikTok, Twitch e il modo di stare sui social che ha la Generazione Z, argomento che meriterebbe un saggio a parte, ma che come spiega Vincenzo Marino nel suo Sei vecchio. I mondi digitali della Generazione Z (nottetempo) segna un ulteriore spostamento dell’asticella. Introiettato il concetto di personal branding al punto che la più sconosciuta tiktoker del Midwest può dar fastidio a Chanel criticandone il calendario dell’Avvento «perché è diverso dalle foto» (cosa realmente successa, nel dicembre 2021), tutto per i ragazzi di oggi è occasione di contenuto e qualsiasi loro coetaneo un probabile eroe quotidiano, da seguire però con un distacco ironico che potrebbe svoltare dall’altra parte in qualsiasi momento. «Se lo fa Alix lo faccio anche io», ripetono i commenti sotto ai vlog caotici della biondissima Alix Earle, che nel momento in cui scrivo è una delle creator più in vista della piattaforma, mentre si è conclusa da qualche settimana una guerra su un mascara di L’Oréal spavaldamente pubblicizzato da Mikayla Nogueira, quasi 15 milioni di follower, con delle ciglia finte, subito individuate dai fan e diventato l’oggetto di migliaia di duetti, commenti e articoli. Lei non ha mai risposto alle accuse, è tornata dopo una settimana più spavalda di prima, perché i veri fan alla fine rimangono, ti supportano anche se sbagli, fanno il tifo per te nei momenti più duri, sennò che fan sono. Anche io, un po’, rimango ancora fan dei Killers.